03 agosto 2015

La dieta per favorire il concepimento


Uno stile di vita sano è un elemento imprescindibile quando si decide di avere un bambino.  

La giusta attività fisica, una corretta alimentazione e la messa al bando di fumo, alcool e sostanze nocive, permettono non solo si diminuire le probabilità di problemi in gravidanza ma al contempo, anche diaumentare le possibilità di concepimento.
Uno studio pubblicato sul Journal of Nutritional & Enviromental Medicine e condotto su 367 coppie che avevano precedentemente sofferto di infertilità primaria e secondaria, ha messo in evidenza l’importanza di una corretta alimentazione e i suoi risvolti sulla fertilità.
Le donne partecipanti avevano un’età media di 34 anni e i maschi di 36.
Lo studio è durato ben 3 anni, le coppie sono state sottoposte a  un preciso programma alimentare e l’89% di esse è riuscita a concepire un bambino e dare alla luce bimbi sani. Non si è registrato alcun aborto spontaneo, tutti bimbi sono nati normopeso e in buona salute.
Delle 204 coppie con problemi di fertilità, l’86% ha portato a termine la gravidanza. Se considerate che le tecniche di procreazione assistita hanno una percentuale di successo mediamente del 25% (1 su 4), potete ben capire l’importanza dello studio: una cura mirata allo stile di vita influisce direttamente sull’esito della gravidanza.

Quali sono i cambiamenti utili da apportare alla dieta?

Vediamoli assieme. Innanzitutto al giorno d’oggi è sempre più complicato assumere le sostanze nutritive essenziali a causa degli alimenti sempre più lavorati e impregnate di sostanze tossiche (come pesticidi). Però tutto ciò che mangiamo e beviamo può influire sulla nostra fertilità e ciò non va sottovalutato.
Per capire se ci sono particolari carenze si potrebbe fare qualche analisi particolare, come l’esame della composizione mineraria del capello ad esempio. In ogni caso si può cominciare semplicemente iniziando a scindere tra alimenti “buoni” e “cattivi”.
Seguire una dieta sana pre-concepimento significa semplicemente introdurre tutte le sostanze nutritive per concepire e far crescere bene il bambino eliminando al contempo tutte quelle sostanze che interferiscono con questo processo.
Tra le varie sostanze che interferiscono con la fertilità ci sono: caffeina, fumo di sigaretta, alcool, droghe, mercurio, piombo, pesticidi e diserbanti.
La dieta pre-concepimento (e per dieta non si intende un programma per perdere peso!)oltre a bandire tali sostanze si propone di fornire alla coppia tutte le sostanze necessarie per il concepimento e una gravidanza salutare.
Il massimo sarebbe quello di poter disporre di un orticello dove coltivare pomodori, carote, frutta… ma non è possibile al giorno d’oggi, soprattutto per chi vive in città.
I prodotti biologici che acquistate vanno bene ma solo se effettivamente tali. Attenzione sempre a quello che comprate, mi raccomando! Qualità prima di tutto! Ne va della vostra salute.
Servono circa 3 mesi di corretta alimentazione affinché la coppia possa iniziare a sentire i primi benefici del nuovo stile di vita.
La dieta pre-concepimento consiste nella giusta quantità di carboidrati, grassi , proteine, fibre, molta acqua (pura). 

Carboidrati

I carboidrati  si dividono in semplici (zuccheri) e complessi (amidi e fibre), entrambi sani ed importanti.
Quando gli zuccheri semplici vengono lavorati per ottenere biscotti, dolci, bevande frizzanti o caramelle, perdono qualsiasi minerale e vitamina, non fanno altro che aumentare i livelli di zucchero nel sangue senza fornire alcuna sostanza nutritiva necessaria.
Meglio quindi tralasciare fonti come lo zucchero raffinato, la farina bianca, il pane e la pasta bianca, dolciumi, biscotti, bevande gassate, marmellate e gelatine, e meglio optare per pari alimenti integrali e cereali. E ovviamente ottima fonte di carboidrati sono la frutta, le patate, i legumi e la verdura fresca o cotta a vapore.

Proteine

Le proteine svolgono un ruolo importantissimo nel nostro corpo in quanto “mattoncini” essenziali di muscoli, enzimi, organi , tessuti, capelli…
Le proteine sono catene di amminoacidi che hanno un ruolo importantissimo anche nella fertilità.
La spermina e la spermidina hanno un ruolo fondamentale nella sintesi dello sperma  e maschi con una bassa conta di spermatozoi hanno anche bassi livelli di entrambe. I livelli di spermina e spermidina possono essere ripristinati con gli alimenti e gli integratori giusti. Da evitare fonti proteiche come le torte e le merende preconfezionate, salsicce, salami, hamburger, wurstel, patè e carni lavorate.

Grassi

Quando si sente nominare la parola grasso di pensa ahimè troppo spesso in negativo. Ci sono grassi e grassi +. Alcuni di questi infatti sono fondamentali per la fertilità. I grassi “buoni” sono rappresentati da i grassi non saturi, che si trovano in pesce, oli, noccioline, semi e contengono acidi grassi essenziali che non possono essere sintetizzati dall’organismo e devono essere introdotto con la dieta. Ok quindi ad omega 3-6 9 mentre le fonti di grassi “cattivi” da evitare sono rappresentate da: carne rossa, agnello, maiale, panna, formaggi grassi, olio di palma, margarina, pasticci, biscotti, torte, patatine fritte, cibi fritti in genere, gelati e barrette di cereali.

Fibre

Le fibre hanno un ruolo fondamentale nel conservare sano il sistema digerente e eliminare sostanze tossiche dall’organismo.
Le fibre aiutano anche ad alleviare i sintomi di alcune patologie come endometriosi, sindrome dell’ovaio policistico (PCOS) che sono associate ad alti livelli di estrogeni nel corpo. Le fibre agiscono impedendo agli estrogeni di essere riassorbiti nel sangue.

