11 novembre 2014

Bevande fermentate

 I probiotici sono tra i parafarmaci più consumati al mondo e i loro effetti benefici sull'organismo sono stati confermati anche a livello scientifico. Tuttavia già da molti secoli alcune popolazioni consumano cibi e bevande fermentate ad alto profilo probiotico anche di origine vegetale. Nella tradizione turca ad esempio esiste il succo shalgam che si ottiene ponendo a fermentare carote nere, sale, rape, lievito di panificazione (Saccharomyces cerevisiae) e acqua. La fermentazione avviene a temperature comprese tra 10°C e 35&de g;C per 3-5 giorni. Il microflora batterica che viene a formarsi è composta principalmente da Lactobacillus (LAB) (89.63%) seguita da Leuconostoc (9,63%) e Pediococcus (0,74%). Il livello di LAB totale è stato segnalato nel range di 7,10-8,90 log cfu/g. Tra i LAB rilevati i Lactobacillus plantarum, Lactobacillus brevis e Lactobacillus paracasei sono i predominanti. Il prodotto è conservabile per 3 mesi a temperatura di 4°C. Sempre nella tradizione turca compare l'hardaliye che si ottiene facendo fermentare a temperatura ambiente per 5-10 giorni, acini d'uva pressati e foglie di ciliegio in presenza di 0,2% di semi di senape frantumati. Il quantitativo di LAB che si forma entra nel range di 100 - 40.000 cfu/mL e i ceppi predominanti sono L. paracasei e L. casei subsp. pseudoplantarum. In questo caso la presenza di un antibatterico naturale come l'allil isotiocianato della senape, rende il preparato conservabile per lunghi periodi. Boza è invece una bevanda fermentata prodotta a partire dalla farina che può essere di miglio, mais, grano o di riso, grazie all'azione del lievito e della fermentazione acida lattica. Nella fase di preparazione la farina viene aggiunta di un volume 5 volte maggiore di acqua e la miscela viene fatta bollire per 1-2 ore a seconda della materia prima di partenza fino alla formazione della pasta omogenea. La miscela viene quindi filtrata e raffreddata mescolando per evitare la formazione di una crosta in superficie. Del saccarosio in polvere (20-25%) viene quindi aggiunto come substrato per LAB e lieviti. La fermentazione avviene a 30°C per 24 ore. Due tipi di fermentazione si osservano nel boza: la fermentazione acida lattica da LAB e la fermentazione alcolica dai lieviti. I LAB e i lieviti totali conteggiati nel boza variano all'interno della gamma di 2,94×100.000 - 4,6×100 milioni ufc/ml e 2,24×100.000 -8,40 ×10 milioni ufc/mL, rispettivamente. Sono stati isolati 77 ceppi diversi di LAB e 70 di lieviti dal boza, tuttavia la shelf-life è piuttosto breve, superiore comunque ai 15 giorni e se conservato a T non minori di 10°C. 

International Journal of Food Microbiology 167 (2013) 44 -56

Angelo Siviero
Farmacista, esperto in Fitoterapia clinica
Padova

18 ottobre 2014

"Ricerca della Johns Hopkins University School of Medicine". Dalle crucifere una possibile cura per l'autismo

