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07 giugno 2014

Digiunare per resistere meglio alla chemioterapia

La privazione temporanea di cibo fa calare il numero di cellule immunitarie del sangue come i globuli bianchi, che ritornano a livelli normali quando si ricomincia a mangiare. Un nuovo studio ha dimostrato che questo fenomeno, scoperto nei topi, consente ai malati di tumore di resistere meglio agli effetti collaterali della chemioterapia che colpiscono in particolare il sistema immunitario 


Un periodo di digiuno può indurre un maggiore ricambio delle cellule staminali nel sangue, aiutando il sistema immunitario a resistere agli effetti negativi della chemioterapia e anche alla normale degenerazione dovuta all'invecchiamento. 

Lo afferma un nuovo
 studio pubblicato sulla rivista “Cell - Stem Cell” da Valter Longo e colleghi della University of Southern California, che hanno verificato questo fenomeno su alcuni pazienti oncologici, dopo averlo scoperto in una sperimentazione sui topi. Il risultato potrebbe avere importanti ricadute per la salute e la qualità della vita di pazienti in chemioterapia, anziani e persone con deficit del sistema immunitario.

La chemioterapia è, insieme alla radioterapia e alla chirurgia, il trattamento più utilizzato e più efficace contro il cancro. Può produrre tuttavia notevoli effetti collaterali, tra cui il depauperamento delle cellule del sistema immunitario: si calcola che circa un quinto dei decessi dei malati oncologici sia accelerato o addirittura causato dalla chemioterapia. Il sistema immunitario, inoltre, si degrada inevitabilmente con l'età, portando in alcuni casi a una condizione di immunodeficienza ed esponendo a un maggior rischio di sviluppare leucemie e altre neoplasie.

Paziente durante un'infusione di chemioterapia: gli effetti collaterali a carico del sistema immunitario possono essere attenuati con un digiuno temporaneo (© Jim Craigmyle/Corbis)In un precedente studio, Longo e colleghi avevano scoperto che privando temporaneamente del nutrimento alcuni topi di laboratorio, si riusciva ad aumentare la resistenza delle loro cellule staminali a determinati fattori di stress. in quest'ultimo lavoro hanno dimostrato che lo stesso digiuno ha effetti protettivi per le cellule immunitarie presenti nel sangue, come i globuli bianchi.

"Il digiuno prolungato determina una notevole riduzione del numero di globuli bianchi, che tuttavia tende a recuperare i valori normali quando i roditori riprendono
 ad alimentarsi: si tratta probabilmente di un meccanismo sviluppato con l'evoluzione che permette di ridurre il consumo energetico nei periodi di mancanza di cibo", ha spiegato Longo. "Questo stesso fenomeno ha l'effetto di indurre le cellule staminali a porsi in una modalità in cui riescono non solo a generare altre cellule immunitarie, ma anche a invertire l'immunosoppressione causata dalla chemioterapia: il sistema immunitario dei topi ne risultato ringiovanito". 


La rilevanza è dovuta al fatto che la protezione contro la perdita di globuli bianchi si verifica anche negli esseri umani. Gli autori lo hanno verificato nell'ambito di uno studio clinico in pazienti che hanno digiunato per un singolo periodo di 72 ore prima della chemioterapia a base di platino.

Inoltre, il digiuno sembra avere effetti positivi anche sulla riduzione dei livelli di IGF-1, una proteina con un ruolo chiave nella crescita nell'invecchiamento. Per questo, l'ipotesi degli autori è che il digiuno possa essere di beneficio non solo per i pazienti oncologici, ma anche per anziani e persone con deficit immunitari.
 


30 gennaio 2015

Datemi retta, il cibo "smart" allunga la vita Il progetto "SmartFood", del biologo Pier Giuseppe Pelicci, identifica nel cibo i principi attivi che accendono i geni della longevità