Acqua

Assicurarsi sempre che l’acqua sia di buona qualità e priva di sostanze inquinanti. Sono raccomandati almeno 8 bicchieri di acqua al giorno.

Vitamine e minerali

Alcune vitamine (ad esempio l’acido folico) e alcuni minerali sono importantissimi prima, durante e dopo la gravidanza.
Ecco uno schema riguardante le quantità raccomandate dei principali nutrienti:
Vitamina A: indispensabile per la produzione di ormoni sessuali femminili. Non vanno assunti integratori di Vitamina A nè durante la gravidanza, nè quando si è in procinto di concepire. Alti tassi di retinolo infatti sono associati a possibili anomalie fetali.
VitamineB : è un gruppo di vitamine molto importanti per la fertilità e il loro assorbimento è inibito da fumo, alcol, stress e antibiotici. L’ipotalamo che rilascia gli ormoni sessuali è molto sensibile alle carenze di vitamina B.
  • Vitamina B1: la carenzadi questa vitamina è associata ad assenza di ovulazione o a mancato impianto dell’ovulo.
  • Vitamina B2: la sua carenza è associata a sterilità, aborto spontaneo e scarso peso alla nascita.Il fegato usa la vit. B2 per eliminare gli ormoni che hanno esaurito il loro compito e che potrebbero, se accumulati, interferire nelle comunicazioni  per la produzione di ormoni nuovi, determinando così disfunzioni.
  • Vitamina B5: importante al momento del concepimento per lo sviluppo del feto.
  • Vitamina B6: importante  per la formazione degli ormoni sessuali femminili.
  • Vitamina B12: necessaria per la sintesi di DNA e RNA.
  • Folati: Livelli di assunzione raccomandati  per le donne in gravidanza 400 mcg/giorno,
Vitamina C:antiossidante e contrasta i radicali liberi ma un eccesso (più di 1000 mg/giorno) può agre come antistaminico e asciugare il muco cervicale.Vitamina E: da studi l’associazione di questa vitamina con la Vitamina C, ha effetti positivi sull’ovulazione. Ha effetti positivi anche sulla funzionalità degli spermatozoi.Zinco: aiuta al mantenimento dei livelli ormonali negli uomini e nelle donne . E’ una componente importante del liquido seminaleFerro: la carenza di ferro può influire negativamente sulla fertilità, mentre una sua adeguata presenza può aiutare a prevenire gli aborti spontanei.Selenio: una carenza di selenio è associata a infertilità e rischio di abortoCalcio: carenza è associata a scarso peso alla nascita e a nascite prematureMagnesio: come nel caso del selenio, una sua carenza è associata a infertilità e rischio di abortoManganese: secondo alcuni studi una carenza di manganese è associata a disfunzioni  nell’ovulazione  e inibisce la sintesi di ormoni sessuali.Co-Enzima Q10: la sua integrazione può innalzare i tassi di fertilizzazione nelle pratiche di fecondazione in vitro.
Per capire dove sono contenuti questi nutrienti vi consiglio di utilizzare questo database dell’Istituto Nazionale di Ricerca per gli alimenti e la nutrizione (INRAN): http://www.inran.it/646/tabelle_di_composizione_degli_alimenti.html
Fonti:

Marina Nicholas, 3 steps to fertility

Zita West:Fertilità e concepimento 
http://www.periodofertile.it 

01 agosto 2015

Alimentazione e geni: le risposte della nutrigenomica per il sistema cardiovascolare e in oncologia


Abbiamo chiesto a Francesco Visioli, professore di Nutrizione Umana all'Università di Padova (Dipartimento di Medicina Molecolare), quali risposte può dare la nutrigenomica e le prospettive future.

Rispetto a quello che sappiamo oggi: fino a che punto, in che misura l'alimentazione interagisce con i geni?
Molto più di quanto pensiamo. Anche se l'uomo si evolve "in toto" abbastanza lentamente, il profilo genetico in realtà si modifica con rapidità sorprendente. Un esempio è quello della tolleranza al lattosio, che segue il corso delle migrazioni e della pastorizia. In un certo senso l'interazione geni-alimentazione è bidirezionale: i geni influiscono sugli effetti dell'alimentazione e viceversa.
Che tipo di risposte può dare oggi la nutrigenomica? Ci sono (o quali sono) aspetti limitanti nella ricerca?La nutrigenomica può dare varie risposte utili a indirizzare la dieta. Un individuo che geneticamente metabolizza l'alcool lentamente dovrà usarlo in modo diverso da chi lo metabolizza velocemente. Inoltre, individui con maggior propensione ad alcune patologie (es. il diabete) potranno e dovranno cambiare l'alimentazione per minimizzare il rischio. Lo stesso si può dire per il controllo del peso corporeo o della pressione arteriosa.
I limiti attuali sono rappresentati più che dai costi (in continua discesa) dalla difficoltà di analizzare e interpretare la moltitudine di dati che escono dalle analisi. In futuro si dovrà lavorare a livello informatico proprio per distillare le informazioni importanti in poco tempo.
Quali sono le linee di ricerca più promettenti?Le linee di ricerca più promettenti riguardano due grandi aree della ricerca biomedica: sistema cardiovascolare e oncologia. Per quanto riguarda il sistema nervoso centrale le ricerche sono, a mio avviso, ancora arretrate. Nel campo cardiovascolare sappiamo molto più di quanto il grande pubblico creda e possiamo (entro certi limiti) orientare i pazienti verso diete più adatte al loro profilo genetico. Per i tumori e la loro prevenzione il discorso è più complesso, ma si può anche in quel caso saggiare diete o profili dietetici che, per esempio, agiscano sull'infiammazione.
In cosa è consistito il vostro lavoro su tessuto adiposo e geni e a quali conclusioni siete giunti?Abbiamo svolto varie ricerche in questo campo. La più interessante di queste dimostra che l'idrossitirosolo, un composto con interessantissime azioni biologiche, che si trova nelle olive e nei loro derivati oppure si trova di sintesi, modula, nel tessuto adiposo, l'espressione di geni legati all'ossidazione/antiossidazione e all'infiammazione. Questo spiega in parte - a livello genetico - perché il consumo d'olio d'oliva extra-vergine si associa a minor incidenza di patologie cardiovascolari, anche se i suoi effetti sulla colesterolemia sono minimi.
Francesca De Vecchi

