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13 settembre 2021

Lipedema: una patologia reale? articolo scritto dalla dott.ssa Cacciola Maria Stella - biologa nutrizionista

 Lipedema: È una patologia reale? Cosa possiamo fare per riconoscerlo e curarlo?

  








 

 Questo articolo nasce per divulgare questa affezione, il Lipedema, che, se pur non abbia ancora il riconoscimento di patologia, acquisisce giornalmente connotati sempre più chiari e scientificamente validati e nella speranza che sempre più i medici, specialmente quelli di medicina generale ed i pediatri guardino con occhi diversi le giovani donne e le adolescenti con problemi di sovrappeso e con squilibri ormonali, in modo particolare tutte quelle con familiarità per Obesità Ginoide aggravata da Linfedema giacché oggi ci sono prove serie sulla “ereditarietà” o comunque sulla predisposizione genetica del Lipedema, quasi esclusivamente in linea femminile.

     Mi sembra necessario chiarire subito i fondamenti di questa affezione per aiutare almeno a dare una connotazione chiara. 

    A tal riguardo preferisco utilizzare una definizione semplice e completa che ho trovato e che di seguito cito: “Il Lipedema è un disturbo cronico progressivo che colpisce quasi esclusivamente le donne. Clinicamente, è caratterizzato da una distribuzione anomala del tessuto adiposo, con conseguente sproporzione pronunciata tra estremità e tronco. Tale sproporzione è causata da un aumento localizzato e simmetrico del tessuto adiposo sottocutaneo negli arti inferiori e/o superiori. Altre scoperte includono edema (aggravato dall'ortostasi), nonché facile ecchimosi a seguito di traumi minori e, tipicamente, aumento della dolenzia con la pressione”

    Oggi è più facile diagnosticare il Lipedema ed aiutare efficacemente chi ne è affetto per l’esistenza di Linee Guida e Documenti di Consenso Statunitensi ed Europei per cui molti professionisti hanno intrapreso percorsi di formazione per la diagnosi ed il trattamento specifico. 

    Un aspetto da non trascurare è, purtroppo la mancanza ancora di un approccio integrato e coordinato fra più figure professionali ed il riconoscimento come patologia dal SSN. 

    In questo momento purtroppo, le donne affette da Lipedema, sono infatti tristemente consapevoli di avere poche possibilità di veder migliorare la propria situazione patologica proprio per la mancanza di strutture adeguate e convenzionate con il SSN. Questa importante lacuna nell’offerta sanitaria pubblica, non fa altro che addossare la gestione e la cura della patologia sulle sole spalle delle donne che ne soffrono e delle loro famiglie, esponendole a sacrifici di natura sia economica che psicologica. 

    È fondamentale che la Sanità territoriale acquisisca piena consapevolezza del problema e che gli stessi medici di famiglia si aggiornino al meglio su questa patologia che ha spesso un esordio precoce.

    Recenti studi condotti dal gruppo di lavoro del Pr Sandro Michelini, Ospedale San Giuseppe di Marino (RM), hanno portato ad una scoperta illuminante in tal senso: sarebbe proprio un gene, e sicuramente anche più di uno, infatti, ad avere una corresponsabilità determinante nell’esordio della patologia e questo è evidente anche alla luce del riconoscimento della patologia anche in ben 4 generazioni di donne della stessa famiglia senza coinvolgimento se non come portatori sani dei maschi della stessa.

    Approcciarla in modo serio e documentato diventa quindi fondamentale per giungere quanto più precocemente possibile ad una diagnosi definitiva che consenta a tutte le giovani donne di intraprendere un percorso corretto e personalizzato al fine di contenere al meglio i sintomi e l’evoluzione.

    L’approccio terapeutico ottimale al Lipedema è sostanzialmente, almeno in gran parte, contenitivo ed è quindi basato sul trattamento nutrizionale, il linfodrenaggio manuale di tipo Vodder, i bendaggi e l’elastocompressione. Chiaramente tutti questi trattamenti vanno personalizzati ed eseguiti da personale altamente specializzato e con documentata esperienza.

    Il punto estremo e finale rimane ancora oggi purtroppo la terapia chirurgica specializzata che comunque oggi è sempre più integrata con gli altri approcci terapeutici.

    Attualmente la dieta insieme con l’attività fisica moderata e personalizzata, il massaggio Vodder  e l’elastocompressione possono essere molto importanti per il controllo dell’affezione sin dall’esordio, che solitamente avviene nel periodo adolescenziale con aggravamenti in gravidanza e in menopausa.

 La dieta chetogenica e la dieta Low Carb, ben conosciuta come DIETA RAD (Rare Adipose Disorders),  con un basso apporto di carboidrati, in particolare da cereali, frutta e patate e particolarmente incentrata sull’utilizzo di carni bianche, uova, pesce, legumi e verdure fresche di stagione, oggi è riconosciuta a livello internazionale ed ha come obiettivo specifico soprattutto quello di regolare i livelli di insulina e ridurre l’infiammazione mirando quindi ad un riequilibrio ormonale.