Buone prospettive per il trattamento dell’autismo arrivano da delle semplici piante appartenenti alla famiglia delle crucifere. Un piccolo studio condotto dai ricercatori del MassGeneral Hospital for Children (MGHfC) e la Johns Hopkins University School of Medicine ha infatti provato che il trattamento giornaliero con il sulforafano – la molecola attiva che si trova nelle verdure come broccoli, cavolfiori e cavoli (piante appartenenti alla famiglia delle crucifere) – può migliorare alcuni dei sintomi dei disturbi dello spettro autistico.
Nel rapporto sullo studio, pubblicato online su PNAS Early Edition, i ricercatori descrivono come i partecipanti hanno mostrato un miglioramento sia nelle valutazioni comportamentali che di comunicazione, in appena quattro settimane di trattamento con una dose giornaliera di sulforafano.
«Nel corso degli anni ci sono stati diversi resoconti aneddotici sul fatto che i bambini con autismo possono avere miglioramenti nell’interazione sociale e, talvolta, nelle competenze linguistiche quando hanno la febbre – spiega il dott. Andrew Zimmerman, coautore e corrispondente del report – Abbiamo studiato quello che potrebbe esserci dietro a livello cellulare e ipotizzato cosa risulterebbe dall’attivazione della febbre da risposta allo stress cellulare, in cui i meccanismi cellulari di protezione che di solito sono tenuti in riserva sono attivati attraverso l’attivazione della trascrizione genica».
Per questo studio sono stati arruolati 44 giovani di età compresa tra i 13 e i 27 anni. A tutti erano stato diagnosticato da moderato a grave disturbo dello spettro autistico. I partecipanti sono poi stati assegnati a ricevere in modo casuale o una dose giornaliera sulforafano – estratto da germogli di broccoli – o un placebo. Il tutto in doppio cieco, dove né gli investigatori, i partecipanti e né i loro caregivers sapevano chi stesse ricevendo il sulforafano o il placebo.
I partecipanti sono poi stati valutati – sia dai caregivers che dai ricercatori – usando misure standardizzate di comportamento e di interazione sociale in via preliminare allo studio e poi a 4, 10 e 18 settimane dopo che il trattamento era iniziato. Il trattamento è stato interrotto dopo 18 settimane, e valutazioni supplementari sono state compiute dopo 4 settimane, ossia a 22 settimane.
Secondo l’autore principale dello studio, dott. Kanwaljit Singh del MGHfC, Lurie Center e UMass, tra i 40 partecipanti che sono tornati per ottenere almeno una valutazione, i punteggi medi per ciascuna delle valutazioni erano significativamente migliori in 26 dei partecipanti che avevano ricevuto il sulforafano rispetto a 14 che hanno ricevuto il placebo.
Anche alla visita dopo 4 settimane, alcuni caregivers hanno riportato un miglioramento comportamentale evidente. Mentre alla fine del periodo di studio, sia il personale di studio che i familiari hanno correttamente indovinato le assegnazioni di molti partecipanti. Complessivamente, 17 dei 26 partecipanti che hanno ricevuto il sulforafano sono stati giudicati positivamente dai loro caregivers con miglioramenti nel comportamento, nell’interazione sociale e nella calma durante il trattamento attivo.
Anche i punteggi medi su due valutazioni quali la Lista di Controllo sul Comportamento Aberrante (ABC) e la Scala di Reattività Sociale (SRS) sono migliorati in modo significativo dopo 18 settimane di studio. Nei partecipanti che hanno ricevuto il sulforafano i punteggi erano diminuiti rispettivamente del 34% e 17% per cento. Il che si traduce in un miglioramento di fattori quali irritabilità, letargia, movimenti ripetitivi, iperattività e poi nella comunicazione, la motivazione e nell’imitazione dei modelli.
Le valutazioni che invece utilizzano la scala Clinical Global Impression hanno indicato che il 46% di coloro che hanno ricevuto il sulforafano mostravano un notevole miglioramento nell’interazione sociale; il 54% nei comportamenti aberranti, e il 42% nella comunicazione verbale. Infine, la maggior parte, ma non tutti i miglioramenti, erano scomparsi dalla 22ma settimana di rivalutazione (quando i partecipanti non ricevevano più il trattamento con il sulforafano), supportando la probabilità che a cambiare le cose era stata l’interruzione del trattamento con sulforafano.
«Quando abbiamo rotto il codice che ha rivelato chi stava ricevendo il sulforafano e chi il placebo, i risultati non sono stati sorprendenti per noi, dal momento che i miglioramenti erano così evidenti – sottolinea il dott. Zimmerman, professore di Neurologia Pediatrica presso UMass – I miglioramenti osservati sulla Scala di Reattività Sociale erano particolarmente notevoli, e mi è stato detto che questa è la prima volta che un miglioramento statisticamente significativo sulla SRS si è visto per uno studio sul farmaco nel disturbo dello spettro autistico».
«Ma è importante notare – aggiunge Zimmerman – che i miglioramenti non hanno interessato tutti (circa un terzo non ha avuto alcun miglioramento) e lo studio deve essere ripetuto in un gruppo più ampio di adulti e bambini, qualcosa che speriamo di organizzare presto. In definitiva, abbiamo bisogno di ottenere dalla biologia di base gli effetti che abbiamo osservato e studiarli a livello cellulare. Penso che ciò sarà fatto, e spero che ci insegnerà molto su questa malattia ancora poco conosciuta».

