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24 gennaio 2019

SONO CELIACO O NON LO SONO?

Oggi molte persone si chiedono se sono celiache ma quando fanno il test che il loro medico prescrive, il risultato è quasi sempre negativo, e potremmo dire “meno male!” ma purtroppo i sintomi rimangono e queste persone continuano a non tollerare il pane, la pasta e i biscotti.



Alcune di queste persone ricorrono al faidate, cercano su internet, eliminano tutti gli alimenti che contengono glutine e improvvisamente si sentono meglio nonostante il medico ed i test fatti dicessero il contrario.

Altre si rivolgono a nutrizionisti esperti che spiegano loro che è possibile che abbiano una predisposizione genetica alla celiachia ma di non averla ancora sviluppata, grazie a Dio!
E allora perché se non sono celiaci hanno i sintomi e togliendo i cereali con glutine e sostituendoli con quelli senza glutine stanno meglio?
Per spiegarlo con chiarezza vi devo raccontare una cosa.

Nel 2011 in febbraio a Londra c’è stata una Consensus Conference, cioè una conferenza a livello internazionale dove erano presenti tutti gli studiosi ed i professori  che lavorano in tutti i centri del mondo sulla celiachia. Durante questo importantissimo incontro è stato presentato uno studio fatto in collaborazione fra l’Università di Baltimora, pr Fasano (un Italoamericano) e l’Università di Napoli (pr.ssa Sapone).                 

In questo studio si affermava che oltre alla Celiachia e alla Allergia al glutine esisteva una terza patologia legata al glutine che è stata chiamata Sensibilità al Glutine Non Celiaca (SGNC). Nella prima si riscontrano un’alterazione di tutti gli anticorpi collegati alla Gliadina, proteina costituente importante del glutine e danni a livello dei villi intestinali, nella seconda si trovano quasi sempre anticorpi Ig E per la Gliadina alti mentre per la SGNC nella maggior parte dei casi (circa il 56%) si trovano alti anticorpi Ig G AntiGliadina Nativa.
Per fare sintesi e capirci bene in modo da non generare dubbi o preoccupazioni inutili riassumo. Quando qualcuno soffre di Sindrome del Colon Irritabile, nausea, gastralgia, sensazione di stanchezza, diarree ricorrenti, stipsi, dimagramento o obesità, depressione, dolori muscolari, acne ecc. bisogna che prima valuti con il proprio medico se è celiaco oppure allergico al glutine oppure se ha una SGNC ma consideriamo che tutte queste patologie sono presenti in non più del 20% della popolazione italiana quindi non tutti gli Italiani ma solo una piccola parte può avere davvero un problema con il glutine.
E allora se non tutti gli Italiani ma solo il 20% ha direttamente un problema addebitabile al glutine, tutti gli altri di cosa soffrono?
Vi do una piccola anticipazione ma ne parleremo nei prossimi articoli. La cosa più frequente è che si sia sviluppata un’Alterata Permeabilità Intestinale anche conosciuta come Leaky Gut  che è causata da un’infiammazione della parete intestinale.


Articolo scritto dalla dott.ssa Cacciola Maria Stella,  biologa nutrizionista  esperta in Intolleranze Alimentari e Nutrigenetica