Pier Giuseppe Pelicci è molto alto e molto sorridente, soprattutto quando parla di molecole, geni, cellule. Biologo molecolare e drettore del dipartimento di oncologia sperimentale all’Istituto europeo di oncologia (Ieo), ammette che «faccio un mestiere meraviglioso e mi pagano pure». Oltre a indagare sui meccanismi dei tumori e della longevità (è stato lui a identificare, qualche anno fa, il gene «di lunga vita» P66, scoperta che ha fatto il giro del mondo) dirige allo Ieo il programma di ricerca SmartFood, cibo «furbo». Obiettivo, scoprire quali sostanze contenute negli alimenti possono attivare o silenziare i geni che allungano o accorciano la durata della vita. Manipolazione genetica, per così dire, fatta mangiando.
Smartfood: cibo furbo, intelligente. Un nome azzeccato. Ma il cibo «furbo» può davvero farci vivere più lungo?
Noi ne siamo convinti, ed è l’obiettivo delle nostre ricerche. Negli ultimi dieci anni c’è stata una rivoluzione nella comprensione dei meccanismi molecolari alla base dell’invecchiamento. Oggi sappiamo che la durata della vita e l’incidenza delle malattie sono fortemente influenzati da alcuni geni. Su cui il cibo può agire.
Quanti sono questi geni?
Ne abbiamo individuato una manciata, circa 25, ma pensiamo siano un centinaio. Si è visto che attivando o togliendo nei topi determinati geni, gli animali vivono più a lungo o, al contrario, di meno. Perché i geni che incidono sulla durata della vita sono di due tipi, quelli che la allungano o che la accorciano.
Ma a che cosa serve un gene che accorcia la vita?
È la domanda che si sono fatti gli scienziati: per quale motivo abbiamo geni che ci fanno invecchiare? Qualcuno ci vuole del male? Chiaramente non è così.
Hanno magari una funzione protettiva?
E certo che ce l’hanno. I geni dell’invecchiamento sono indispensabili in natura perché garantiscono la giusta quantità di energia, sotto forma di adipe, quando il cibo scarseggia. Regolano il metabolismo in modo da farci accumulare grasso per sopravvivere al freddo e alla carenza di risorse. Due condizioni che oggi, nei paesi occidentali pieni di frigoriferi, supermercati, caloriferi, cappotti, non si verificano più.
E perché favoriscono l’invecchiamento?
Attivati dal segnale dell’abbondanza di cibo, spingono a un consumo elevato e rapido di energia al fine della riproduzione, che è poi lo scopo di tutti gli esseri viventi. Come se dicessero all’organismo: approfitta che è il momento giusto. Ma consumare molta energia produce radicali liberi e molecole ossidanti. E nella nostra nicchia ecologica confortevole e artificiosa questi geni vengono continuamente sollecitati.
Se i geni dell’invecchiamento sono regolati dal cibo, agendo sul cibo possiamo modificarli?
Senza dubbio. Un modo potente per allungare la durata della vita, e che funziona su tutte le specie su cui è stato finora provato, dal verme alla scimmia, è la restrizione calorica. Non c’è motivo che non sia così anche per l’uomo.
Sugli umani, quali dati ci sono?
Indiretti. C’è questo gruppo di persone negli Stati Uniti che già oggi pratica la restrizione calorica nell’ambito di uno studio clinico; e i dati sui biomarker surrogati, quindi non sulla durata della vita ma su fattori come l’invecchiamento dei tessuti, la lunghezza dei telomeri e l’età cardiovascolare, suggeriscono che la restrizione calorica è efficace. Ma si tratta di una scelta eroica, difficilmente estendibile.
Per restrizione calorica che cosa si intende?
La minima quantità di calorie sopra la malnutrizione. Nel topo corrisponde al 30 per cento in meno di ciò che mangerebbe se avesse cibo in abbondanza. In assenza o in scarsità di cibo entrano in gioco i geni che favoriscono la riparazione delle cellule. Come succede a un telefonino: se è sempre acceso le batterie si scaricano, se è in stand-by allunga la sua durata.
Una cosa del genere. La restrizione calorica però nell’uomo non è praticabile. Si può agire sui geni della longevità anche con il digiuno alternato, più gestibile, o con molecole ricavate dagli alimenti.
Il digiuno alternato suona meglio. Gli ultimi studi suggerisocno che persino un minidigiuno di 12 ore faccia bene.
Il digiuno si è dimostrato uno strumento molto potente per abbassare i livelli di insulina, ormone stimolato dalla presenza di glucosio nel cibo. E l’insulina favorisce lo sviluppo dei tumori e ha effetti negativi sulla longevità.
Lei digiuna?
No, ma da anni ho un’abitudine che sto rivalutando: la mattina non faccio colazione, e non pranzo perché non ho tempo. Di fatto il mio pasto è la sera. Non mi sento di consigliarlo perché la sera è il momento in cui si brucia di meno, ma di fatto io digiuno per 24 ore.
Lasciando perdere diete punitive e digiuni alternati, possiamo raggiungere gli stessi obiettivi mangiando?
È quello che stiamo scoprendo: ci sono sostanze presenti nel cibo in grado di regolare questi geni. Al momento lavoriamo su una decina di molecole.
Per esempio?
L’arancia rossa dell’Etna è uno degli alimenti su cui abbiamo fatto più studi: produce grandi quantità di antocianine, che le danno quel colore intenso. Nei topi, la somministrazione dell’arancia stimola i geni legati alla durata della vita, e ha un effetto protettivo sulle malattie cardiovascolari.
Arance rosse, e poi?
Un frutto indiano, la Garcinia Cambogia: contiene principi attivi che agiscono sulle vie metaboliche della longevità. Così come altri cibi: fragole, mirtilli, uva rossa, cipolle e peperoncino. Non solo. Qualche tempo fa un lavoro su Nature ha dimostrato che una sostanza chimica ricavata da un fungo, il Ganoderma lucidum, data a topi adulti ne prolunga la vita, facendo crollare l’incidenza di cancro e di malattie cardiovascolari.
E che cosa ne facciamo di queste molecole "magiche"?
Intanto, gli alimenti diventano un’indicazione per la salute. L’obiettivo finale poi è purificare queste sostanze per farne prodotti di sintesi: farmaci veri e propri che hanno lo stesso effetto del cibo.
Nel frattempo, mangiamo cinque porzioni di frutta e cinque di verdura al giorno?
Ma per carità, chi l’ha detto?
Mah, voi esperti...
Io mai. Non c’è alcuna evidenza che le porzioni debbano essere proprio cinque. Di sicuro c’è che il consumo di frutta e verdura fa bene, ma nessuno sa con certezza se cinque porzioni quotidiane siano meglio di tre o di un’unica porzione grossa la settimana. Ma che vuol dire, che adesso io mi alzo perché devo mangiare una barbabietola? Smartfood destruttura proprio le indicazioni fondate sul nulla e le ristruttura in base alle evidenze scientifiche. L'informazione scientifica è l'unico strumento che abbiamo per orientare le nostre scelte.
http://www.panorama.it/scienza/dieta/cibo-smart-allunga-vita/ 