17 luglio 2015

Fondamentale l'uso degli enzimi nel trattamento delle patologie autoimmuni



La completa digestione degli alimenti e la riduzione degli antigeni residui nell'intestino ha un forte rilievo nel trattamento delle patologie autoimmuni e l'uso degli enzimi è una delle armi più frequentemente utilizzate, al pari degli antinfiammatori, dei regolatori immunitari e dei probiotici, nel piano terapeutico di ogni persona.
Molti pensano alle patologie autoimmuni come a malattie in cui si costruiscano anticorpi contro il proprio "self" che facilitino l'autodistruzione. Il tema è dibattuto, perché in realtà molti autoanticorpi esistono "normalmente" in persone che non hanno nessun tipo di disturbo e in molte situazioni, come nella tiroidite di Hashimoto, la presenza di autoanticorpi, anche a livelli elevati, non significa necessariamente che la tiroide smetta di funzionare. Ciò che genera "malattia" è la reazione infiammatoria, quasi sempre stimolata anche dal contatto tra intestino e cibo che assume così un ruolo spesso determinante. L'innesco di questo meccanismo può essere dovuto a citochine come BAFF (B Cell Activating Factor) e PAF (Platelet Activating Factor) che attivano a cascata una risposta immunologica diretta. Gli autoanticorpi non determinano necessariamente una lesione d'organo, ma possono invece creare, con alcune proteine assorbite dall'intestino e non ancora completamente digerite, dei reticoli complessi, quasi dei veri e propri "grumi", che vengono filtrati e trattenuti da alcuni organi e che generano una attivazione a cascata di reazioni infiammatorie di forte impatto sull'intero organismo.
Il malassorbimento intestinale, l'infiammazione da cibo e la "leaky gut syndrome" (situazione in cui la permeabilità intestinale è aumentata) sono tutte situazioni che facilitano la comparsa di malattie autoimmuni. Basti pensare per esempio alle strette relazioni tra tiroidite e Gluten sensitivity. Come ha descritto Fasano (1), l'aumentata permeabilità intestinale è la possibile causa di molte malattie autoimmuni e la completa digestione enzimatica della gliadina, ottenuta da proteasi prodotte dall'Aspergillo, è in grado di ridurre o annullare la risposta reattiva delle cellule T sensibli al glutine (2).
Quest'ultimo lavoro spiega perché la completa digestione della gliadina può ridurre la reazione che porta poi, nei soggetti predisposti, allo sviluppo della celiachia.
Quindi le reazioni autoimmuni sono spesso stimolate dalla presenza di un reticolo di proteine indigerite in cui gli autoanticorpi fanno da "legante", attivando l'azione del Complemento (dosabile nel sangue come C3 e C4) che viene consumato e si presenta in questi casi spesso ridotto. Il fatto che la grande maggioranza delle malattie autoimmuni, infiammatorie e allergiche tragga beneficio dall'utilizzazione a cicli ripetuti di enzimi digestivi fa capire che la cattiva digestione è una concausa importante di questi disturbi e tra le tante sicuramente una concausa facilmente risolvibile.
1) Fasano A. Clin Rev Allergy Immunol. 2012 Feb;42(1):71-8. doi: 10.1007/s12016-011-8291-x
2) Toft-Hansen H et al, Clin Immunol. 2014 Aug;153(2):323-31. doi: 10.1016/j.clim.2014.05.009. Epub 2014 Jun 3.
Attilio Speciani

13 luglio 2015

La radice di Rehmannia glutinosa ad attività probiotica ed antiobesità

Questo studio clinico ha indagato l'effetto anti-obesità della radice di Rehmannia glutinosa Libosch (Shu Dihuang), un rimedio erboristico cinese ampiamente utilizzato per il trattamento delle malattie metaboliche. Per comprenderne il meccanismo d'azione dei benefici effetti della R. glutinosa, sono stati indagati i cambiamenti nella flora intestinale dopo il trattamento con questa radice attraverso l'analisi 16S rRna pyrosequencing gene-based. Dodici soggetti di mezza età di sesso femminile (40-65 anni), con indice di massa corporea (Bmi) superiore a 25 sono stati incl usi in questo studio che ha previsto l'assunzione di radici di R. glutinosa, trattate al vapore, per otto settimane. I soggetti sono stati valutati nelle misure antropometriche ogni due settimane e campioni fecali sono stati raccolti prima e dopo il trattamento. Tutti i soggetti hanno mostrato una circonferenza della vita notevolmente diminuita dopo il trattamento a base di erbe. La relativa abbondanza di flora microbiotica fecale ha suggerito l'associazione fra l'assunzione di R. glutinosa con lo sviluppo di Actinobatteri e Bifidobatteri, e diminuzione dei Firmicutes e Blautia. Sulla base di questi risultati, non si può escludere che una diminuzione delle circonferenze della vita dopo l'assunzione di R. glutinosa possa essere correlata alla modificazione della flora intestinale.

Food Funct.2015 Jul 3.