     Il compito attuale e principale della dietoterapia moderna consiste prevalentemente nella regolazione e controllo dei livelli di insulina, in considerazione soprattutto della testimonianza dei tanti studi scientifici che correlano  l’infiammazione alla gran parte delle patologie a carattere cronico e all’iperinsulinemia prima e al diabete successivamente, determinati dall’eccesso di carboidrati presenti nell’alimentazione quotidiana. 

    Risulta importante consumare in modo ridotto cibi confezionati e prodotti alimentari “industriali” che sono eccessivamente carichi di zuccheri, di grassi trans e dei cosiddetti “interferenti endocrini”, sostanze queste ultime dimostrano di interferire con l’equilibrio ormonale naturale e nel tempo arrivare a provocare diabete e patologie endocrine.

    Credo profondamente che solo la diagnosi precoce del Lipedema possa garantire nuove ed affidabili prospettive di cura a tutte le donne che ne hanno bisogno. 

a cura della
dott.ssa Cacciola Maria Stella - biologa nutrizionista 


18 giugno 2020

LA DIETA RAD, rare adipose disorders, per il LIPEDEMA e per tutte le patologie a carattere infiammatorio

La dieta antinfiammatoria: il modello alimentare per curarsi dall ...







RAD Diet (Malattia adiposa rara)

La Dieta RAD acronimo di “rare adipose disorders” la dieta raccomandata dal Dr. Karen Herbst, un esperto di fama mondiale nelle malattie del tessuto adiposo, ed è indicato per qualsiasi patologia del tessuto adiposo. È anche una dieta anti-infiammatoria

Si raccomanda di ridurre il consumo di carboidrati raffinati, zucchero, prodotti lattiero-caseari pastorizzati ed eliminare gli edulcoranti artificiali e gli alimenti che contengono coloranti o aromi aggiunti, nonché qualsiasi alimento trasformato. Si consiglia invece di aumentare il consumo di frutta e verdura biologica, cereali integrali e fonti salutari di proteine, come proteine ​​magre, come pesce, pollame di carne bianca e uova

Va chiarito che ad oggi non ci sono studi scientifici che dimostrano i benefici di questa dieta nel trattamento specifico delle cosiddette "malattie rare del tessuto adiposo", tra cui il lipedema. Detto questo, una dieta ricca di alimenti che prevengono l'infiammazione offre una serie di benefici per la salute generali, tra cui la riduzione del rischio di malattie cardiache, cancro e altre malattie.

Al link trovate un video tratto dai video del Convegno di novembre della Lio Lipedema a Roma.

https://www.youtube.com/watch?v=3nBl8SWR5c8&feature=youtu.be&fbclid=IwAR0W6YB8DCny1pHXzCYsseeByWGzG_-cuMr350xxcJgBM3-6-OcT8ogP1rI


10 giugno 2017

CONOSCI LA DIETA CHETOGENICA? articolo della dott.ssa Cacciola Maria Stella


Qualche giorno fa mi hanno chiesto di scrivere un articolo sulla Dieta Chetogenica per aiutare tutte le persone che vorrebbero saperne di più e per far capire loro di cosa si tratta.
Ci chiediamo? E‘ una dieta iperproteica? Può fare male alla salute? E‘ difficile da seguire? La possono fare tutti tranquillamente da soli?
Ed ancora, ma non sarebbe meglio seguire la buona e vecchia Dieta Mediterranea? Non sarà la solita americanata?
Ecco certamente le domande che ci poniamo sono tante e vedremo di rispondere in modo semplice e completo. Io credo che solo dalla buona conoscenza può nascere la buona salute!
Pensate un po‘! la Dieta Chetogenica nasce nel 1920 dalle osservazioni fatte da due pediatri, Rollin Woodyatt e Mynie Paterman, che lavoravano con i bambini colpiti da Epilessia. Questa dieta dimostra infatti di ridurre gli attacchi epilettici sia nei bambini che negli adulti che non rispondono ai trattamenti farmacologici.
E già! Si tratta quindi di un vero trattamento terapeutico che via via ha trovato impiego anche nei soggetti con terribili emicranie.
Ma cerchiamo di capire meglio cosa è e come deve essere fatta ed anche a chi è utile, oltre a coloro che abbiamo detto prima.
La Dieta Chetogenica viene definita normo proteica, normolipidica ed ipoglucidica, cioè in questa dieta si riducono drasticamente tutti gli alimenti del gruppo dei carboidrati, non solo si elimina lo zucchero ma anche pane, pasta, riso, cereali, farine di cereali prodotti che ne contengono anche piccolissime quantità, frutta e persino alcune verdure. In questo modo si costringe il proprio corpo ad utilizzare prima le riserve di zucchero che possiede sotto forma di glicogeno, prevalentemente nel fegato e nei muscoli, successivamente il corpo è costretto a trovarsi un’altra fonte di energia!
Ed ecco che trova i grassi, quelli depositati nel corpo e quelli introdotti con l’alimentazione. Ma i grassi per diventare materiale energetico utilizzabile dalle nostre cellule devono essere trasformati in piccoli corpi chetonici che sono un po‘ acidi ma tanto piccoli che riescono a passare dalla barriera ematoencefalica ed arrivare al cervello e fornirgli l’energia necessaria! Anzi, quando si raggiunge questo stadio, che si chiama Chetogenesi, si è molto lucidi e molto attivi come quando si è bevuto un bel caffè doppio!
Chiaramente se si tolgono tutti i carboidrati e non si sa quanti grassi e quanti cibi proteici consumare si rischia di danneggiare il proprio organismo provocando scompensi che possono danneggiare i reni ed il fegato.
Ho detto prima che questa dieta è normo proteica, cioè bisogna consumare un quantitativo specifico per ciascuno di noi di cibi proteici, come carni, uova, formaggi, pesce ecc.., e bisogna sapere anche quanti grassi utilizzare e quali tipi, ed anche questo dipende dal motivo per cui si utilizza questo regime alimentare.
Esistono due diversi approcci alla dieta Chetogenica:
Uno è quello che la vede utilizzata per ridurre ed anche eliminare attacchi epilettici e crisi emicraniche, l’altro è quello del dimagramento in casi di importate obesità ed in special modo in soggetti candidati alla chirurgia bariatrica, cioè quella chirurgia che riduce lo stomaco per ridurre l’assunzione di cibo nei grandi mangiatori voraci. In questi casi si utilizza un Protocollo dietetico medico VLCKD (Very Low Calory Ketogenic Diet), ideato nel 1971 dal Prof. Blackburn dell’Università di Harvard.
Se qualcuno vuole utilizzare la Dieta Chetogenica per dimagrire pochi chili dovrà fare attenzione ad utilizzare pochissimi grassi ma se ha anche il colesterolo alto ed i trigliceridi mossi dovrà utilizzare solo grassi come l’olio d’oliva extravergine.
Questa dieta è molto utile per chi deve dimagrire molto oppure per chi ha un’intolleranza ai carboidrati ed ancora per chi vuole dimagrire in modo localizzato.
Però è bene che sia studiata da un professionista che valuti tutti i parametri mediante analisi del sangue e test impedenziometrico, per calcolare la massa grassa e quella magra, così da ottenere una perfetta personalizzazione della dieta con il massimo dei risultati senza rischi per la salute.