10 marzo 2013

Carciofo efficace nelle disfunzioni glicemiche, e non solo


L'alterazione della glicemia a digiuno (Impaired fasting glycaemia, Ifg) è una disfunzione metabolica sempre più frequente nella popolazione occidentale. Colpisce il 24% dei maschi e il 17% delle donne oltre i 60 anni: se non trattati, la maggior parte di questi soggetti nell'arco di 10 anni svilupperà diabete di tipo 2 e, conseguentemente, tutte le alterazioni degenerative che questo comporta. Esistono molti rimedi fitoterapici indicati per il controllo della glicemia e il metabolismo dei carboidrati, sia tramand ati dalle diverse tradizioni medicinali e sia più moderni. Nel tempo, le piante maggiormente utilizzate allo scopo sono state Garcinia cambogia, Gymnema sylvestre, Allium sativum, Panax ginseng, ognuna caratterizzata da una differente fitochimica e quindi da diverso meccanismo d'azione, oltre a specie vegetali a effetto più meccanico, ricche cioè in lunghe fibre polisaccaridiche, quali Amorphophallus konjac, Opuntia ficus indica e Momordica charantia. Recentemente, inoltre, ottime evidenze sperimentali sono state mostrate da estratti di Cynnamomum zeylanicum, la cannella, dopo somministrazione orale post-prandiale. Uno studio tutto italiano riporta però in auge, mostrando interessanti risultati, un'altra specie vegetale, il carciofo (Cynara scolymus). I componenti fitochimici principali e maggiormente attivi estratti dalle pa rti aeree di questa asteracea, nota per lo più per le sue proprietà coleretiche, sono l'acido clorogenico e l'acido caffeilchinico; in particolare, il primo è un potente inibitore della glucosio-6-traslocasi, enzima chiave del sistema epatico di regolazione del metabolismo del glucosio, mentre il secondo e i suoi derivati sono coinvolti nella regolazione dell'attività della alfa-glicosidasi, enzima pancreatico la cui attività determina la liberazione in sede duodenale (ed il conseguente assorbimento) di gran parte del glucosio di origine alimentare. Lo studio clinico, condotto in doppio cieco presso l'università di Pavia, ha coinvolto 55 soggetti sovrappeso od obesi la cui dieta è stata implementata, per 60 giorni, con un estratto di carciofo (600 mg/die suddivisi in tre somministrazioni ai pasti principali) o con placebo. L'estratto vegetale utilizzato è molto caratterizzato, nota importante per uno studio in materia fitoterapi ca: titolato mediante HPLC al 60% in acido caffeilchinico, è stato preparato con estrazione idroalcolica (EtOH 70%) ed è caratterizzato da un rapporto droga/estratto di 120:1. Dati positivi e statisticamente significativi sono stati ottenuti non solo per il valore della glicemia a digiuno, ma anche per molti essenziali parametri corollari quali l'indice di emoglobina glicata, i valori di Adag (Media glicemica derivata dalla Hb glicata) e quelli dell'indice Homa per la valutazione dell'insulino-resistenza, tutti ridotti. Azioni positive sono state ottenute, come atteso, per quanto riguarda i parametri lipidemici con una riduzione del colesterolo Ldl ed un miglioramento sostanziale dell'Irc (indice di rischio cardiovascolare). Anche il Bmi risulta migliorato nel gruppo trattato, evidenziando quanto estesamente il supplemento dietetico di estratto di carciofo sia clinicamente efficace.

Rondelli, M., et al., Metabolic Management in Overweight Subjects with N aive Impaired Fasting Glycaemia by Means of a Highly Standardized Extract From Cynara scolymus: A Double-blind, Placebo-controlled, Randomized Clinical Trial. Phytother Res., 2013, Feb 25.doi: 10.1002/ptr.4950.