Vittorio Mascherini
CERFIT
Regione Toscana, Università di Firenze


07 luglio 2015

Con elevato consumo di zuccheri raffinati aumenta la frequenza di depressione

Il consumo di alimenti contenenti alcuni zuccheri, ma non di tutti, si associa alla presenza di disturbi depressivi, almeno secondo le conclusioni di uno studio pubblicato sull'American journal of clinical nutrition da James Gangwisch, professore associato di psichiatria alla Columbia university, che assieme ai colleghi ha voluto chiarire se gli alimenti con indice glicemico (Gi) più alto fossero associati a una maggiore frequenza di sintomi depressivi. «Quand'ero bambino mangiavo molte caramelle, e dopo averne mangiate tante mi sentivo giù di corda» esordisce il ricercatore che pur non toccando caramelle da anni è rimasto con la curiosità di sapere se una dieta a base di cibo spazzatura possa contribuire a rendere depresso chi la consuma. Così i ricercatori hanno esaminato i dati di circa 70.000 partecipanti al trial Women's health initiative, nessuna delle quali depressa all'inizio dello studio, scoprendo che i regimi alimentari ad alto indice glicemico, compresi quelli ricchi di cereali raffinati e zuccheri aggiunti, si associano effettivamente a maggiori probabilità di sviluppare depressione nel corso degli anni. «Ma alcuni ingredienti hanno invece effetti protettivi contro i sintomi depressivi, tra cui le fibre, i cereali integrali, i frutti interi, la verdura e il lattosio, lo zucchero a basso indice glicemico contenuto nel latte e nei prodotti lattiero-caseari» riprende l'autore, sottolineando che questo protocollo di studio rende impossibile individuare un rapporto causale tra dieta e depressione. «Ciononostante, il consumo eccessivo di zuccheri e amidi raffinati è un fattore di rischio per l'infiammazione e le malattie cardiovascolari, malattie entrambe collegate allo sviluppo di depressione» ipotizzano i ricercatori, aggiungendo che questo tipo di dieta potrebbe anche portare a un'insulino-resistenza periferica, anch'essa legata alla comparsa di deficit cognitivi simili a quelli trovati nei pazienti con depressione maggiore. «Sono necessari ulteriori studi per approfondire l'argomento e in particolare l'eventuale nesso causa effetto alla base dell'associazione tra zuccheri aggiunti e depressione emersa da questi risultati» conclude Gangwisch.



02 luglio 2015

LA STEATOSI EPATICA NON ALCOLICA SI ASSOCIA AL CONSUMO DI BEVANDE ZUCCHERATE

Il consumo regolare di bevande zuccherate si associa a una maggiore prevalenza di steatosi epatica, secondo un ampio studio osservazionale appena pubblicato sul Journal of Hepatology e coordinato da Jiantao Ma dell'Human Nutrition Research Center on Aging alla Tufts University di Boston, Massachusetts. In particolare, analizzando i dati dei discendenti della coorte originaria del Framingham Heart Study, emerge che gli adulti che bevono abitualmente drink zuccherati hanno maggiori probabilità di sviluppare steatosi epatica non alcolica rispetto ai non consumatori. Per giungere a questi risultati i ricercatori hanno studiato 2.634 adulti di mezza età suddividendoli in consumatori o non consumatori di bevande zuccherate. Tra i primi, la cola con caffeina è risultata la bevanda preferita, bevuta nel 40% dei casi, seguita dalle bevande non gassate alla frutta, 29%, da quelle gassate senza cola, 21%, e dalla cola senza caffeina nel 10%. 





























J Hepatology 2015. doi: 10.1016/j.jhep.2015.03.032

06 giugno 2015

Pasta di fagioli: buona e leggera

Esiste una pasta senza glutine 
che non scuoce e non fa ingrassare. Stiamo parlando di un nuovo prodotto alimentare proveniente dai laboratori dell´Università Cattolica di Piacenza. Questa ricetta è a base di farina di fagiolo dal basso indice glicemico. Perfetta per i celiaci e per chi teme l’aumento di peso e l´incidenza di malattie metaboliche causati dal consumo di alimenti "gluten free".
"I risultati ottenuti sono molto promettenti" ha dichiarato Francesco Masoero, direttore dell´Istituto di Scienze degli alimenti e della nutrizione, che ha aggiunto: "i dati mostrano come l´inclusione di farina di fagiolo possa ridurre notevolmente l´indice glicemico della pasta, senza però modificare le principali caratteristiche tecnologiche del prodotto".
Per ricreare questa farina di fagioli, i ricercatori hanno utilizzato tra gli ingredienti una farina ricavata da diverse varietà di fagiolo, ottenendo in via sperimentale una pasta che resiste di più alla cottura e dal gusto e dal profumo eccellenti. Ecco quanto dichiarato da Gianluca Giuberti, coordinatore del progetto di ricerca: "Sarà quello di valutare definitivamente l´efficacia dimagrante di questi prodotti su persone affette da celiachia".

27 maggio 2015

Neuropatie: e se fosse colpa della celiachia?

L’ipotesi arriva da uno studio condotto su quasi trentamila svedesi. Le malattie avrebbero alcuni meccanismi immunologici comuni,  primi sintomi, nella maggior parte dei casi, restano confinati all’intestino e comprendono il gonfiore addominale e la dissenteria. Ma le conseguenze a lungo termine della celiachia, una malattia autoimmune che si manifesta in persone predisposte dopo l’ingestione di glutine, possono estendersi oltre l’apparato digerente e giungere al sistema nervoso periferico. A suffragare l’ipotesi è uno studio pubblicato su Jama Neurology.




  
  Celiachia e fegato: quale relazione?

LA RICERCA - I ricercatori (Università di Orebro, Columbia University e Karolinska Institutet) lo hanno realizzato raccogliendo da 28 reparti di patologia generale della Svezia, tra il 2006 e il 2008, i dati relativi alle biopsie intestinali dei celiaci. Oltre ventottomila i pazienti arruolati, le cui condizioni neurologiche sono state messe a confronto con quelle di 139mila individui inseriti nel gruppo di controllo. Dall’indagine è emerso che 198 celiaci avevano sviluppato nel tempo una neuropatia periferica (lo 0,7%): una percentuale più bassa rispetto a quella riscontrata tra le persone sane (0,3%). Il rischio assoluto che un celiaco sviluppasse deficit sensitivi, motori o vegetativi corrispondeva a 64 individui su centomila, rispetto ai 15 (sempre su centomila) soggetti sani potenzialmente esposti alla malattia nell’arco di un anno. La probabilità era dunque più alta di 2,5 volte tra i celiaci. Tre le forme di neuropatia più spesso riscontrate tra i celiaci: la forma demielinizzante infiammatoria cronica, la neuropatia autonomica e la mononeurite multipla.