30 settembre 2016

Prebiotici ad alta specificità per lattobacilli e bifidobatteri

da DOTT. F.DI PIERRO il 28 FEBBRAIO 2013



L’intestino di un soggetto adulto ospita circa 500 specie unicellulari. Queste, quasi tutte batteriche, vengono identificate come ‘flora’ o ‘microflora’ intestinale con funzioni fondamentali e vitali per il benessere e la sopravvivenza stessa dell’individuo.
L’intestino umano, sterile alla nascita, viene rapidamente colonizzato da microrganismi (piogeni, patogeni, funghi e altri più rari organismi unicellulari) fino ad ammontare, in un individuo adulto, a circa 1014 cellule vive.
Lo sviluppo della flora intestinale segue uno schema ben noto: all’inizio l’intestino è sterile nell’utero materno, e subisce la prima contaminazione per via orale a partire dalla flora vaginale materna. Tra il 20° giorno dalla nascita, e fino al 4°-6° mese di vita, si sviluppa una flora primariamente costituita da bifidobatteri. Con lo svezzamento si assiste ad una lenta transizione che condurrà infine il giovane intestino ad una composizione  sovrapponibile a quella  tipica di un soggetto adulto.
Una volta stabilizzata nell’intestino adulto, la flora risulterà essere piuttosto segmento-specifica lungo l’asse gastrointestinale: lo stomaco, con meno di 104 microrganismi totali/ml, conterrà essenzialmente i generi candida, helicobacter, lattobacillus e streptococcus; il duodeno e il digiuno (circa 104 /10 5 cellule totali/ml) conterranno bacteroides, candida, lattobacillus e streptococcus; l’ileo (circa 107 /108 cellule totali/ml) conterrà bacteroides, clostridium, enterococcus, lattobacillus e veillonella; il colon (circa 1010/1011 cellule totali/ml) conterrà bacteroides, bacillus, bifidobacterium, clostridium, enterococcus, eubacterium, fusobacterium, peptostreptococcus, ruminococcus, streptococcus.
Un’analisi numerica, non segmento-specifica, consente invece di evidenziare le popolazioni in relazione alla loro presenza quantitativa totale. In base a quest’analisi riconosciamo: 1010 bacteroidi
(organismi patogeni solo nei tessuti al di fuori dell’ambito intestinale); 109 bifidobatteri; 109 eubacteriaceae (tra cui coliformi e clostridi non necessariamente patogeni); 109 streptococchi e 108 batteri lattici. Nel loro insieme compongono la microflora.
Per quanto concerne il trattamento prebiotico, è potenzialmente possibile costituire uno strumento preventivo-terapeutico per le disbiosi in genere, tenendo in attenta considerazione i rapporti quantitativi tra bifidobatteri e batteri lattici che, nel loro insieme, sono il reale bersaglio del trattamento prebiotico (Composizione prebiotica ad alta specificità per lattobacilli e bifido batteri in prevenzione e trattamento delle alterazioni della flora intestinale, F. Di Pierro, A. Callegari, M. Speroni, R. Prazzoli, G. Rapacioli, L’ Integratore Nutrizionale 2009, 12 ).
Largamente riconosciuti dalla comunità scientifica come in grado di influenzare positivamente il benessere intestinale inteso come capacità immunologica, digestiva, di transito, anti-stipsi, anti-diarroica e di assorbimento dei nutrienti, bifidi e lattobacilli possono essere infatti ‘alimentati’ ricorrendo all’uso di fibre prebiotiche, costituendo queste un vero e proprio substrato nutritizio solo per queste due specie batteriche.
Secondo la definizione del Ministero della Salute ‘le fibre prebiotiche sono sostanze non digeribili di origine alimentare che, quando assunte in quantità adeguata, favoriscono selettivamente la crescita e l’attività di uno o più batteri già presenti nel tratto intestinale o che vengono assunti insieme al prebiotico’.
Fibre prebiotiche scientificamente documentate, e quindi impiegabili in sicurezza, per uso umano sono: l’inulina, i galatto-oligosaccaridi  (GOS), i frutto-oligosaccaridi (FOS), il lattosaccarosio, le pirodestrine, i soia-oligosaccaridi, i trans-galatto-oligosaccaridi, gli isomalto-oligosaccaridi, il lattilolo, il lattulosio, gli xilo-oligosaccaridi e il polidestrosio.