Matteo Floridia
Biotecnologo, Esperto in Fitoterapia clinica
Milano

06 novembre 2012

Giusi e la celiachia articolo di Marco Scartezzini

Giusi è una bambina di quattro anni. I suoi occhi di un bel color azzurro, i capelli biondi che arrivano fino alle spalle, è il suo carattere frizzante e vivace che la fa apparire agli sguardi della gente una fanciulla felice e spensierata. Lo sguardo furbo, attento, ma allo stesso tempo curioso, tipico per la sua età, la rende simpatica ad ogni persona che ha modo di conoscerla o che entra in contatto con lei.
Due mesi fa, la scuola materna frequentata da Giusy, organizza una festa dedicata nonni. Vecchi e bambini diventano un tutt’uno nel divertirsi con i giochi dell’asilo. È durante la rappresentazione di un piccolo spettacolo, che ogni bambino cerca di mettere in pratica gli insegnamenti suggeriti dalle maestre, che con certosina pazienza hanno insegnato a tutto il gruppo a cui appartiene anche Giusy.
Il suo nonno è presente allo spettacolo, osserva che la bambina fa molta fatica ad eseguire il compito assegnatole. Anche i movimenti sono molto rigidi, si vede che la nipotina sta gestendo la situazione con molto nervoso.
Da quel giorno in poi, dei sintomi strani appaiono all’occhio attento dei genitori. La piccola diventa di giorno in giorno sempre più irrequieta, mangia pochissimo o niente, è sempre stanca e diviene scorbutica nelle risposte, le sue feci sono diarroiche, dimagrisce di giorno in giorno, mentre il suo ventre è globoso e sproporzionato a quel fisico divenuto così esile. È il caso di fare degli accertamenti. Si interviene con delle analisi del sangue. Gli anticorpi anti gliadina (AGA), antiendomisio (EMA), e antitransglutaminasi (tTG) risultano sballati. Si procede in un secondo tempo ad una biopsia gastrointestinale per conoscere la condizione dei villi. La risposta è perentoria : CELIACHIA !

30 ottobre 2012

Dna e medicina predittiva: nutrigenetica e test genetici (1a parte)


a cura della dott.ssa  Celeste Santone Biologa Nutrizionista






La nutrigenetica è una scienza giovane, con questo termine si mette in relazione il singolo individuo e le sue caratteristiche genetiche nei confronti dell’alimentazione.
In poche parole la nutrigenetica studia le differenze genetiche (polimorfismi) tra individui, o popolazioni, che causano risposte diverse all'assunzione di nutrienti presenti nel cibo.
Così come il nostro viso è unico al mondo, anche il nostro metabolismo, nel senso più ampio del termine, presenta differenze rispetto ad un cinese o, in misura minore, rispetto al vicino di casa. I motivi per cui un piano alimentare ben fatto non va bene per tutti è, in parte, dovuto alle differenze genetiche interindividuali. Alcune di queste differenze possono spiegare la diversa suscettibilità a sviluppare determinate patologie, come diabete di tipo II, obesità, malattie cardiovascolari.


Vi sono alcuni test genetici relativi all’alimentazione scientificamente validati, ad oggi, il più “famoso” è quello relativo alla predisposizione nei confronti della malattia celiaca, si tratta di un test che non fa diagnosi di celiachia, ma può essere d’aiuto, ad esempio, nello studio di familiari affetti, quando non e’ possibile effettuare una biopsia intestinale oppure nei casi in cui i test sierologici sono dubbi (anticorpi anti-transglutaminasi, anticorpi anti-gliadina, anticorpi anti-endomisio).
La celiachia è una intolleranza permanente nei confronti di una proteina: il glutine che si manifesta in soggetti geneticamente predisposti. Questa è riconosciuta come malattia sociale ed è oggetto di un accordo tra stato e regioni che regola la diagnosi e il follow-up dei pazienti celiaci. Il glutine è presente in frumento, farro, kamut, orzo, segale. I sintomi della forma classica sono a carico del tratto gastrointestinale e sono: diarrea cronica, vomito, inappetenza a cui seguono segni da malassorbimento intestinale quali anemia, alterazioni della coagulazione, edemi, deficit di vitamine e oligominerali. Altri segni clinici vanno dalla dermatite erpetiforme, all'infertilità e aborti ricorrenti, alopecia, stomatiti, ecc. L’incidenza di questa intolleranza in Italia è stimata in un soggetto ogni 100 persone.

I celiaci potenzialmente sarebbero quindi 600.000, ma ne sono stati diagnosticati ad oggi poco più di 100.000.
L’unica “cura” nei confronti della celiachia, attualmente, è la dieta: ovvero l’esclusione dal regime alimentare di alcuni degli alimenti più comuni quali: pane, pasta, biscotti e pizza, e le più piccole tracce di glutine. Questo implica un forte impegno di educazione alimentare, in quanto l’assunzione di glutine, anche in piccole quantità, può provocare diverse conseguenze più o meno gravi. La dieta senza glutine, condotta con rigore, è l’unica terapia attualmente che garantisce al celiaco un perfetto stato di salute. Il test genetico nei confronti della celiachia è di secondo livello e viene effettuato nei casi in cui si vuole indagare una predisposizione della celiachia oppure escludere falsi positivi.