06 ottobre 2014

CANCRO AL SENO DOPO LA MENOPAUSA

Se colonizzato da una flora batterica sana e diversificata, l’intestino delle donne in post-menopausa è più efficiente nel metabolizzare gli estrogeni, potenziali fattori di rischio per il cancro al seno. Sono queste le conclusioni di uno studio pubblicato sul Journal of Clinical Endocrinology and Metabolism coordinato da Barbara Fuhrman, professore di epidemiologia all’University of Arkansas for Medical Sciences. «La capacità di metabolizzare gli estrogeni e il rischio di cancro al seno nelle donne in post-menopausa dipende anche dalla composizione del microbiota intestinale» esordisce la ricercatrice, ricordando che gli estrogeni vengono metabolizzati in gran parte nel fegato ed escreti con la bile nell’intestino. «E il microbiota, a seconda dei batteri che lo compongono, può ulteriormente modificare i metaboliti favorendone il riassorbimento nel flusso sanguigno» riprende, ipotizzando che le donne con un microbiota efficiente nel metabolizzare gli estrogeni intestinali potrebbero avere un ridotto rischio di cancro al seno. Lo studio ha coinvolto 60 donne da 55 a 70 anni in post-menopausa assistite dal provider sanitario Kaiser Permanente in Colorado. «Tutte avevano una mammografia normale prima di entrare nello studio» riprende l’epidemiologa, spiegando che durante il follow-up sono stati prelevati sia campioni di feci per valutare la biodiversità della flora batterica, sia campioni di urina per esaminare il rapporto tra estrogeni e i loro metaboliti. «I pazienti con microbiota polimorfo avevano un rapporto più elevato tra metaboliti ed estrogeni, specie in presenza di batteri della classe Clostridium, soprattutto il genere Ruminococcus. Viceversa, la presenza di un elevato numero di germi del genere Bacteroides era inversamente proporzionale al tasso di metabolizzazione. «Dato che i risultati dello studio si basano sul sequenziamento dell’Rna ribosomiale e non su quello del genoma, è difficile stabilire un collegamento diretto tra una singola specie di microbi e la produzione di metaboliti degli estrogeni» puntualizza Fuhrman. E conclude: «Ciononostante, questi dati sono il primo passo verso la comprensione del ruolo del microbiota nell’omeostasi degli estrogeni e il suo impatto sulla salute umana».


J Clin Endocrinol Metab 2014. doi: 10.1210/jc.2014-2222

23 luglio 2014

Vitamina D e cancro


Vitamina D e cancro
L’estate volge al termine e ci incamminiamo nel lungo inverno della carenza di vitamina D.