16 maggio 2017

Genetica: tra uomo e donna la differenza è in 6.500 geni

Tra uomo e donna le differenze partono dai geni. Per l’esattezza sono 6.500 i geni espressi in modo differente. Dall’accumulo di grasso ai muscoli, dalla peluria alla produzione di latte, queste diverse espressioni potrebbero caratterizzare i due sessi anche nella suscettibilità a certe malattie così come nella risposta alle terapie. L’evoluzione con questi geni è stata poco selettiva, favorendo di fatto la diffusione di mutazioni che possono determinare problemi come l’infertilità. A indicarlo è uno studio pubblicato su BMC Medicine dal Weizmann Institute of Science di Israele.
Alla base ci sono i dati raccolti dal progetto GTEx, un grande studio che ha analizzato i geni espressi nei vari organi e tessuti del corpo umano di quasi 550 adulti di entrambi i sessi, portando alla realizzazione della prima mappa delle differenze genetiche tra uomini e donne. I ricercatori Shmuel Pietrokovski e Moran Gershoni del Weizmann Institute hanno usato questo database per valutare nello specifico l’espressione di 20.000 geni, arrivando così a identificarne 6.500 che sono ‘accesi’ in modo diverso tra maschi e femmine in almeno un tessuto del corpo.
Oltre ai geni legati a caratteristiche sesso-specifiche, come la peluria o la produzione di latte, ne sono emersi molti altri insospettabili. E’ il caso di alcuni geni ‘accesi’ solo nel ventricolo sinistro del cuore della donna, tra i quali uno in particolare, legato all’uso del calcio, che tende a spegnersi con l’avanzare dell’età, probabilmente aumentando il rischio di malattie cardiovascolari e osteoporosi dopo la menopausa. E’ stato trovato anche un gene espresso prevalentemente nel cervello delle donne che potrebbe proteggere i neuroni dal Parkinson.
I ricercatori hanno scoperto che la selezione naturale è stata più indulgente con le mutazioni sesso-specifiche contenute in questi geni, soprattutto quelle legate al genere maschile, favorendone di fatto la diffusione. Da qui l’idea che uomini e donne non abbiano seguito lo stesso cammino evolutivo, bensì due percorsi separati e interconnessi fra loro: l’evoluzione umana sarebbe dunque da rileggere come una co-evoluzione.
Mag 09,2017

Cancro al seno: la soia riduce il rischio

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Negli ultimi anni si sono aperte varie controversie sui cibi a base di soia, anche tra i professionisti della salute, aggravate dalla disinformazione veicolata via Internet. Caposaldo delle erronee tesi è l’idea che gli alimenti a base di soia favoriscano lo sviluppo del cancro al seno, poiché contenenti isoflavoni (classe di composti fitoestrogeni). Dal momento che gli estrogeni possono promuovere la crescita del cancro al seno, è stato ipotizzato che troppi fitoestrogeni possano avere il medesimo effetto: ma l’ipotesi è errata, in quanto non tiene conto del fatto che ci sono due tipi di recettori per gli estrogeni nell’organismo umano, alfa e beta, che hanno una diversa distribuzione nei tessuti, diversa funzione e spesso agiscono in modo opposto. I fitoestrogeni della soia preferenzialmente legano e attivano i recettori beta. Questo sembrerebbe essere proprio il caso dei tessuti della mammella, ove l’attivazione dei recettori beta mostra un effetto anti-estrogenico, inibendo gli effetti di promozione della crescita riferibili agli estrogeni. Infatti gli effetti dell’estradiolo, estrogeno naturalmente prodotto dal nostro organismo, sono opposti a quelli dei fitoestrogeni, che hanno effetti antiproliferativi sulle cellule del cancro al seno anche a basse