Altri tipi di test genetici effettuati di routine sono quello nei confronti dell’intolleranza al lattosio, predisposizione all’obesità, metabolismo della vitamina D e acido folico.
Il lattosio è lo zucchero presente nel latte, questo viene scisso nei suoi componenti, glucosio e galattosio, da un enzima: la lattasi. Nell’intolleranza al lattoso, l’enzima non viene sintetizzato a causa di una modificazione genetica oppure funziona poco anche se, in realtà gli individui “mutati” sono quelli che possiedono il gene per la digestione del lattosio. Per la diagnosi di intolleranza al lattosio viene eseguito anche un altro tipo di test, Breath test (test del respiro), che consiste nella misurazione dell’incapacità a digerire il lattosio. Questo test ha una sensibilità ed una specificità del 95%, generalmente viene eseguito al mattino, dopo un digiuno di almeno 8 ore, il paziente deve soffiare in un palloncino e subito dopo deve bere 20 g. di lattosio sciolti in un bicchiere d'acqua, da questo momento, ogni 30 minuti il paziente deve soffiare nel palloncino per altre 6 volte: il test dura in tutto 3 ore. Il test genetico al lattosio può aiutarci a prevenire i sintomi dell’intolleranza al lattosio.


Celeste Santone Biologa Nutrizionista

30 settembre 2016

Prebiotici ad alta specificità per lattobacilli e bifidobatteri

da DOTT. F.DI PIERRO il 28 FEBBRAIO 2013



L’intestino di un soggetto adulto ospita circa 500 specie unicellulari. Queste, quasi tutte batteriche, vengono identificate come ‘flora’ o ‘microflora’ intestinale con funzioni fondamentali e vitali per il benessere e la sopravvivenza stessa dell’individuo.
L’intestino umano, sterile alla nascita, viene rapidamente colonizzato da microrganismi (piogeni, patogeni, funghi e altri più rari organismi unicellulari) fino ad ammontare, in un individuo adulto, a circa 1014 cellule vive.
Lo sviluppo della flora intestinale segue uno schema ben noto: all’inizio l’intestino è sterile nell’utero materno, e subisce la prima contaminazione per via orale a partire dalla flora vaginale materna. Tra il 20° giorno dalla nascita, e fino al 4°-6° mese di vita, si sviluppa una flora primariamente costituita da bifidobatteri. Con lo svezzamento si assiste ad una lenta transizione che condurrà infine il giovane intestino ad una composizione  sovrapponibile a quella  tipica di un soggetto adulto.
Una volta stabilizzata nell’intestino adulto, la flora risulterà essere piuttosto segmento-specifica lungo l’asse gastrointestinale: lo stomaco, con meno di 104 microrganismi totali/ml, conterrà essenzialmente i generi candida, helicobacter, lattobacillus e streptococcus; il duodeno e il digiuno (circa 104 /10 5 cellule totali/ml) conterranno bacteroides, candida, lattobacillus e streptococcus; l’ileo (circa 107 /108 cellule totali/ml) conterrà bacteroides, clostridium, enterococcus, lattobacillus e veillonella; il colon (circa 1010/1011 cellule totali/ml) conterrà bacteroides, bacillus, bifidobacterium, clostridium, enterococcus, eubacterium, fusobacterium, peptostreptococcus, ruminococcus, streptococcus.
Un’analisi numerica, non segmento-specifica, consente invece di evidenziare le popolazioni in relazione alla loro presenza quantitativa totale. In base a quest’analisi riconosciamo: 1010 bacteroidi
(organismi patogeni solo nei tessuti al di fuori dell’ambito intestinale); 109 bifidobatteri; 109 eubacteriaceae (tra cui coliformi e clostridi non necessariamente patogeni); 109 streptococchi e 108 batteri lattici. Nel loro insieme compongono la microflora.
Per quanto concerne il trattamento prebiotico, è potenzialmente possibile costituire uno strumento preventivo-terapeutico per le disbiosi in genere, tenendo in attenta considerazione i rapporti quantitativi tra bifidobatteri e batteri lattici che, nel loro insieme, sono il reale bersaglio del trattamento prebiotico (Composizione prebiotica ad alta specificità per lattobacilli e bifido batteri in prevenzione e trattamento delle alterazioni della flora intestinale, F. Di Pierro, A. Callegari, M. Speroni, R. Prazzoli, G. Rapacioli, L’ Integratore Nutrizionale 2009, 12 ).
Largamente riconosciuti dalla comunità scientifica come in grado di influenzare positivamente il benessere intestinale inteso come capacità immunologica, digestiva, di transito, anti-stipsi, anti-diarroica e di assorbimento dei nutrienti, bifidi e lattobacilli possono essere infatti ‘alimentati’ ricorrendo all’uso di fibre prebiotiche, costituendo queste un vero e proprio substrato nutritizio solo per queste due specie batteriche.
Secondo la definizione del Ministero della Salute ‘le fibre prebiotiche sono sostanze non digeribili di origine alimentare che, quando assunte in quantità adeguata, favoriscono selettivamente la crescita e l’attività di uno o più batteri già presenti nel tratto intestinale o che vengono assunti insieme al prebiotico’.
Fibre prebiotiche scientificamente documentate, e quindi impiegabili in sicurezza, per uso umano sono: l’inulina, i galatto-oligosaccaridi  (GOS), i frutto-oligosaccaridi (FOS), il lattosaccarosio, le pirodestrine, i soia-oligosaccaridi, i trans-galatto-oligosaccaridi, gli isomalto-oligosaccaridi, il lattilolo, il lattulosio, gli xilo-oligosaccaridi e il polidestrosio.
  • Fibre bifido-specifiche.
L’inulina è una miscela di oligosaccaridi caratterizzata dalla presenza di fruttosio polimerico a 10-12 subunità (legame beta-2-1-glucosidico); è presente in natura e rintracciabile, ad esempio, nella radice di Cichorium intybus (la comune cicoria) e in altre specie vegetali. L’inulina è una fibra bifido-specifica.
GOS sono invece oligomeri del galattosio (epimero del glucosio), ma anch’essi mostrano elevata ceppo-specificità verso i bifidobatteri.
FOS sono polimeri a corta catena, contenenti alternanza di D-fruttosio e D-glucosio (3-5 subunità). Anche i FOS sono fibre bifido-specifiche.
  • Fibre lattobacillo-specifiche.
Gli isomalto-oligosaccaridi (IMO) sono polimeri dell’isomalto, a sua volta disaccaride costituito da glucosio e mannitolo, fermentabili anche, e principalmente, dai batteri lattici.
Il lattilolo e il lattulosio sono fibre disaccaridiche analoghe (D-lattosio e D-fruttosio) ottenute per via semi-sintetica e normalmente impiegate nel trattamento della costipazione e dell’encefalopatia epatica. Sono anch’esse fermentabili anche dai lattobacilli ad acidi organici a corta catena (lattato, acetato, butirrato e propinato).
Infine il polidestrosio, polimero del destrosio, che è invece particolarmente fermentabile dai batteri lattici.