    Celiachia, l’unica “terapia” è la dieta senza glutine

DALL’INTESTINO AL…SISTEMA NERVOSO - La ricerca ha aggiunto un tassello al puzzle della malattia, di cui in Italia soffrono almeno 164mila persone, stando ai dati inseriti nella relazione annuale sulla celiachia presentata al Parlamento. Non è però la prima volta che il disturbo viene riscontrato più di frequente in chi soffre di una neuropatia periferica. L’evidenza era già stata documentata nel 2012, in uno studio pubblicato sul Journal of Clinical Neuromuscular Disease. «In effetti diverse ricerche condotte su cadaveri hanno rilevato la presenza di infiltrato linfocitario in pazienti celiaci che avevano una neuropatia cronica o un’atassia cerebellare - afferma Angelo Quattrini, responsabile dell’unità di neuropatologia sperimentale dell’ospedale San Raffaele di Milano -. Alla base della celiachia e di alcuni disturbi del sistema nervoso potrebbe esserci un’origine autoimmune comune». L’associazione sarebbe bidirezionale. In un’analisi separata, infatti, i ricercatori hanno notato che i pazienti con neuropatia hanno un rischio più alto di andare incontro alla celiachia. Un’evidenza che, secondo Jonas Ludvigsson, docente di epidemiologia clinica al Karolinska Institutet di Solna, «dovrebbe tornare utile ai neurologi, quando si trovano di fronte a un paziente con una neuropatia senza un’origine - infettiva, infiammatoria o metabolica: la neuropatia rimane una delle più gravi complicanze del diabete - definita. In questi casi occorrerebbe procedere allo screening per la celiachia: chi risultasse positivo, potrebbe veder migliorare la propria condizione seguendo una dieta senza glutine».

    La sensibilità al glutine non è la celiachia: di cosa si tratta?

LE ALTRE “FACCE” DELLA CELIACHIA - Se ne parla ancora troppo di rado, ma lo spettro delle manifestazioni cliniche della celiachia è eterogeneo. La malattia, che si manifesta dopo l’ingestione di glutine, risulta collegata a un aumento delle diagnosi di altre condizioni autoimmuni: come il diabete di tipo I, la tiroidite di Hashimoto, il lupus eritematoso sistemico, la psoriasi e le forme di epatite autoimmune. Tra i celiaci risultano più frequenti anche le fratture e le diagnosi di osteoporosi, oltre ai disturbi legati alla sfera riproduttiva della donna.

Fabio Di Todaro
@fabioditodaro



16 maggio 2015

La nutrizione come potenziale strumento terapeutico nella fibromialgia




Un gruppo italiano ha deciso di revisionare, attraverso una ricerca sistematica effettuata su Medline dal 2000 a quest'anno, le attuali conoscenze sul legame tra fibromialgia e nutrizione. Obiettivo: individuare linee guida nutrizionali per supportare il paziente durante la terapia e migliorare la qualità della vita. La sindrome fibromialgica (Fm) è infatti una malattia cronica, caratterizzata da dolore generalizzato di solito associato ad alcuni sintomi, come fatica cronica, disturbi del sonno, mal di testa, sindrome del colon irritabile e disturbi dell'umore. Oggi diversi sono i trattamenti possibili, ma le più recenti linee guida suggeriscono che i risultati migliori si ottengono con un approccio multidisciplinare che combina trattamenti farmacologici e non farmacologici, tra cui un ruolo di spicco ricopre ovviamente la nutrizione. Obesità e sovrappeso, spesso presenti in questi pazienti, sono correlati alla gravità della patologia e contribuiscono al peggioramento della qualità della vita in termini di dolore maggiore, fatica nel compiere i movimenti quotidiani, scarsa qualità del sonno e maggiore incidenza di disturbi dell'umore. Il controllo del peso è quindi uno strumento efficace per migliorare i sintomi. Inoltre, sembra ragionevole eliminare alcune sostanze dalla dieta, quali per esempio le "eccitotossine" come il glutammato, l'aspartato e la cisteina. La sensibilità al glutine non celiachia, merita un occhio di riguardo poiché non solo è sempre più riconosciuta come una condizione frequente, ma può presentare manifestazioni simili che si sovrappongono a quelle di Fm. L'eliminazione del glutine dalla dieta di questi pazienti può essere, a ragione, considerato un potenziale intervento dietetico in grado di portare a un miglioramento clinico. 



















Rossi A, Di Lollo AC, Guzzo MP, Giacomelli C, Atzeni F, Bazzichi L, Di Franco M. Fibromyalgia and nutrition: what news? Clin Exp Rheumatol. 2015 Mar-Apr;33 Suppl 88(1):117-125.
Silvia Ambrogio

13 maggio 2015

Rischio di diabete di tipo 2 da ripetuti cicli di antibiotici per alterazioni del microbiota intestinale