concentrazioni; tali effetti si manifestano già con l’assunzione di una sola tazza di fagioli di soia, mostrando una significativa attivazione del recettore beta. L’ipotesi che i fitoestrogeni potessero essere causa di proliferazione di cellule tumorali si basa su studi eseguiti su topi, dai quali si evince che la genisteina (il fitoestrogeno principale della soia) stimola la crescita del tumore al seno… ma l’essere umano metabolizza gli isoflavoni in modo differente, e questa dunque non è altro che l’ennesima dimostrazione dei danni al progresso scientifico causati dalla sperimentazione sugli animali. La possibile attivazione di recettori alfa da parte della soia può presentarsi solo a fronte di assunzioni del tutto irrealistiche di questo alimento (ad esempio 58 tazze al giorno di fagioli di soia!), ma con porzioni normali l’attivazione a cui si va incontro è quella dei recettori beta, aventi effetti protettivi. Infatti le donne che nell’infanzia, adolescenza ed età adulta hanno assunto soia mostrano un ridotto rischio di tumore al seno. Questi dati potrebbero spiegare perché l’incidenza di tumore al seno è più alta in Occidente che in Asia e il motivo per cui proprio le donne asiatiche americanizzate, con un’alimentazione occidentale presentino un rischio notevolmente superiore di sviluppare tumore al seno. Oltre a queste evidenze, nel 2009 nel Journal of the American Medical Association è stato pubblicato il primo studio che confronta l’assunzione di soia con l’incidenza di tumore al seno, sugli esseri umani: “in numerose donne con cancro al seno, il consumo di alimenti di soia era significativamente associato con una diminuzione del rischio di morte e di recidiva”. Questo studio è stato seguito da altri, tutti riportanti le stesse conclusioni, tali da far produrre una serie di linee guida dall’American Cancer Society, a favore dell’utilizzo di prodotti a base di soia nelle pazienti sopravvissute al tumore al seno. Esistono 5 studi in merito, che prendono in esame più di 10.000 pazienti affette da cancro al seno e i risultati sono unanimi nell’evidenziare una riduzione della mortalità e di recidiva grazie all’assunzione di soia. Cancro al seno: la soia riduce il rischio katemangostar / Freepik 2 Un altro aspetto è legato alle donne che presentano i geni del cancro al seno (anche se meno del 10% dei casi di cancro al seno presenta una familiarità genetica), la cui espressione è causa di una mutazione di uno dei geni oncosoppressori (BRCA1 o BRCA2) che difendono l’integrità dei nostri geni; quando uno di essi è danneggiato o presenta mutazioni, può esporci maggiormente allo sviluppo del cancro. Se fino a poco tempo fa le raccomandazioni dietetiche per le persone con mutazioni a carico di questi geni miravano a ridurre i danni da radicali liberi a carico del DNA, consigliando di assumere importanti quantità di frutta e verdura ricche di antiossidanti, oggi un’ulteriore protezione potrebbe derivare dall’aumento dell’azione dei BRCA. Infatti, in vitro si è visto che i fitoestrogeni della soia potrebbero rispristinare la funzione di protezione dei BRCA, con una “riregolazione” dell’espressione di questi fino al 1000% in 48 ore. Questo sembrerebbe poter essere traslato anche in vivo, poiché si è evidenziato che l’assunzione di soia in persone a rischio di tumore al seno ha comportato una riduzione del rischio del 27% con normali geni BRCA e del 73% in portatori di mutazioni del gene BRCA. D’altro canto, il consumo di carne in pazienti con mutazioni del gene BRCA ha comportato un aumento del rischio del 97% (e del 41% in chi non mostra questa mutazione). 