Già da questa elencazione è possibile notare un certo grado di specificità, per genere, in favore delle fibre con caratteristiche di bifidogenicità, almeno in termini numerici. La conoscenza di questa caratteristica però non è sufficiente per elaborare, sotto il profilo teorico, un optimum nutrizionale prebiotico.
Altre caratteristiche devono infatti essere considerate: il rapporto numerico tra le popolazioni, la loro locazione specifica (soprattutto a livello di colon ascendente, trasverso e discendente) e il grado di fermentabilità di una determinata fibra nei diversi acidi organici a corta catena.
  • Correlazioni numeriche necessarie alla corretta formulazione della miscela prebiotica.
Come già detto, in un intestino sano i due ceppi, bifidobacterium e lattobacillus, coesistono in rapporto 10:1: di conseguenza i componenti prebiotici bifidogenici e lattogenici dovranno essere opportunamente miscelati in rapporto 10:1 così da riprodurre le naturali proporzioni intestinali.
Tra i bifidogenici, particolare attenzione deve essere rivolta soprattutto ai rapporti tra inulina, GOS e FOS; nell’insieme tali fibre risultano essere la scelta d’elezione, se non altro per mole di documentazione disponibile in ambito clinico.
Degno di nota e rilievo, GOS e FOS sono naturalmente presenti, in rapporto 9:1, nel latte materno. Questo rapporto deve essere ritenuto  fondamentale, e quindi mantenuto invariato, se si considera il latte materno come il primo elemento dietetico naturale formante la microflora intestinale bilanciata del neonato.
In considerazione del fatto che GOS e FOS hanno tempi di fermentabilità più brevi, e quindi teoricamente vengono scisse nella prima porzione del colon, rispetto all’inulina, a sua volta fermentata specialmente nel tratto finale di quest’ultimo, la miscela GOS/FOS dovrà risultare in rapporto 1:1 con l’inulina.
Essendo inoltre bifidobatteri e lattobacilli bilanciati, in un intestino sano, in rapporto 10:1, la quota di fibra bifidogenica dovrà essere in rapporto 10:1 con quella lattogenica.
Nel formulare quest’ultima, la miscela con caratteristiche di lattogenicità, bisognerà poi valutare la necessità di avere fibre capaci di determinare da parte loro una equa e proporzionata produzione di acidi organici a corta catena, avendo questi (butirrato, propionato, acetato e lattato) un ruolo trofico per l’epitelio intestinale e anti-patogenico differente. In questo senso la miscela di fibre funzionalmente più attiva è costituita dalla miscelazione, in rapporto 2:1:1, di isomaltooligosaccaride:lattulosio:polidestrosio.
  • Composizione e sicurezza della miscela prebiotica.
Sulla base di quanto fin qui descritto, e con l’obiettivo di ottenere un formulato ad azione prebiotica specifica, è stata sviluppata una miscela costituita da: inulina, GOS, FOS, isomalto-oligosaccaride, lattulosio e polidestrosio.
Su tale formulato, oggetto di brevetto, è stato condotto uno studio di  tossicità orale acuta (dose  fissa) somministrando una dose di 2000 mg/kg/per os ad un gruppo di 5 ratti femmina (SD) mediante sondino gastrico. Secondo i risultati di tale studio la miscela prebiotica risulta priva di tossicità.
Il preparato prebiotico in oggetto è stato sottoposto ad indagine clinica pilota ambulatoriale su 10 pazienti con diagnosi di sindrome del colon irritabile (IBS) già trattata con un preparato a base di olio essenziale di menta microincapsulato e risolta, almeno in termini di manifestazione dolorosa, ma nei quali sussisteva ancora un’evidente produzione di gas intestinale con discomfort e possibile  evidenza di alvo alterno, diarrea e stipsi in linea con un quadro di disbiosi e alterazione della flora.
Questi soggetti (8 femmine e 2 maschi) di età compresa tra i 18 e i 55 anni, in assenza di ulteriore diversa terapia, sono stati trattati con una bustina di prodotto al giorno, al mattino a stomaco vuoto, per 14 giorni.
Ad inizio e fin  trattamento, mediante scala analogico visiva di Scott-Huskisson (score tra 0 e 10), è stata eseguita una valutazione sintomatologica. Da tale valutazione si evince come il prodotto, dopo 14 giorni di terapia riduca sensibilmente la produzione di gas intestinali ed il discomfort conseguente, contrastando efficacemente anche i quadri di alvo alterno e diarrea e, parzialmente, quelli di stipsi che residua evidente in un paziente su due.
Il prodotto inoltre è risultato ben tollerato e, tranne un episodio di cefalea, non sono stati registrati segni avversi sicuramente imputabili al trattamento e, di conseguenza, nessun caso di abbandono è stato registrato.
  • Conclusioni.
Le alterazioni della flora intestinale, secondarie ad IBS, antibiotico-terapia, sbilanciamenti dietetici, stress, colite, diarrea ad eziologia varia, etc, vengono oggi trattate principalmente con farmaci (principalmente OTC) e/o integratori alimentari contenenti ingredienti probiotici e/o prebiotici.
Nonostante i probiotici abbiano nella scarsa vitalità dei ceppi impiegati nel formulato finito, sempre più spesso rivendicato come ‘stabile’ anche a temperatura ambiente, il loro grande limite, i prebiotici vengono, nella maggior parte dei casi, considerati complementi di formula che consentono semplicemente al prodotto probiotico di essere rivendicato come simbiotico grazie alla loro presenza.
Al contrario, oltre ad essere un valido principio attivo, le fibre prebiotiche hanno il grande vantaggio di essere facilmente stabilizzate all’interno del formulato finito.
Per esse, inoltre, non deve essere verificata la vitalità dopo il superamento della barriera gastrica  e di quella biliare e, soprattutto, non devono essere eseguiti test per verificarne la capacità colonizzante. Anche lo svantaggio, non certo loro esclusivo, di provocare gonfiore, meteorismo e flatulenza può essere poi modulato razionalizzando i dosaggi e le posologie giornaliere.
Nonostante ciò, l’attivo a funzione prebiotico non viene considerato con l’attenzione che, quindi, meriterebbe.
Con una evidente inversione di tendenza, il nostro gruppo di ricerca (Velleja Research) ha sviluppato un preparato a base di fibre prebiotiche partendo dalla considerazione che queste sono nutrizionalmente valide esclusivamente per ceppi di bifidobatteri e lattobacilli che, a loro volta, colonizzano l’intestino sano secondo un determinato rapporto.
La miscela prebiotica formulata è frutto di tutte queste considerazioni e, per questo, è da considerarsi il primo esempio nutrizionale di miscela di fibre prebiotiche sviluppata per un’azione specifica sulla microflora intestinale residente.