L'esposizione ripetuta ad alcuni gruppi di antibiotici può aumentare il rischio di sviluppare diabete di tipo 2. 
Lo riporta un ampio studio da poco apparso sullo "European Journal of Endocrinology". 
L'idea di fondo è che gli antibiotici, di cui nei Paesi occidentali si fa largo impiego, possono alterare la flora batterica intestinale (oggi più frequentemente definita come "microbiota") che, sia in modelli animali sia nell'uomo, influenza vie metaboliche importanti nella patogenesi di obesità, insulino-resistenza e diabete.  In base a queste premesse, gli autori della ricerca hanno voluto verificare se il fatto di essere stati esposti in passato ad antibiotici potesse determinare un rischio maggiore di sviluppo di diabete. 
Utilizzando un ampio database relativo alla popolazione del Regno Unito, sono stati identificati i pazienti con diagnosi di diabete e, per ogni caso, quattro controlli di pari età e genere, trattati nello stesso centro e con un follow-up di durata sovrapponibile.
 In totale lo studio ha riguardato oltre un milione di persone: 208.002 soggetti diabetici e 815.576 controlli. Le analisi effettuate dagli studiosi hanno rivelato che l'esposizione a un solo ciclo di antibiotici non risulta associata a un aumento del rischio di diabete, mentre coloro ai quali erano stati prescritti da due a cinque cicli di antibiotici - quattro tipi, in particolare: penicilline, cefalosporine, chinolonici e macrolidi - mostravano una maggiore probabilità di sviluppare diabete di tipo 2, con un rischio proporzionale al numero di antibiotici prescritti. 
Nel calcolo del rischio, gli autori hanno aggiustato i dati tenendo conto degli altri fattori di rischio per diabete, come obesità, fumo, presenza di coronaropatia e infezioni. È stato così determinato che 2-5 cicli di penicillina sarebbero associati a un aumento del rischio di diabete dell'8% (odds ratio, Or, aggiustato: 1,08; 95% CI: 1,05-1,11), mentre in caso di oltre 5 cicli il rischio risulterebbe aumentato del 23%. Per quanto concerne i chinolonici, con 2-5 cicli l'aumento del rischio di diabete sarebbe del 15% (Or: 1,15; 95% CI: 1,08-1,23) e, con oltre 5, si salirebbe al 37%. Non è stata trovata, invece, alcuna associazione tra il rischio di sviluppare diabete ed esposizione ad antivirali e antifungini.
In conclusione, anche se lo studio non dimostra una relazione causa-effetto, la modificazione numerica e qualitativa del microbiota intestinale determinata da agenti antimicrobici potrebbe spiegare il rapporto osservato tra utilizzo di antibiotici e rischio di diabete, inducendo a tenere in maggiore considerazione tale legame.

08 maggio 2015

I test nutrigenetici, un valido aiuto per dieta e salute

Una nutrizione mirata e precisa, grazie alla conoscenza della diversità genotipica di ciascun individuo, sta diventando sempre più importante nella prevenzione di un vasto numero di patologie e ha permesso lo sviluppo di nuove terapie sperimentali coadiuvanti la cura e il miglioramento di malattie complesse: malattie metaboliche, neurodegenerative, neoplastiche, cardiovascolari, danni da stress ossidativo. La conoscenza e la corretta interpretazione di variazioni genetiche in geni-chiave del metabolismo di determinati nutrienti ci permette di avere un'arma in più nella difesa dagli effetti negativi dei fattori ambientali sulla nostra salute. Allo stesso tempo ci permette di scegliere un'alimentazione e uno stile di vita più compatibilicon il nostro materiale genetico. 

Ciò che determina la qualità del test nutrigenetico sono le basi scientifiche, derivanti da studi pubblicati su riviste internazionali, attraverso cui vengono selezionati i geni e le rispettive varianti da analizzare. L'affidabilità di un test si valuta dalla trasparenza dell'informazione genetica, ovvero dalla presenza nel referto di un'elenco dettagliato dei geni, delle varianti analizzate e da appropriati riferimenti bibliografici, che dimostrino le basi scientifiche del servizio offerto.
Un test nutrigenetico valido non deve e non può fornire una diagnosi, né una prognosi della malattia, ma si deve focalizzare sui "fattori di rischio" intermedi come i livelli di omocisteina, colesterolo Ldl, ipertensione ecc. Lo scopo ultimo è quello di fornire indicazioni e linee guida sui valori ottimali di nutrienti essenziali da introdurre nella dieta per mantenere uno stato di salute ottimale. Attualmente esistono test che valutano circa 27 geni e relativi polimorfismi genetici che esercitano un importante ruolo nei processi di detossificazione, nel processo infiammatorio, nell'attività antiossidante, nella sensibilità all'insulina, nello stato di salute del cuore e delle ossa. In base ai risultati è fornita una tabella nutrizionale personalizzata, con le quantità giornaliere raccomandate di nutrienti e minerali e indicazioni dietetiche su come mettere in pratica queste informazioni con l'aiuto di un professionista del settore.
Elena Giordano