La vitamina D in realtà non è nemmeno una vitamina nel senso stretto del termine, ma è un potentissimo ormone steroide che viene prodotto quando la nosta pelle viene colpita da una quantità adeguata di luce solare ultravioletta, ad una lunghezza d’onda di 290-315 nanometri e viene poi attivato a livello del fegato e dei reni.
Oggi siamo sempre meno esposti alla luce solare, soprattutto in inverno. La nostra vita scorre quasi tutta in luoghi chiusi (case, uffici, negozi, automobili) e ogni qualvolta ci esponiamo al sole stiamo attentissimi a proteggerci con filtri solari sempre più selettivi, soprattutto per il diffuso timore che l’esposizione al sole sia pericolosa.
Gli studi dimostrano che la carenza di vi tamina D è collegata ad una maggiore incidenza di cancro (soprattutto seno, polmone, colon e prostata), attacchi cardiaci,ipertensione arteriosa, ictus, diabete, sclerosi multipla, malattie autoimmu ni, depressione stagionale e altri disturbi mentali, morbo di Alzheimer, osteoporosi, dolori cronici muscolari e articolari, influenza e raffreddori, asma, stanchezza cronica.
La Vitamina D accelera la guarigione dei tessuti, ed avendo un effetto antiproliferativo riduce il rischio di degenerazione neoplastica, regola l’apoptosi e la differenziazione cellulare.
Negli Stati Uniti si e’ visto che l’integrazione di 1000 unità internazionali al giorno di vitamina D riduce la mortalità per cancro nel 9% delle donne e nel 7% degli uomini.
In uno studio pubblicato nel 2007 sull’ American Journal of Clinical Nutrition le donne in postmenopausa che avevano assunto calcio e vitamina D avevano registrato una diminuzione del 77% del rischio di sviluppare cancro. Per ogni aumento di 10 ng/ml di vitamina D nel sangue, il rischio relativo di cancro è crollato del 35%.
Secondo l’American Cancer Society il cancro al seno e’ la seconda causa di morte nelle donne degli Stati Uniti. Il tasso di questo tumore e’ più alto nelle donne bianche dopo i quarant’anni ed e’ elevato nelle donne nere al di sotto dei 40 anni. Queste ultime hanno anche maggior probabilità di morire di cancro al seno ad ogni età. I tessuti del seno hanno recettori della vitamina D, quindi risentono abbastanza del tasso di vitamina D disponibile.
La vitamina D agisce sui tumori interferendo nella costituzione dei vasi sanguigni che li alimentano. Le donne che hanno livello ematico di vitamina D più basso di 20 ng/ml possono avere un’incidenza di cancro al seno maggiore del 50%; d’altro canto l’attualefabbisogno medio (R.D.) di vitamina D è insufficiente per aumentare i livelli fino a 30 ng/ml.
I livelli bassi di vitamina D (al di sotto dei 20 ng/ml) sono associati ad un aumento del rischio di cancro del colon dal 20 al 50%. Una metanalisi ha evidenziato che livelli ematici di vitamina D sui 33 ng/ml sono associati ad una diminuzione del 50% del rischio di cancro al colon rispetto a livelli di 12 ng/ml.
Per quanto riguarda l’apparato cardiovascolare l’Healt Professoional Follow Up Studyl ha raccolti campioni di sangue di oltre 51.000 mila operatori sanitari di sesso maschile che nel 1986 avevano tra i 40 e 75 anni, ha evidenziato che chi aveva una carenza di vitamina D (con livelli inferiori di 15 ng/ml) ha avuto il 242% di possibilità in più di avere un attacco di cuore rispetto a chi aveva livelli di almeno 30 ng/ml.
La carenza di vitamina D è oggi universale e colpisce la quasi totalità della popolazione, specie nei paesi al di sopra del 35° parallelo come l’Italia. Maggiore e’ la latitudine, meno efficaci i raggi ultravioletti nel produrre la vitamina.
Alle nostre latitudini da novembre a marzo i raggi UV non sono in grado di produrre la vitamina. Una crema solare con fattore di protezione 8 abbatte fino al 92% la produzione di vitamina D, un fattore di protezione 15 fino al 99%.
D’altro canto le persone che passano molto tempo ad abbronzarsi producono piu’ melanina sulla pelle e quindi hanno una ridotta capacita’ di convertire la luce solare in vitamina D.
Per usufruire del sole in modo sicuro bisogna attenersi alla seguente regola: esporre il 25% della pelle (mani, braccia e parte inferiore delle gambe)per un periodo di tempo che va dal 25 al 50% del tempo che si presume sia necessario alla pelle per arrossarsi.
Perciò se non vivete ai Tropici e se non passate la maggior parte delle vostre giornate nudi sotto il sole è pressoché impossibile cha il vostro organismo produca abbastanza vitamina D per tutte le sue necessità e di venta quindi necessario assumerla come supplemento.
In effetti per assumere almeno 1000 unità internazionali (UI) bisognerebbe bere 10 bicchieri di latte da 240 ml l’uno.
Nella nostra popolazione vi e’ un epidemia di carenza di vitamina D; meno del 5% raggiungono un livello nel sangue di 40-50 ng/ml oggi considerati ideali, mentre la maggior parte è collocata fra i 5 ed i 20 ng/ml. Ossia livelli già bassi anche per gli obsoleti range di normalità nei nostri laboratori che erano basati sul minimo di 20 ng/ml per scongiurare il rachitismo. Si è valutato inoltre che tra il 40 e il 100% delle persone anziane sia carente di vitamina D.
La pratica ha dimostrato che per raggiungere i 50 ng/ mi sono necessari almeno 5000 UI al giorno di vitamina D3, contro una RDA di 600-800 UI. La somministrazione di queste quantità è però consigliata solo sotto controllo medico mentre per i soggetti che non effettuano controlli ematici è bene non superare le 2000 UI giornaliere.
L’eccesso di vitamina D è in realtà assai più raro di quanto si pensasse e valori ematici fino a 100 ng/ml non creano alcun problema. Il problema è quindi solo quello di non averne abbastanza.
Prof.Massimo Fioranelli