  • Fibre bifido-specifiche.
L’inulina è una miscela di oligosaccaridi caratterizzata dalla presenza di fruttosio polimerico a 10-12 subunità (legame beta-2-1-glucosidico); è presente in natura e rintracciabile, ad esempio, nella radice di Cichorium intybus (la comune cicoria) e in altre specie vegetali. L’inulina è una fibra bifido-specifica.
GOS sono invece oligomeri del galattosio (epimero del glucosio), ma anch’essi mostrano elevata ceppo-specificità verso i bifidobatteri.
FOS sono polimeri a corta catena, contenenti alternanza di D-fruttosio e D-glucosio (3-5 subunità). Anche i FOS sono fibre bifido-specifiche.
  • Fibre lattobacillo-specifiche.
Gli isomalto-oligosaccaridi (IMO) sono polimeri dell’isomalto, a sua volta disaccaride costituito da glucosio e mannitolo, fermentabili anche, e principalmente, dai batteri lattici.
Il lattilolo e il lattulosio sono fibre disaccaridiche analoghe (D-lattosio e D-fruttosio) ottenute per via semi-sintetica e normalmente impiegate nel trattamento della costipazione e dell’encefalopatia epatica. Sono anch’esse fermentabili anche dai lattobacilli ad acidi organici a corta catena (lattato, acetato, butirrato e propinato).
Infine il polidestrosio, polimero del destrosio, che è invece particolarmente fermentabile dai batteri lattici.
Già da questa elencazione è possibile notare un certo grado di specificità, per genere, in favore delle fibre con caratteristiche di bifidogenicità, almeno in termini numerici. La conoscenza di questa caratteristica però non è sufficiente per elaborare, sotto il profilo teorico, un optimum nutrizionale prebiotico.
Altre caratteristiche devono infatti essere considerate: il rapporto numerico tra le popolazioni, la loro locazione specifica (soprattutto a livello di colon ascendente, trasverso e discendente) e il grado di fermentabilità di una determinata fibra nei diversi acidi organici a corta catena.
  • Correlazioni numeriche necessarie alla corretta formulazione della miscela prebiotica.
Come già detto, in un intestino sano i due ceppi, bifidobacterium e lattobacillus, coesistono in rapporto 10:1: di conseguenza i componenti prebiotici bifidogenici e lattogenici dovranno essere opportunamente miscelati in rapporto 10:1 così da riprodurre le naturali proporzioni intestinali.
Tra i bifidogenici, particolare attenzione deve essere rivolta soprattutto ai rapporti tra inulina, GOS e FOS; nell’insieme tali fibre risultano essere la scelta d’elezione, se non altro per mole di documentazione disponibile in ambito clinico.
Degno di nota e rilievo, GOS e FOS sono naturalmente presenti, in rapporto 9:1, nel latte materno. Questo rapporto deve essere ritenuto  fondamentale, e quindi mantenuto invariato, se si considera il latte materno come il primo elemento dietetico naturale formante la microflora intestinale bilanciata del neonato.
In considerazione del fatto che GOS e FOS hanno tempi di fermentabilità più brevi, e quindi teoricamente vengono scisse nella prima porzione del colon, rispetto all’inulina, a sua volta fermentata specialmente nel tratto finale di quest’ultimo, la miscela GOS/FOS dovrà risultare in rapporto 1:1 con l’inulina.
Essendo inoltre bifidobatteri e lattobacilli bilanciati, in un intestino sano, in rapporto 10:1, la quota di fibra bifidogenica dovrà essere in rapporto 10:1 con quella lattogenica.
Nel formulare quest’ultima, la miscela con caratteristiche di lattogenicità, bisognerà poi valutare la necessità di avere fibre capaci di determinare da parte loro una equa e proporzionata produzione di acidi organici a corta catena, avendo questi (butirrato, propionato, acetato e lattato) un ruolo trofico per l’epitelio intestinale e anti-patogenico differente. In questo senso la miscela di fibre funzionalmente più attiva è costituita dalla miscelazione, in rapporto 2:1:1, di isomaltooligosaccaride:lattulosio:polidestrosio.
  • Composizione e sicurezza della miscela prebiotica.