Fonti: “Is Soy Healthy for Breast Cancer Survivors?”, Nutrition Facts, 1 febbraio 2017 https://nutritionfacts.org/video/ is-soy-healthy-for-breast-cancer-survivors/ “Should Women at High Risk for Breast Cancer Avoid Soy?”, Nutrition Facts, 3 febbraio 2017 http://nutritionfacts.org/video/ should-women-at-high-risk-forbreast-cancer-avoid-soy/

Tratto da Quaderni di Scienza Vegetariana maggio 2017 www.scienzavegetariana.it

12 novembre 2016

Alzheimer, demenza e omocisteina di Omar Vassalli



L’omocisteina è un aminoacido che si forma, nel nostro corpo, a partire dalla metionina. La metionina è un aminoacido essenziale, ciò significa che è necessario che sia presente nella nostra dieta in quanto il nostro corpo non è in grado di produrlo. Questo aminoacido, la metionina, e comunemente presente negli alimenti ricchi in proteine, in particolare in quelli  di origine animale come carne, uova e formaggio.
Purtroppo l’omocisteina è un aminoacido molto tossico che tende a danneggiare le arterie, conducendo a problemi di malattie cardiovascolari e sembra pure legata a malattie come l’Alzheimer ed in generale alla demenza senile.
Circa il 20% delle persone sopra i 75 anni presenta problemi legati all’Alzheimer oppure alla demenza.
Un alto livello di omocisteina nel sangue può quindi creare i seguenti danni:
  • Danni al cervello
  • Perdita di memoria
  • Perdita delle capacità cognitive
  • Danni alle arterie
Fortunatamente il nostro corpo è in grado di convertire questo aminoacido tossico, l’omocisteina, in metionina oppure in cisteina che è un altro aminoacido.
Per poter far questo è importante che la nostra dieta sia ricca nelle seguenti vitamine;
  • B12 (supplementi)
  • B6 (semi di girasole, pistacchi, banana, avocado e spinaci)
  • Folato (fagioli, foglie verdi come spinaci)
In un esperimenti si è visto che somministrando per 2 anni le vitamine del gruppo B, precedentemente elencate, si è constatato una significativa riduzione del processo di deterioramento del cervello che si ha con l’invecchiamento. Questa supplementazione ha ridotto il processo di deterioramento del cervello, che si vede nei pazienti affetti di Alzheimer, di ben 6 volte!
Il beneficio della supplementazione si verifica solo nelle persone che hanno una marcata carenza in queste vitamine.
I gruppi più a rischio nell’avere un alto livello di omocisteina sembrano essere i vegani. Questo in un primo momento sembra essere un paradosso perché i vegani non consumando proteine animali hanno un basso apporto di metionina, che è il precursore della omocisteina, in altre parole la omocisteina viene prodtta a partire dalla metionina. Sappiamo che dopo un pasto ricco in metionina la concentrazione di omocisteina nel sangue aumenta significativamente. Il problema di una dieta vegana malamente pianificata è che è totalmente priva di vitamina B12 e spesso è anche povera in zinco per cui queste due carenze favoriscono una forte accumulo di omocisteina nel sangue, incrementando conseguentemente i rischi delle patologie associate a questa sostanza tossica.
Infatti i livello di omocisteina nei vari gruppi di persone in uno studio è risultato il seguente:
Livello di omocisteina nel sangue
  • Onnivori: 11
  • Vegetariani 14
  • Vegani 16,4
Questi pessimi risultati sono legati ai bassi livelli di vitamina B12 nel sangue che risulta essere quanto segue nei vari gruppi:
Livello di vitamina B12 nel sangue
  • Onnivori: 303
  • Vegetariani 209
  • Vegani 175
Purtroppo molti vegani, a causa di un basso livello di vitamina B12 nel sangue, hanno alti livelli di omocisteina per cui sono a forte rischio di sviluppare Alzheimer e la demenza senile nonché certe malattie cardiovascolari.
Se un vegano assume una quantità adeguata di vitamina B12 il suo livello di omocisteina scende da 16.4, come abbiamo visto precedentemente, a 5! Che è il valore più basso in assoluto tra i vari gruppi. Quindi è fondamentale per i vegani assumere la vitamina B12 altrimenti si perdono i vantaggi di una dieta vegana.
Con una dieta vegana opportunamente pianificata è possibili abbassare il livello di omocisteina nel sangue del 20% in una sola settimana.
Le fibre presenti negli alimenti di origine vegetale tendono a favorire lo sviluppo della nostra flora intestinale che è capace di produrre il folato.

Conclusione: un alto livello di omocisteina nel sangue indica che abbiamo un forte rischio di sviluppare delle malattie cardiovascolare oppure di venire colpiti dall’Alzheimer o in generale della demenza negli anni avanzati della nostra vita. Il modo migliore per tenere basso il livello di omocisteina è quello di adottare una dieta vegana, o in generale ridurre l’apporto di proteine ricche in metionina associata obbligatoriamente ad un buon apporto in vitamina B12, B2, Betaina e dello zinco. Senza l’assunzione di vitamina B12 attraverso i supplementi una dieta vegana può essere più pericolosa rispetto ad una dieta onnivora, da questo punto di vista.


14 maggio 2016

Dieta integrata con amminoacidi, folati e vitamina D3: un nuovo approccio nel trattamento della sarcopenia

Con l'avanzare dell'età gli anziani vanno incontro ad una progressiva perdita di massa muscolare e a una diminuzione della funzionalità fisica. Questo tipo di condizione può essere definita "sarcopenia" secondo una definizione proposta da Irwin Rosenberg. Le cause della sarcopenia sono molteplici, ma la malnutrizione e le carenze di specifici nutrienti, in particolare di proteine, sono tra i principali fattori che aggravano questa condizione. La carenza di proteine è infatti dovuta ad una diminuzione della loro sintesi a partire dagli amminoacidi. Secondo alcuni studi osservazionali, un'altra causa importante è il mancato raggiungimento dell'intake proteico giornaliero raccomandato per l'anziano, che corrisponde a 1,1-1,2 g/kg di peso corporeo. L'invecchiamento comporta anche il deficit di alcuni micronutrienti, ad esempio viene riscontrata una diminuzione di vitamina D a livello dei recettori presenti nelle cellule muscolari. Anche per quanto riguarda l'acido folico (vitamina B9), una carenza può ridurre la forza muscolare, in quanto si tratta di sostanze alla base del metabolismo dell'omocisteina.