07 maggio 2015

Un avocado al giorno toglie il colesterolo di torno



Mangiare un avocado al giorno come parte di una dieta cardiologicamente sana, ipocolesterolemizzante e a moderato contenuto di grassi può aiutare a ridurre i livelli di colesterolo “cattivo” nei soggetti obesi ed in sovrappeso. Questo dato deriva da una ricerca che ha valutato gli effetti dell’avocado sui fattori di rischio tradizionali ed innovativi mediante la sostituzione degli acidi grassi saturi presenti in una dieta media con acidi grassi insaturi degli avocado stessi. In base ai risultati dello studio, rispetto alla dieta americana media, la concentrazione dell’ LDL, o “colesterolo cattivo”, risulta notevolmente ridotta dopo il consumo di una dieta a moderato contenuto in grassi che includa l’avocado. Le LDL sono risultate ridotte anche con lo stesso tipo di dieta senza avocado, o con una dieta a basso contenuto in grassi, ma non nella stessa misura. Gli altri elementi che sono risultati favorevolmente influenzati dalla dieta con avocado rispetto alle altre due comprendono colesterolo totale, trigliceridi, colesterolo non-HDL ed altro ancora. Questi elementi sono tutti considerati fattori di rischio cardiometabolico in modi indipendenti dagli effetti cardiologici degli acidi grassi.
Negli USA come in Europa gli avocado non sono ancora un alimento molto diffuso e possono risultare costosi, soprattutto in alcuni periodi dell’anno, ed inoltre molte persone non sanno come incorporarli nelle proprie diete se non con il guacamole: il guacamole però viene tipicamente consumato con le tortillas, che contengono molte calorie e sodio. Gli avocado, comunque, possono essere mangiati anche in insalata, con verdure, nei tramezzini o con altri alimenti proteici magri come pollo o pesce, o anche da soli. Oltre ai MUFA, gli avocado possono anche fornire altre sostanze bioattive che hanno sicuramente contribuito ai risultati dello studio, come fibre, fitosteroli ed altro ancora. Molte diete cardiologicamente sane raccomandano la sostituzione degli acidi grassi saturi con MUFA o acidi grassi poliinsaturi per ridurre il rischio di cardiopatie; ciò dipende dal fatto che i grassi sature poissono aumentare i livelli di colesterolo “cattivo” ed aumentare quindi il rischio di malattie cardiovascolari. La dieta mediterranea prevede frutta, verdura, granaglie integrali, pesci grassi e cibi ricchi in MUFA, come l’olio di oliva extravergine e la frutta a guscio. Proprio come negli avocado, la ricerca indica che questi ultimi non soltanto contengono grasso migliori, ma anche alcuni micronutrienti ed alcune componenti bioattive che possono svolgere un ruolo importante nella riduzione delle malattie cardiovascolari.
 (J Am Heart Assoc online 2015, pubblicato l’8/1)

06 maggio 2015

Nel diabete 2 la colazione sostanziosa aiuta il controllo metabolico


Nelle persone con diabete di tipo 2, chi consuma una colazione ad alta energia e una cena a basso contenuto calorico ha un miglior controllo della glicemia rispetto a chi fa il contrario. Ecco, in sintesi, le conclusioni di uno studio pubblicato su Diabetologia, prima autrice Daniela Jakubowicz del Wolfson medical center all'Università di Tel Aviv in Israele, da cui emerge che un simile schema alimentare potrebbe migliorare il controllo metabolico contribuendo a prevenire le complicanze del diabete di tipo 2. Il trial, basato su un protocollo randomizzato che ha incluso una piccola casistica di 18 persone fra 30 e 70 anni, 8 uomini e 10 donne, con diabete di tipo 2 da meno di 10 anni e indice di massa corporea tra 22 e 35 kg/m2, prevedeva l'assegnazione casuale dei pazienti a due regimi alimentari per una settimana: il primo con 2.946 kilojoule (kJ) a colazione, 2.523 kJ a pranzo e 858 kJ a cena; l'altro con la stessa energia totale, ma organizzato in modo diverso: 858 kJ a colazione, 2.523 kJ a pranzo e 2.946 kJ a cena. I livelli postprandiali di glucosio sono stati misurati in ciascun partecipante, così come i valori di insulina, C-peptide e GLP-1. Due settimane più tardi, i pazienti si sono scambiati i regimi alimentari e sono state ripetute le misurazioni. «I risultati dimostrano che la glicemia postprandiale era inferiore e i livelli di insulina, C-peptide e Glp-1 erano del 20% superiori nei partecipanti che seguivano la prima dieta rispetto alla seconda nonostante i due schemi alimentari contenessero il medesimo apporto energetico» afferma la ricercatrice. Queste osservazioni suggeriscono che una ridistribuzione giornaliera dell'introito calorico globale potrebbe influenzare il ritmo quotidiano della secrezione di insulina e GLP-1 postprandiale, portando a una sostanziale riduzione della glicemia dopo i pasti. «La migliore tolleranza al glucosio osservata dopo una prima colazione ad alta energia può essere in parte il risultato di una risposta delle cellule beta, che aumentano la secrezione di insulina al mattino, riducendo i picchi di glucosio postprandiale nei pazienti con diabete di tipo 2» conclude Jakubowicz.

Diabetologia. 2015; 58(5):912-9

10 aprile 2015

Emicrania: alimentazione tra le cause primarie di Attilio Speciani

La relazione tra emicrania e alimentazione ha superato le limitative classificazioni dell'emicrania da ristorante cinese (eccesso di glutammato nei cibi) o dell'emicrania scatenata da cioccolato o da vino. 

Le cause del dolore cefalico sono ormai molto più chiare se si valuta il preesistente stato di infiammazione su cui si innesta la reazione dolorosa. Nella maggior parte dei casi si tratta del superamento di un livello di soglia, stimolato magari dal glutammato, da un gamberetto o dai solfiti del vino, che agiscono come una "goccia che fa traboccare il vaso". 

L'infiammazione legata a stimoli provenienti dal quotidiano, come quelli dovuti a cibo, farmaci o stimoli tossicologici ripetuti, diventa quindi la causa primaria del fenomeno. 
Il rumore, il freddo e lo stress possono allora diventare gli stimoli finali che scatenano la crisi emicranica non certo per un loro effetto specifico ma per l'aggiunta di uno stimolo irritativo a un'infiammazione diffusa che rende reattive tutte le strutture dell'organismo. 

Ci sono alcuni importanti lavori che hanno correlato emicrania e alimentazione con questo innovativo paradigma. Il più recente, pubblicato da Alpay1 su Cephalalgiadescrive l'efficacia terapeutica di un test di valutazione delle IgG (come ad esempio Recaller o Biomarkers, oggi diffusi in Italia) e del relativo profilo alimentare individuale per la cura dell'emicrania. Gli anticorpi IgG verso alimenti sono indicatori di un'eccessiva assunzione2 del rispettivo gruppo alimentare e non esprimono certo una reazione avversa al cibo stesso, che rimane, secondo la teoria evoluzionistica, la fonte primaria di energia. 
Nel lavoro di Alpay, il controllo dietetico degli alimenti verso cui esisteva un aumentato livello di IgG ha portato in breve tempo alla significativa riduzione delle crisi emicraniche. 
Si tratta di uno dei primi lavori randomizzati, controllati e in doppio cieco svolti in questo campo. 