Sulla base di quanto fin qui descritto, e con l’obiettivo di ottenere un formulato ad azione prebiotica specifica, è stata sviluppata una miscela costituita da: inulina, GOS, FOS, isomalto-oligosaccaride, lattulosio e polidestrosio.
Su tale formulato, oggetto di brevetto, è stato condotto uno studio di  tossicità orale acuta (dose  fissa) somministrando una dose di 2000 mg/kg/per os ad un gruppo di 5 ratti femmina (SD) mediante sondino gastrico. Secondo i risultati di tale studio la miscela prebiotica risulta priva di tossicità.
Il preparato prebiotico in oggetto è stato sottoposto ad indagine clinica pilota ambulatoriale su 10 pazienti con diagnosi di sindrome del colon irritabile (IBS) già trattata con un preparato a base di olio essenziale di menta microincapsulato e risolta, almeno in termini di manifestazione dolorosa, ma nei quali sussisteva ancora un’evidente produzione di gas intestinale con discomfort e possibile  evidenza di alvo alterno, diarrea e stipsi in linea con un quadro di disbiosi e alterazione della flora.
Questi soggetti (8 femmine e 2 maschi) di età compresa tra i 18 e i 55 anni, in assenza di ulteriore diversa terapia, sono stati trattati con una bustina di prodotto al giorno, al mattino a stomaco vuoto, per 14 giorni.
Ad inizio e fin  trattamento, mediante scala analogico visiva di Scott-Huskisson (score tra 0 e 10), è stata eseguita una valutazione sintomatologica. Da tale valutazione si evince come il prodotto, dopo 14 giorni di terapia riduca sensibilmente la produzione di gas intestinali ed il discomfort conseguente, contrastando efficacemente anche i quadri di alvo alterno e diarrea e, parzialmente, quelli di stipsi che residua evidente in un paziente su due.
Il prodotto inoltre è risultato ben tollerato e, tranne un episodio di cefalea, non sono stati registrati segni avversi sicuramente imputabili al trattamento e, di conseguenza, nessun caso di abbandono è stato registrato.
  • Conclusioni.
Le alterazioni della flora intestinale, secondarie ad IBS, antibiotico-terapia, sbilanciamenti dietetici, stress, colite, diarrea ad eziologia varia, etc, vengono oggi trattate principalmente con farmaci (principalmente OTC) e/o integratori alimentari contenenti ingredienti probiotici e/o prebiotici.
Nonostante i probiotici abbiano nella scarsa vitalità dei ceppi impiegati nel formulato finito, sempre più spesso rivendicato come ‘stabile’ anche a temperatura ambiente, il loro grande limite, i prebiotici vengono, nella maggior parte dei casi, considerati complementi di formula che consentono semplicemente al prodotto probiotico di essere rivendicato come simbiotico grazie alla loro presenza.
Al contrario, oltre ad essere un valido principio attivo, le fibre prebiotiche hanno il grande vantaggio di essere facilmente stabilizzate all’interno del formulato finito.
Per esse, inoltre, non deve essere verificata la vitalità dopo il superamento della barriera gastrica  e di quella biliare e, soprattutto, non devono essere eseguiti test per verificarne la capacità colonizzante. Anche lo svantaggio, non certo loro esclusivo, di provocare gonfiore, meteorismo e flatulenza può essere poi modulato razionalizzando i dosaggi e le posologie giornaliere.
Nonostante ciò, l’attivo a funzione prebiotico non viene considerato con l’attenzione che, quindi, meriterebbe.
Con una evidente inversione di tendenza, il nostro gruppo di ricerca (Velleja Research) ha sviluppato un preparato a base di fibre prebiotiche partendo dalla considerazione che queste sono nutrizionalmente valide esclusivamente per ceppi di bifidobatteri e lattobacilli che, a loro volta, colonizzano l’intestino sano secondo un determinato rapporto.
La miscela prebiotica formulata è frutto di tutte queste considerazioni e, per questo, è da considerarsi il primo esempio nutrizionale di miscela di fibre prebiotiche sviluppata per un’azione specifica sulla microflora intestinale residente.