L'iperomocisteinemia è stata infatti associata a una diminuzione della forza muscolare nel quadricipite e della densità muscolare nel polpaccio e anche ad un aumentato rischio di disabilità nell'anziano, secondo uno studio di Kuo et al. del 2007. Un recentissimo studio di Rondanelli et al, ha sperimentato un'integrazione alla dieta (durante la prima colazione) con amminoacidi (4 g), in particolare leucina, con vitamina D3 (800 IU al giorno) e con folati (400 µg  al giorno) in un gruppo di anziani sarcopenici mostrando un aumento della massa magra e una concomitante diminuzione della percentuale di grasso aneroide. In particolare questi pazienti hanno mostrato un significativo aumento della forza muscolare, tale da permettere classificare ben il 68% dei pazienti sarcopenici come non più sarcopenici; infine è stato evidenziato un aumento delle concentrazioni di Igf (Insulin Growth Factor).

Per approfondimenti:1. Mithal, Ambrish, et al. "Impact of nutrition on muscle mass, strength, and performance in older adults." Osteoporosis international 24.5 (2013): 1555-1566.
2. Rondanelli, Mariangela, et al. "Whey protein, amino acids, and vitamin D supplementation with physical activity increases fat-free mass and strength, functionality, and quality of life and decreases inflammation in sarcopenic elderly." The American journal of clinical nutrition (2016): ajcn113357.
3. Kuo HK, Liao KC, Leveille SG, Bean JF, Yen CJ, Chen JH, Yu YH, Tai TY (2007)
Simone Perna

12 maggio 2016

Da microbiota e metagenomica un aiuto per comprendere le disbiosi intestinali

Mappare la composizione del microbiota intestinale consente di riconoscere le connessioni esistenti fra batteri intestinali e malattia. Ne abbiamo parlato con il Professor Marco Ventura, Responsabile del Laboratorio di Probiogenomica del Dipartimento di Bioscienze dell'Università degli Studi di Parma.

Quali sono le cause di una disbiosi intestinale?
Gli agenti antimicrobici e la dieta sono i principali fattori responsabili di una disbiosi intestinale, cioè un'alterazione della composizione del microbiota intestinale, accompagnata da una rottura dell'omeostasi delle comunità microbiche presenti. In entrambi i casi e con meccanismi diversi, questi due elementi favoriscono il sopravvento di quei gruppi microbici che sono causa o concausa dell'insorgenza di una serie di malattie, anche importanti. Una terapia antibiotica seppure efficace verso uno specifico patogeno, può svolgere un'azione battericida a largo spettro; un'alimentazione non bilanciata con eccesso di certi nutrienti (ad es. grassi e proteine) può avvantaggiare certi gruppi microbici a scapito di altri (ad es. batteri proteolitici, a danno dei saccarolitici).

Quali sono le potenzialità della metagenomica nella mappatura del microbiota?
La coprocoltura, il test di indagine più utilizzato per identificare in vitro uno specifico patogeno è inefficace quando si voglia mappare la composizione del microbiota intestinale. La 16S rRNA Microbial Profiling invece è un'analisi che sfrutta le recenti applicazioni della metagenomica nel campo dell'ecologia microbica: si basa sul sequenziamento del gene 16S rRNA (costituente della subunità minore dei ribosomi dei procarioti) e rappresenta un marcatore molecolare ampiamente utilizzato nella tassonomia batterica. Da un campione biologico (materiale fecale o biopsia intestinale) viene isolato il DNA microbico che poi è sottoposto ad amplificazione del gene 16S rRNA. L'analisi viene poi completata dal sequenziamento del pool di geni 16S rRNA corrispondenti ai microrganismi presenti nel microbiota e quindi dal loro riconoscimento tramite l'impiego di strumenti bioinformatici.