Riferendoci alla reattività al glutine non celiaca, Gluten sensitivity (descritta suNutrizione33), impressiona pensare che questa chiave di lettura fosse già stata descritta su Neurology nel 20013 e addirittura ripresa da Ford4 su Medical Hypothesisnel 2009, arrivando a parlare di "Gluten Syndrome" per i forti risvolti neurologici indotti dalla ingestione di un particolare alimento. 

Oggi sappiamo che l'emicrania non è prerogativa di una reattività al glutine ma che il glutine ne è spesso causa anche in soggetti non celiaci. Qualsiasi alimento è in grado, se usato in eccesso, di determinare reazioni infiammatorie che portano anche all'emicrania. L'impostazione diagnostica e quella terapeutica devono quindi prendere atto di queste conoscenze per una corretta ed efficace gestione del disturbo. 

1. Alpay K et al, Cephalalgia. 2010 Jul;30(7):829-37. Epub 2010 Mar 10
2. Ligaarden SC et al, BMC Gastroenterol.2012 Nov 21;12:166. doi: 10.1186/1471-230X-12-166
3. Hadjivassiliou M et al, Neurology 2001 Feb 13;56(3):385-388
4. Ford RP. Med Hypotheses. 2009 Sep;73(3):438-40

Attilio Speciani

Olio di pesce e chemioterapia: coesistenza incompatibile





Mangiare aringhe e sgombri o altre fonti di olio di pesce aumenta i livelli di acidi grassi polinsaturi (Pufa) n-3, che secondo esperimenti sui modelli murini potrebbero indurre resistenza alla chemioterapia nel trattamento del cancro. Questo è quanto conclude uno studio pubblicato su Jama oncology coordinato da Emile Voest del Cancer institute Netherlands ad Amsterdam. «I malati di tumore adottano spesso modifiche dello stile di vita che includono l'uso di integratori» esordisce il ricercatore, sottolineando la crescente preoccupazione riguardo l'assunzione di integratori durante la somministrazione di antitumorali, nonché sulla possibile interferenza in termini di risultati del trattamento. Così Voest e coautori hanno esaminato gli effetti dell'esposizione ai Pufa provenienti dal pesce o dall'olio di pesce tra i pazienti sottoposti a cure anticancro, reclutando anche cinquanta volontari sani per esaminare i livelli ematici di acidi grassi dopo l'ingestione di Pufa. «Tra i 118 malati di tumore che hanno risposto a un sondaggio circa l'uso di integratori alimentari, il 30% riferiva l'uso regolare, e l'11% occasionale, di integratori contenenti acidi grassi omega-3» riprendono gli autori, che hanno rilevato un aumento dei livelli ematici di Pufa n-3 nei soggetti sani che avevano assunto la dose giornaliera raccomandata di 10 ml di olio di pesce, con quasi completa normalizzazione otto ore dopo. Più lenta, ovviamente, è stata la normalizzazione dopo una dose di 50 ml. Anche mangiare 100 grammi di aringhe e sgombri aumenta i livelli ematici di Pufa n-3, mentre il tonno non ne influenza in alcun modo i livelli ematici e il salmone provoca un picco ridotto e di breve durata. 
«Questi risultati sono in linea con la crescente consapevolezza dell'attività biologica di diversi acidi grassi, mettendo in guardia sull'uso simultaneo della chemioterapia e dell'olio di pesce» aggiunge Voest. 












JAMA Oncol 2015. doi:10.1001/jamaoncol.2015.0388

01 aprile 2015

Diabete e uso ripetuto di antibiotici: un legame a doppio filo

L'uso ripetuto di antibiotici può aumentare il rischio di diabete di tipo 2, secondo uno studio pubblicato su European Journal of Endocrinology. I ricercatori, coordinati da Yu-Xiao Yang dell'Università di Pennsylvania, hanno analizzato i dati di un milione di persone nel Regno Unito scoprendo che nei soggetti cui erano stati prescritti almeno due cicli di quattro tipi di antibiotici diversi, penicilline, cefalosporine, chinoloni e macrolidi, le probabilità di sviluppare diabete aumentavano in modo direttamente proporzionale agli antibatterici assunti. Per dirla in numeri, da due a cinque cicli di penicillina aumentavano il rischio dell'8%, e più di cinque cicli del 23%. Viceversa, da due a cinque cicli di chinoloni aumentavano le probabilità di diventare di diabetici del 15%, che arrivavano al 37% per oltre cinque cicli. «I tassi maggiori di diabete associato ad antibiotici sono emersi aggiustando i dati per altri fattori di rischio del diabete come l'obesità, il fumo, le malattie cardiache e le infezioni» aggiunge Yang, sottolineando che sebbene lo studio non fosse progettato per verificare un nesso causa-effetto, una modifica nella biodiversità batterica intestinale potrebbe spiegare il legame tra antibiotici e rischio di diabete. «Tant'è che il microbiota influenza i meccanismi alla base dell'obesità, dell'insulino-resistenza e diabete in modelli umani e animali, e precedenti ricerche dimostrano che gli antibiotici possono alterare l'ecosistema digestivo» prosegue il ricercatore, sottolineando che la presenza di batteri in un distretto corporeo può contribuire allo sviluppo di uno stato infiammatorio in un altro, come dimostra per esempio la connessione tra gengivite e malattie cardiache. Cosa che secondo gli autori non impedisce di pensare come un simile legame possa esistere anche tra diabete e microbiota intestinale. «L'uso eccessivo di antibiotici è un problema in tutto il mondo, come anche la resistenza batterica, e questi risultati sono importanti non solo per comprendere lo sviluppo del diabete, ma come avvertimento per ridurre i trattamenti antibatterici inappropriati» conclude Yang.