20 aprile 2016

La Nutrigenetica:Conosci i tuoi geni per mangiare e vivere meglio

   Questa è la nuova possibilità che la genetica applicata alla nutrizione mette a disposizione di noi tutti. 

    Oggi alcuni semplici test ci rivelano quelle peculiarità genetiche che sono sensibili alle variabili ambientali, in primo luogo la dieta ed il nostro stile di vita e che incidono nel bene e nel male sulla qualità della nostra vita stessa.

    Ognuno di noi è unico e ciò è dovuto ai nostri geni. Le differenze da individuo a individuo si manifestano sia esteriormente nel nostro aspetto fisico, come il colore dei capelli e degli occhi, sia internamente, ad esempio nella diversa capacità di metabolizzare i nutrienti, o eliminare le tossine ecc.. Infatti, sebbene condividiamo gran parte del materiale genetico, in ciascun gene vi sono punti di variazione: il più comune è il “Single Nucleotide Polymorphism” o SNP, l’insieme di queste piccole variazioni che influenzano ciò che siamo e definiscono la nostra individualità.

    Ma i geni non sono tutto, essi non lavorano da soli e non ci determinano in modo assoluto. Essi interagiscono con il nostro ambiente pertanto, modificando la nostra interazione con l’ambiente, modifichiamo l’espressione dei geni. Ad esempio, una persona dalla pelle chiara (geni) si scotterà al sole (ambiente) solo se si espone senza la necessaria cautela.

    L’aspetto dell’ambiente che ci influenza maggiormente e sul quale possiamo, per fortuna, esercitare il maggior controllo, è quello che immettiamo nel nostro organismo con l’alimentazione. Conoscendo meglio l’effetto che i nutrienti hanno sulla nostra particolare costituzione genetica, possiamo esercitare un controllo più effettivo sulla qualità e le nostre aspettative di vita.
Una dieta corretta ed equilibrata è essenziale per una vita sana e lunga, ma non è la stessa per tutti.

    Negli ultimi dieci anni sono stati fatti notevoli progressi nello studio dei rapporti tra geni ed ambiente e da essi è emerso un nuovo territorio della conoscenza: la Nutrigenetica. Essa è pronta per essere messa a disposizione di ciascuno al fine di migliorare il nostro benessere presente e soprattutto futuro. Infatti, grazie ad essa abbiamo selezionato un gruppo di geni che determinano il modo in cui un individuo reagisce a certi nutrienti essenziali. In tal modo è possibile studiare un’alimentazione più adatta a ciascuno, suggerendo in base al suo genotipo linee guida per il tipo e la quantità ottimali dei nutrienti necessari al suo organismo. A questo si è dato il nome di “Sistema NutriGENE” che consiste nell’analisi di materiale genetico: un semplice tampone passato all’interno dellla bocca viene analizzato, ed in base ai risultati ottenuti si offre una serie di suggerimenti alimentari adatti al proprio profilo genetico. Ciò è il frutto di comprovati studi scientifici, condotti in laboratori di varie parti del mondo, i cui risultati sono stati pubblicati da riviste internazionali. Vi è, infatti, una quantità enorme di letteratura scientifica che documenta nei dettagli come le variazioni genetiche influenzano il metabolismo di particolari nutrienti.

    I Geni modificano i nostri bisogni nutrizionali ed il sistema Eurogenetica Full Nutrition determina quali sono le necessità peculiari di ciascuno. Il test rivela le variazioni presenti in 20 geni specifici per la nutrizione e fattori di rischio ad essa associati (come colesterolo, ipertensione, ecc.), i risultati sono convertiti in una guida alimentare. Il report fornito dal sistema Eurogenetica Full Nutrition contiene la spiegazione del significato delle variazioni genetiche e la tavola dei nutrienti consente di modificare, laddove sia necessario la propria alimentazione. Non è, d’altra parte, una dieta radicale, ma consiste in piccole variazioni dell’alimentazione e dello stile di vita. Piccole variazioni che a lungo termine possono avere un effetto significativo e fare la differenza. Non si tratta dunque di una dieta per dimagrire ma di un investimento a lungo termine sulla propria salute. Sapevate che appena 10 calorie in eccesso al giorno, mezzo cucchiaino di zucchero, possono causare un aumento di peso di 15 kg nell’arco di 20 anni in persone geneticamente predisposte? Un eccesso tanto difficile da eliminare quanto facile da accumulare. Pensate allora quali danni può causare un po’ di grassi saturi in eccesso durante l’arco di 20 anni.



    La conoscenza della propria disposizione genetica, la conoscenza del ruolo di certi geni nel determinare i nutrienti di cui ognuno necessita, la conoscenza del proprio hardware, può offrire una forte motivazione a seguire un’alimentazione ed uno stile di vita più consoni ai propri bisogni.


16 marzo 2016

MAFALDE CON SEMINI VARI E CURCUMA

Stamattina avevo voglia di provare la mia farina Bio di Maiorca e così ho pensato ad un pane della mia infanzia: la mafalda! Le prime due foto sono prima dell'infornata mentre nella terza sono già cotte e sfornate!




22 gennaio 2016

E' NATO IL GAS BIO-FARIDEA




E' NATO IL GRUPPO DI ACQUISTO SOLIDALE
BIO-FARIDEA

NELLE PROSSIME SETTIMANE PROPORREMO PASTA DI TIMILIA BIO E SICILIANA - PASTA DI GRANO BIO SICILIANO CON CANAPA E CON SPIRULINA
E PRODOTTI BIO SICILIANI 
Per tutti coloro che fossero interessati a ricevere maggiori informazioni ed essere inseriti nella maillist
 inviare una mail a gasbiofaridea@gmail.com