Quali vantaggi?
Questa analisi permette di valutare le concentrazioni relative dei vari microrganismi presenti nel campione originale. Il nostro Laboratorio ha collaborato alla messa a punto di un test, oggi in commercio, che, partendo da un campione di feci e da un database costituito da diverse centinaia di profili microbici intestinali di diversi soggetti, permette di conoscere la composizione del microbiota. È il punto di partenza per capire le relazioni fra le comunità microbiche intestinali e gli stati di malattia e per riequilibrare, anche per mezzo di interventi mirati, le attività metaboliche e le funzioni immunostimolatorie e d'interazione con il sistema nervoso, in cui è coinvolto in larga parte il microbiota intestinale.

Francesca De Vecchi

27 aprile 2016

Intervista al Dott. Keith Grimaldi, uno dei padri della Nutrigenetica

 Dott. Grimaldi Che cos’è la nutrigenetica? 

Scientificamente, la nutrigenetica è lo studio di come la variazione genetica nei geni individuali influenza la risposta di un individuo a particolari nutrienti e tossine nella dieta.

Che cosa sta tentando di fare la nutrigenetica? 

La nutrigenetica aspira ad usare l’informazione genotipica di un individuo per determinare le proprietà delle proteine codificate da certi geni e in questo senso l’effetto sul metabolismo, trasporto ed assorbimento dei nutrienti nella dieta e l’effetto sull’eliminazione delle tossine. Una variazione genetica, p. es. uno SNP, può influenzare l’attività di un enzima che può influenzare il metabolismo di un nutriente come l’acido folico. Questo è esattamente analogo alla farmacogenetica dove la variazione in un gene influenza la velocità del metabolismo del farmaco.
Noi abbiamo linee guida standard del mangiar sano che sono basate su molti anni di prove scientifiche accumulate principalmente da studi epidemiologici e di intervento (e NON prove cliniche). Queste linee guida sono state sviluppate per aiutare a mantenere uno stile di vita salutare più a lungo possibile. Lo scopo della nutrigenetica è di essere capace di modificare le linee guida alimentari in accordo col genotipo e fenotipoindividuali – anche la nutrigenetica è basata su molti anni di prove scientifiche accumulate principalmente da studi epidemiologici e di intervento. Il livello di prove per la nutrigenetica è almeno all’altezza di quello usato per sviluppare e giustificare le linee guida standard.


Che cosa propone al consumatore/paziente? 

L’uso dell’informazione genetica sia per la guida delle scelte alimentari e sia per informare gli individui circa l’importanza dell’alimentazione, del cibo e del metabolismo. La nutrigenetica ci mette in grado di usare il genotipo ed il fenotipo per migliorare la nostra conoscenza di come il cibo lavora insieme con il corpo. L’aspetto informativo di un servizio nutrigenetico è estremamente importante – gli scienziati lo usano e imparano da esso, dunque perché non potrebbe trarne benefici anche il pubblico? Purché l’informazione sia fornita in un modo serio, responsabile e corretto allora il risultato sarà benefico per il paziente/consumatore.


















La nutrigenetica definirà un’alimentazione perfetta? 

No, non si pretende tanto. Usando l’evidenza corrente che è disponibile nella letteratura scientifica “peer reviewed” la nutrigenetica può essere usata per programmare un’alimentazione che è migliore di quella delle linee standard che offre “una taglia unica per tutti” quando in realtà le variazioni genetiche significano una diversità metabolica. Abbiamo ancora tanto da studiare, può darsi che non raggiungeremo mai quella dieta “perfetta”, ma abbiamo accumulato una conoscenza che possiamo usare adesso, stiamo muovendo i primi passi essenziali.

Dunque qual è il punto, sarà realmente di aiuto? 