Direttore Scientifico ARTOI

Direttore “Centro Studi Scienze della vita”,
Università “G. Marconi” – Roma

09 luglio 2014

La dieta scritta nel Dna del pr Giuseppe Di Fede


dna


La soluzione a diete inconcludenti è scritta nel vostro Dna. Grazie allo studio approfondito dei geni coinvolti nel metabolismo e preferenze alimentari, è possibile elaborare piani nutrizionali personalizzati molto più efficaci nella perdita di peso, ma anche nella prevenzione di malattie come l’ipertensione, la depressione e il cancro. Studiare il genoma umano permette di aprire nuove possibilità per lo sviluppo di diete personalizzate e di alimenti funzionali, che migliorano la salute delle persone e quindi la loro qualità di vita.
Questo è quanto emerge dallo studio dei ricercatori dell’Università di Trieste e dell’Irccs Burlo Garofolo, l’istituto per la salute materno infantile triestino, presentato alla conferenza annuale della European Society of Human Genetics (Eshg).
I ricercatori friulani hanno iniziato il progetto Genome Wide Association Studies (Gwas) proprio per cercare di svelare le basi genetiche di alcune preferenze alimentari. Lo studio ha coinvolto 2311 italiani, e 1.755 persone, provenienti da diversi paesi europei e dell’Asia centrale, chiamate in seguito per verificare ulteriormente i risultati. I nostri studi saranno importanti per comprendere l’interazione tra l’ambiente, gli stili di vita e il genoma nel determinare lo stato di salute di una persona.
La ‘dieta genetica’ o meglio la Nutrigenomica si può adattare alle preferenze alimentari individuali e consente di ottimizzare il lavoro del metabolismo, per ottenere il meglio dai cibi che mangiamo. Inoltre, è semplice da seguire, perché ricordare i cibi che si amano di più o di meno, è più facile.
Lo studio della Nutrizione legato all’attività genetica, da dieci anni ormai, impegna lo staff dell’Istituto di Medicina Biologica di Milano, in collaborazione con L’Istituto di Medicina Genetica Preventiva Personalizzata, sempre di Milano. L’interazione gene e alimenti, interessa sia i ricercatori che i medici nutrizionisti, per creare soluzioni adeguate e personalizzate ai bisogni individuali. Il raggiungimento del risultato è in funzione di una buona aderenza alle indicazioni che fornirà lo specialista, seguendo le indicazioni del test genetico.
Ancora, in un recente studio, i ricercatori dell’Università di Trieste hanno personalizzato la dieta di 191 persone obese divise in due gruppi, 87 in un gruppo di prova e 104 in un gruppo di controllo in base alla conoscenza di alcuni geni. La dieta è quindi stata formulata in base ai singoli profili genetici , mantenendo l’apporto calorico complessivo, uguale per tutti. In due anni, le persone che avevano seguito la dieta genetica, anche se all’inizio dello studio non vi erano differenze significative per età, sesso e indice di massa corporea tra i due gruppi, avevano perso il 33% in più di peso rispetto al gruppo di controllo, e la loro percentuale di massa magra era aumentata di più rispetto agli altri.