03 ottobre 2015

Cancro alla prostata e integratori del pr Fabio Firenzuoli

Impressionante leggere dai media le notizie riprese dalla letteratura scientifica … perché poi si pone sempre il dilemma di andare o non andare e come andare a consultare la letteratura scientifica alla fonte.  E’ il caso ad esempio dell’ultimo lavoro di recente pubblicato dal gruppo del Gontero P. e coll.  dell’ Università di Torino sui rischi degli integratori per il cancro alla prostata. Ieri è comparso su La Stampa di Torino un articolo titolato “Troppi integratori  alimentari provocano il tumore alla prostata”. Ora capisco anche il fatto che i titoli dei giornali hanno il significato ben preciso di far vendere o di comunque di attirare l’attenzione del lettore, ma… santamadonnina, si sta parlando di patologie gravi e diffuse come il cancro, e non si possono lanciare così nell’etere notizie allarmanti,  quando vai davvero a leggere il lavoro ti rendi conto che ci sono cose che non tornano…
Eh insomma…
Allora ripartiamo dall’inizio del mio discorso.
Chi lancia la notizia scientifica in particolare se vuol essere sensazionale, si deve accontentare di quello che gli viene riferito ? deve leggersi il riassunto del lavoro presentato ad un congresso? Il riassunto del lavoro in fase di pubblicazione una volta accettato per la pubblicazione su una rivista ? o solo quando pubblicato ? o forse non è meglio leggere tutto il lavoro per esteso già pubblicato ? o ancora leggerselo tutto ed entrare nel merito del lavoro per capire come è stato condotto davvero il lavoro ? per poter meglio trasferire l’essenza della ricerca ai suoi lettori ovviamente, in un linguaggio semplice e chiaro.
Ebbene, tutto questo processo, che può richiedere più o meno tempo ed  ovviamente delle competenze, è indispensabile, e può essere mediato anche da un tecnico, ma mi ripeto, è indispensabile, soprattutto quando si devono far passare notizie  cosiddette perlomeno apparentemente “rivoluzionarie” altrimenti si rischia di prendere anche delle cantonate…
Ebbene leggere questo lavoro specifico dal vivo, cioè pubblicato per esteso è stato per me una sorpresa nella sorpresa, perché da La Stampa, avevo appreso che un supplemento di selenio, licopene e tè verde provoca il cancro alla prostata, leggendo il lavoro sulle pagine della rivista scientifica, ho trovato una serie di motivazioni tecniche , assolutamente non banale, anzi…, che dovrebbero far rivedere quantomeno la discussione e le conclusioni se non il disegno del lavoro stesso:
  1. è stata utilizzata una dose  giornaliera di licopene superiore al doppio di quanto ammesso dal ministero, quando c’era già da tempo letteratura sui rischi di una supplementazione esagerata di licopene …
  2. perché lo hanno somministrato in un’unica compressa associandolo al tè verde, per il quale invece c’è ampia letteratura relativa alla attività protettiva del tè verde  ?
  3. avrebbero dovuto semmai nel tempo somministrare a gruppi distinti dosi diverse di licopene  e vedere se ci fossero state risposte diverse
  4. oppure creare gruppi distinti con comunque le varie sostante separate
  5. è stato somministrato un estratto di polifenoli di tè verde di cui manca la  analisi qualitativa e lo studio di farmacocinetica
  6. è stato condotto uno studio così complesso, durato molti anni,  coinvolgendo tante strutture, uomini, mezzi, risorse, per anni e anni, in realtà studiando in tutto soltanto 27 trattati su un totale di 60 arruolati.
  7. dei pazienti non è stata studiata la storia familiare di carcinoma prostatico
  8. quindi per concludere (siccome poi quando si parla di efficacia si pretendono, giustamente, sempre i grandi numeri) in questo caso invece si deve dire che su un piccolo numero di pazienti trattati, pur essendo state utilizzate tecniche sofisticatissime, in realtà non sono stati adottati una serie di accorgimenti, forse banali, che avrebbero magari alla fine farci capire se davvero qualcuna di quelle tre sostanze fosse stata rischiosa o meno per qualcuno di quei pazienti.
  9. Ma sarebbero comunque serviti numeri enormi e disegni di studio adeguati a valutare la sicurezza e non l’efficacia.
  10. La stampa avrebbe dovuto tener conto anche di tutto questo
E ora, se me lo consentite, vado a farmi una bella tazza di tè verde.
Fabio Firenzuoli