20 settembre 2021

Effetti della dieta iperproteica su peso corporeo e microbioma intestinale a cura della dott.ssa Silvia Radrezza










L’interazione tra dieta e microbiota intestinale ha un ruolo critico nella regolazione del metabolismo energetico. Se gli effetti delle fibre sono ampiamente studiati, quelli delle proteine sono poco conosciuti.

Cosa aggiunge questa ricerca
In questo studio è stato approfondito l’effetto sul microbiota intestinale di un supplemento ad alto contenuto proteico vs regime normoproteico in 107 soggetti sottoposti a dieta a restrizione calorica.

Conclusioni
Il supplemento proteico ha indotto la perdita di grasso viscerale e, di contro, l’attivazione del metabolismo degli amminoacidi mediato dal microbiota.

Durante un percorso di dimagrimento, contrariamente a quanto si possa pensare, un supplemento di proteine potrebbe avere effetti positivi nella riduzione del grasso viscerale con, di contro, l’attivazione del metabolismo degli amminoacidi mediato dal microbiota intestinale

È quanto concludono Pierre Bel Lassen e colleghi della Sorbonne University (Parigi) in uno studio di recente pubblicato su Scientific Reports.

Microbiota e calorie assorbite

È cosa ormai nota come l’obesità rappresenti, soprattutto per il mondo occidentale, una delle problematiche di salute pubblica più diffuse e preoccupanti non solo per la patologia in sé, ma anche per le potenziali conseguenze quali diabete di tipo 2, disturbi cardiovascolari ecc. 

Sono quindi molte le strategie di intervento, dalla correzione dello stile di vita alla via chirurgica, per contrastarla. Una corretta alimentazione attività fisica rimangono però le armi vincenti. 

Ad avere un ruolo importante nel prevenire e/o correggere l’aumento di peso anche il microbiota intestinale agendo sul metabolismo di molti dei nutrienti che mangiamo. 