Lo scopo di tutti i consigli alimentari è di stabilire abitudini del mangiare buono permanentemente perché una buona salute nella vita più tarda dipende molto da come la vita è stata precedentemente vissuta. Piccole variazioni, anche variazioni apparentemente insignificanti, possono produrre una grande differenza nell’arco di 10-20 anni. Per esempio l’eccesso di calorie al giorno richiesto per aumentare di 15 Kg dall’età di 20 anni all’età di 40 anni è soltanto di 10 calorie, che è proprio mezzo cucchiaino di zucchero in più al giorno! L’aiuto che ci offre la nutrigenetica è l’averci fatto capire che ciò non vale per tutti ma solo per coloro che sono geneticamente predisposti.

C’è qualche prova scientifica per la Nutrigenetica? 

Sì, molta. A parte i nostri propri studi ci sono letteralmente migliaia di studi “peer reviewed” che sono stati pubblicati nel corso degli ultimi due decenni e che dimostrano scientificamente le interazioni gene-dieta. Il livello dello studio scientifico è in generale molto alto ed è di qualità simile, se non più rigoroso, delle prove scientifiche usate per giustificare i consigli alimentari standard, come consumare molta frutta e verdura, ridurre i grassi saturi, ridurre gli zuccheri ecc 

20 aprile 2016

La Nutrigenetica:Conosci i tuoi geni per mangiare e vivere meglio

   Questa è la nuova possibilità che la genetica applicata alla nutrizione mette a disposizione di noi tutti. 

    Oggi alcuni semplici test ci rivelano quelle peculiarità genetiche che sono sensibili alle variabili ambientali, in primo luogo la dieta ed il nostro stile di vita e che incidono nel bene e nel male sulla qualità della nostra vita stessa.

    Ognuno di noi è unico e ciò è dovuto ai nostri geni. Le differenze da individuo a individuo si manifestano sia esteriormente nel nostro aspetto fisico, come il colore dei capelli e degli occhi, sia internamente, ad esempio nella diversa capacità di metabolizzare i nutrienti, o eliminare le tossine ecc.. Infatti, sebbene condividiamo gran parte del materiale genetico, in ciascun gene vi sono punti di variazione: il più comune è il “Single Nucleotide Polymorphism” o SNP, l’insieme di queste piccole variazioni che influenzano ciò che siamo e definiscono la nostra individualità.

    Ma i geni non sono tutto, essi non lavorano da soli e non ci determinano in modo assoluto. Essi interagiscono con il nostro ambiente pertanto, modificando la nostra interazione con l’ambiente, modifichiamo l’espressione dei geni. Ad esempio, una persona dalla pelle chiara (geni) si scotterà al sole (ambiente) solo se si espone senza la necessaria cautela.

    L’aspetto dell’ambiente che ci influenza maggiormente e sul quale possiamo, per fortuna, esercitare il maggior controllo, è quello che immettiamo nel nostro organismo con l’alimentazione. Conoscendo meglio l’effetto che i nutrienti hanno sulla nostra particolare costituzione genetica, possiamo esercitare un controllo più effettivo sulla qualità e le nostre aspettative di vita.
Una dieta corretta ed equilibrata è essenziale per una vita sana e lunga, ma non è la stessa per tutti.

    Negli ultimi dieci anni sono stati fatti notevoli progressi nello studio dei rapporti tra geni ed ambiente e da essi è emerso un nuovo territorio della conoscenza: la Nutrigenetica. Essa è pronta per essere messa a disposizione di ciascuno al fine di migliorare il nostro benessere presente e soprattutto futuro. Infatti, grazie ad essa abbiamo selezionato un gruppo di geni che determinano il modo in cui un individuo reagisce a certi nutrienti essenziali. In tal modo è possibile studiare un’alimentazione più adatta a ciascuno, suggerendo in base al suo genotipo linee guida per il tipo e la quantità ottimali dei nutrienti necessari al suo organismo. A questo si è dato il nome di “Sistema NutriGENE” che consiste nell’analisi di materiale genetico: un semplice tampone passato all’interno dellla bocca viene analizzato, ed in base ai risultati ottenuti si offre una serie di suggerimenti alimentari adatti al proprio profilo genetico. Ciò è il frutto di comprovati studi scientifici, condotti in laboratori di varie parti del mondo, i cui risultati sono stati pubblicati da riviste internazionali. Vi è, infatti, una quantità enorme di letteratura scientifica che documenta nei dettagli come le variazioni genetiche influenzano il metabolismo di particolari nutrienti.