07 settembre 2015

L'alimentazione personalizzata come rimedio all'infiammazione

L'infiammazione è esperienza condivisa da tutti, tanto che i farmaci antinfiammatori sono in assoluto i più venduti al mondo, come numero di pezzi. Ogni medico inoltre si confronta quotidianamente con fenomeni di infiammazione a bassa intensità che spesso durano a lungo e che per anni sono stati scarsamente compresi. Il sospetto di una relazione diretta con l'alimentazione è sempre stato molto forte, ma molti ricercatori si sono avvicinati in modo spesso controverso al tema delle cosiddette intolleranze alimentari scontrandosi con pregiudizi, petizioni di principio e proponendo in molti casi pratiche diagnostiche dubbie. La scoperta che un alimento può indurre la produzione di Baff (B Cell Activating Factor) o di Paf (Platelet Activating Factor) e provocare tutti i sintomi infiammatori che usualmente sono ascritti al cibo risale agli studi di Lied (1) del 2010 ma solo da poco è applicata in ambito clinico. La misurazione di queste citochine consente di capire il livello di infiammazione correlata al cibo eventualmente presente in una persona e di agire sugli aspetti nutrizionali per ridurla e per controllarne gli effetti sulla salute. Si tratta di una vera rivoluzione concettuale che consente di andare oltre la conoscenza di Ves e Pcr che da oltre 50 anni restano incredibilmente gli unici due "indicatori di infiammazione" usati dalla medicina in ambito clinico. Baff e Paf invece sono effettivi indicatori di una reazione dovuta anche al cibo, come documentato da Piuri (2). Si tratta di un primo passo verso la migliore comprensione delle reazioni dell'organismo che porterà in breve alla acquisizione e alla valorizzazione di altri biomarkers specifici che consentiranno sempre di più di caratterizzare il fenotipo di una reazione alimentare. Sappiamo che si tratta di una reazione dovuta all'immunità innata e all'attivazione di Toll Like Receptors (soprattutto Tlr2 e Tlr4), recettori che svolgono nell'organismo la funzione di segnalare un pericolo, che nel caso del cibo è il superamento di un livello di soglia nell'assunzione di cibo e manifestano la reazione infiammatoria come fosse una "luce di allarme" perché si cambi il comportamento alimentare. Poiché questa reazione non riguarda solo la Sindrome del colon irritabile o la colite ma anche patologie come artrite reumatoide, morbo di Crohn, lupus, diabete (3) e molte altre, l'approccio più moderno è quello di interpretare la reazione infiammatoria come un avvertimento o un segnale per un reale cambio di comportamenti che guidi il recupero dello stato di benessere attraverso una alimentazione personalizzata.
1) Lied GA et al, Aliment Pharmacol Ther. 2010 Jul;32(1):66-73. Epub 2010 Mar 26
2) Piuri G, Soriano J, Speciani MC, Speciani AF (2013) B cell activating factor (BAFF) and platelet activating factor (PAF) could both be markers of non-IgE-mediated reactions. Clin Transl Allergy 3:O5.
3) Kim YH et al, Exp Mol Med. 2009 Mar 31;41(3):208-16.


Attilio Speciani

17 luglio 2015

Fondamentale l'uso degli enzimi nel trattamento delle patologie autoimmuni



La completa digestione degli alimenti e la riduzione degli antigeni residui nell'intestino ha un forte rilievo nel trattamento delle patologie autoimmuni e l'uso degli enzimi è una delle armi più frequentemente utilizzate, al pari degli antinfiammatori, dei regolatori immunitari e dei probiotici, nel piano terapeutico di ogni persona.
Molti pensano alle patologie autoimmuni come a malattie in cui si costruiscano anticorpi contro il proprio "self" che facilitino l'autodistruzione. Il tema è dibattuto, perché in realtà molti autoanticorpi esistono "normalmente" in persone che non hanno nessun tipo di disturbo e in molte situazioni, come nella tiroidite di Hashimoto, la presenza di autoanticorpi, anche a livelli elevati, non significa necessariamente che la tiroide smetta di funzionare. Ciò che genera "malattia" è la reazione infiammatoria, quasi sempre stimolata anche dal contatto tra intestino e cibo che assume così un ruolo spesso determinante. L'innesco di questo meccanismo può essere dovuto a citochine come BAFF (B Cell Activating Factor) e PAF (Platelet Activating Factor) che attivano a cascata una risposta immunologica diretta. Gli autoanticorpi non determinano necessariamente una lesione d'organo, ma possono invece creare, con alcune proteine assorbite dall'intestino e non ancora completamente digerite, dei reticoli complessi, quasi dei veri e propri "grumi", che vengono filtrati e trattenuti da alcuni organi e che generano una attivazione a cascata di reazioni infiammatorie di forte impatto sull'intero organismo.
Il malassorbimento intestinale, l'infiammazione da cibo e la "leaky gut syndrome" (situazione in cui la permeabilità intestinale è aumentata) sono tutte situazioni che facilitano la comparsa di malattie autoimmuni. Basti pensare per esempio alle strette relazioni tra tiroidite e Gluten sensitivity. Come ha descritto Fasano (1), l'aumentata permeabilità intestinale è la possibile causa di molte malattie autoimmuni e la completa digestione enzimatica della gliadina, ottenuta da proteasi prodotte dall'Aspergillo, è in grado di ridurre o annullare la risposta reattiva delle cellule T sensibli al glutine (2).
Quest'ultimo lavoro spiega perché la completa digestione della gliadina può ridurre la reazione che porta poi, nei soggetti predisposti, allo sviluppo della celiachia.
Quindi le reazioni autoimmuni sono spesso stimolate dalla presenza di un reticolo di proteine indigerite in cui gli autoanticorpi fanno da "legante", attivando l'azione del Complemento (dosabile nel sangue come C3 e C4) che viene consumato e si presenta in questi casi spesso ridotto. Il fatto che la grande maggioranza delle malattie autoimmuni, infiammatorie e allergiche tragga beneficio dall'utilizzazione a cicli ripetuti di enzimi digestivi fa capire che la cattiva digestione è una concausa importante di questi disturbi e tra le tante sicuramente una concausa facilmente risolvibile.
1) Fasano A. Clin Rev Allergy Immunol. 2012 Feb;42(1):71-8. doi: 10.1007/s12016-011-8291-x
2) Toft-Hansen H et al, Clin Immunol. 2014 Aug;153(2):323-31. doi: 10.1016/j.clim.2014.05.009. Epub 2014 Jun 3.
Attilio Speciani