Si è visto però come non sia solo questione di quantità di cibo e calorie, ma anche di qualità e di come, indipendentemente dalla dieta, la popolazione batterica sia in grado di influenzare la massa adiposa viscerale. In termini di macronutrienti, mentre l’impatto delle fibre è stato approfondito esaustivamente, meno si conosce (e talvolta in maniera contradittoria) di quello delle proteine. 

Risultati dello studio

A tal proposito, i ricercatori hanno qui voluto capirne meglio le dinamiche sia a livello tassonomico sia funzionale in 107 soggetti obesi sottoposti a regime ipocalorico per tre mesi finalizzato alla perdita del peso. Un regime normoproteico (proteine da fonte vegetale; n=46) è stato quindi confrontato con uno ad alto contenuto di proteine (n=48) derivate dal latte valutandone sia l’eventuale riduzione di grasso viscerale sia la riorganizzazione batterica fonte dipendente. 

Di seguito i passaggi e i risultati principali.

Dall’analisi della composizione corporea e di rischio cardiometabolico dopo l’eventuale supplemento proteico si è visto come:

  • rispetto al gruppo normoproteico (CP), quello con un maggiore contenuto di proteine (IP) ha mostrato una diminuzione di grasso viscerale medio rispetto al baseline (-8% vs -9,7%). La significatività è stata raggiunta tuttavia da solo quei pazienti strettamente aderenti al piano di intervento (Per Protocol o PP)
  • la massa magra non ha mostrato alterazioni nel gruppo IP, diminuita invece nella controparte CP
  • la pressione sistolica e diastolica, il BMI, la circonferenza addominale, il glucosio a digiuno, il colesterolo totale, LDL e i livelli trigliceridi hanno mostrato un marcato decremento rispetto al baseline in maniera analoga nei due gruppi
  • diminuzione marcato nel gruppo IP invece di marcatori infiammatori quali proteina-C reattiva e TNF alfa 
  • di contro, livelli di emoglobina glicata (HbA1c) è risultata minore nel gruppo CP

Per un sottogruppo (n=53) è stato quindi analizzato il microbioma fecale dal punto compositivo e funzionale dimostrando come:

  • la perdita di massa viscerale è associata a un aumento della ricchezza batterica
  • indipendentemente dal gruppo (IP o CP), soggetti con una bassa conta genetica di base hanno mostrato un maggiore incremento di diversità
  • il supplemento proteico ha impattato solo parzialmente sulla diversità (alpha-diversity) e composizione batterica
  • influenza trascurabile anche dalla fonte di proteine (animale o vegetale) in termini di alpha- e beta-diversity
  • al termine dello studio, 8 pazienti (15%) hanno cambiato il loro enterotipo seppur in maniera distribuita tra i due gruppi
  • alcune modulazioni tassonomiche sono invece state registrate più o meno gruppo specifiche. Tra queste, Akkermansia spp. ha mostrato di aumentare con la restrizione calorica in entrambi i gruppi, diminuiti invece i bifidobatteri; seppur in maniera non statisticamente significativa, Christensenella spp. e Lactobacillus sp. sono aumentati nel gruppo IP, Turicibacter spp. nella controparte
  • il supplemento proteico ha stimolato il metabolismo degli aminoacidi. Dei 12 pathways (o moduli KEGG) alterati, la maggior parte è infatti riconducibile alla catena di sintesi e degradazione amminoacidici (ciclo dell’urea, biosintesi di biotina ecc.) in maniera direttamente correlata alla percentuale di proteine assunte. La sintesi di cisteina, treonina, isoleucina ecc. è comunque risultata superiore alla quota degradata (nel gruppo IP)

Effetti sul metabolismo proteico

Da ultimo, per confermare i cambiamenti metagenomici osservati nel gruppo IP, i ricercatori hanno valutato in maniera più mirata gli effetti di una frazione di proteine estratta sul microbiota intestinale di entrambi i gruppi in vitro applicando un approccio di fermentazione. 

L’esposizione alle proteine ha indotto in entrambi i casi un aumento del metabolismo aminoacidico con un effetto moderatamente gruppo-specifico. La differenza osservata nei pazienti potrebbe quindi essere in parte dovuta alla ridotta digeribilità delle proteine nel gruppo IP. Maggiori, inoltre, gli effetti in fase di degradazione rispetto alla sintesi.

Conclusioni

Per riassumere dunque, una dieta ipocalorica e ricca in proteine sembrerebbe aiutare nel ridurre la massa grassa viscerale senza intaccare quella magra

La diversità metagenomica e le alterazioni funzionali in favore al metabolismo degli aminoacidi sono risultati indici di responsività alla dieta. Minori invece i cambiamenti in termini di composizione batterica. Ulteriori approfondimenti sono tuttavia necessari.

Silvia Radrezza

Laureata in Farmacia presso l'Univ. degli Studi di Ferrara, consegue un Master di 1° livello in Ricerca Clinica all' Univ. degli Studi di Milano. Borsista all'Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS dal 2017 al 2018, è ora dottoranda in Scienze Farmaceutiche presso l'Univ. degli Studi di Milano.