    I Geni modificano i nostri bisogni nutrizionali ed il sistema Eurogenetica Full Nutrition determina quali sono le necessità peculiari di ciascuno. Il test rivela le variazioni presenti in 20 geni specifici per la nutrizione e fattori di rischio ad essa associati (come colesterolo, ipertensione, ecc.), i risultati sono convertiti in una guida alimentare. Il report fornito dal sistema Eurogenetica Full Nutrition contiene la spiegazione del significato delle variazioni genetiche e la tavola dei nutrienti consente di modificare, laddove sia necessario la propria alimentazione. Non è, d’altra parte, una dieta radicale, ma consiste in piccole variazioni dell’alimentazione e dello stile di vita. Piccole variazioni che a lungo termine possono avere un effetto significativo e fare la differenza. Non si tratta dunque di una dieta per dimagrire ma di un investimento a lungo termine sulla propria salute. Sapevate che appena 10 calorie in eccesso al giorno, mezzo cucchiaino di zucchero, possono causare un aumento di peso di 15 kg nell’arco di 20 anni in persone geneticamente predisposte? Un eccesso tanto difficile da eliminare quanto facile da accumulare. Pensate allora quali danni può causare un po’ di grassi saturi in eccesso durante l’arco di 20 anni.



    La conoscenza della propria disposizione genetica, la conoscenza del ruolo di certi geni nel determinare i nutrienti di cui ognuno necessita, la conoscenza del proprio hardware, può offrire una forte motivazione a seguire un’alimentazione ed uno stile di vita più consoni ai propri bisogni.


Pane adatto alla colazione da campioni
















Questo pane è stato realizzato con un mix di farine di ben 7 cereali con l'aggiunta di semi di girasole, lino, sesamo e proteine isolate del pisello. La lievitazione con pasta madre di maiorca durata 20 ore garantisce l'assoluta digeribilità!

17 marzo 2016

Per persone a rischio, mangiare mirtilli contrasta l’Alzheimer

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I mirtilli appaiono confermati come frutti anti-aging per il cervello. E’ probabile, infatti, che grazie al loro elevato contenuto in antiossidanti, i mirtilli aiutino a proteggere dall’Alzheimer le persone a rischio di malattia, perché già colpite da un lieve declino cognitivo. Lo rivelano gli studi presentati da Robert Krikorian dell’Università di Cincinnnati in occasione del XXV Meeting della American Chemical Society (ACS) che si tiene a San Diego. Non è la prima volta che viene suggerito un ruolo protettivo dei mirtilli per il cervello, ma le ricerche di Krikorian mostrano che ad avere più benefici sono proprio gli anziani con un rischio reale di malattia di Alzheimer, perché hanno già ricevuto una diagnosi di lieve declino cognitivo, una riduzione patologica delle funzioni cognitive che spesso è l’anticamera della demenza vera e propria.
Primo studio
Krikorian ha in realtà condotto due studi: il primo su un campione di persone oltre i 68 anni di età con lieve declino cognitivo. A metà di questi anziani Krikorian ha somministrato tutti i giorni per 16 settimane polvere di mirtilli essiccati (una dose è equivalente a una tazza di mirtilli freschi); all’altra metà una polvere placebo, ovvero priva di qualsiasi ingrediente attivo. Ebbene è emerso – con misurazioni oggettive mediante test ad hoc – un miglioramento delle funzioni cognitive e della memoria proprio nel gruppo che ha consumato polvere di mirtilli essiccati. Inoltre tramite la risonanza magnetica è emerso un aumento della loro attività cerebrale.
Secondo studio
Nel secondo studio Krikorian ha coinvolto un altro gruppo di persone dai 62 agli 80 anni, tutte sane (senza evidenze di declino cognitivo), ma che avevano lamentato dei problemi generici di memoria. In questo caso la polvere di mirtillo è risultata non sempre efficace nel migliorare le funzioni cognitive, lo studio, insomma, ha dato risultati più dubbi. Probabilmente ciò si spiega col fatto che l’estratto di mirtilli funziona laddove vi sia un vero declino cognitivo già clinicamente accertato.

Patrizia Maria Gatti