01 luglio 2014

Zonulina e Leaky gut Syndrome (aumentata permeabilità intestinale)


a cura del dott Mario Mauro Amato

Il tratto gastrointestinale è composto da cellule che sono strettamente disposte e connesse da giunture ben serrate. Il tratto digestivo si infiamma come risultato di una cattiva digestione, stress elevato e molti altri fattori. Questa infiammazione compromette le giunture, permettendo a particelle di cibo indigerito, tossine e batteri di entrare nel circolo sanguigno. Una volta che queste particelle di cibo vengono assorbite, il sistema immunitario reagisce ed inizia ad attacarle poiché le considera come sconosciute e quindi una minaccia. Questo crea un circolo vizioso che genera altra infiammazione e che a sua volta promuove ulteriore permeabilità intestinale.
Questa condizione richiede solitamente anni per svilupparsi. Come il tratto gastrointestinale si danneggia, le cellule perdono la capacità di digerire il cibo a causa di una carenza enzimatica. E questo nel tempo può portare a malnutrizione, infiammazione, sovracrescita di funghi e batteri, intolleranze alimentari ed un sistema immunitario iperattivo.
Come misurare la permeabilità intestinale?
Zonulina
La zonulina è una proteina che regola la permeabilità dell’intestino. Gli anticorpi contro la zonulina indicano che la normale regolazione delle giunture è compromessa.
La zonulina è una proteina che modula le giunzioni strette degli enterociti, le cellule che costituiscono la parete intestinale. Essa si lega a uno specifico recettore dell’epitelio della superficie intestinale e innesca una cascata di reazioni biochimiche che creano un disassemblamento delle cellule epiteliali con un conseguente aumento della permeabilità intestinale.
Ciò fa sì che alcune sostanze passino attraverso l’epitelio stesso scatenando nel tessuto linfoide sottostante una serie di reazioni immunitarie.
La Zonulina è misurabile nel siero del soggetto attraverso un semplice prelievo di sangue.
Le persone con alti livelli di zonulina, quindi con aumentata permeabilità dell’intestino, presentano spesso disturbi intestinali riconducibili alle tipiche reazioni immunitarie come ad esempio intolleranze e allergie alimentari.
Sappiamo che i due principali fattori scatenanti della zonulina sono il glutine ed i batteri nel piccolo intestino. Quindi una SIBO(overgrowth batterico del piccolo intestino)non curata, un overgrowth di candida o la presenza di parassiti possono rappresentare una minaccia per l’intestino con possibile sviluppo di permeabilità intestinale.
In un articolo della rivista medica Diabetes, gli autori scrivono:
abbiamo recentemente scoperto una nuova proteina, la zonulina, che modula la permeabilità intestinale smantellando le strette giunture intercellulari (sapone et al 2006) – questa proteina, quando alterata, sembra avere un ruolo chiave nella patogenesi delle malattie autoimmuni.
http://www.centrodimedicinabiologica.it/