Il consumo di alimenti contenenti alcuni zuccheri, ma non di tutti, si associa alla presenza di disturbi depressivi, almeno secondo le conclusioni di uno studio pubblicato sull'American journal of clinical nutrition da James Gangwisch, professore associato di psichiatria alla Columbia university, che assieme ai colleghi ha voluto chiarire se gli alimenti con indice glicemico (Gi) più alto fossero associati a una maggiore frequenza di sintomi depressivi. «Quand'ero bambino mangiavo molte caramelle, e dopo averne mangiate tante mi sentivo giù di corda» esordisce il ricercatore che pur non toccando caramelle da anni è rimasto con la curiosità di sapere se una dieta a base di cibo spazzatura possa contribuire a rendere depresso chi la consuma. Così i ricercatori hanno esaminato i dati di circa 70.000 partecipanti al trial Women's health initiative, nessuna delle quali depressa all'inizio dello studio, scoprendo che i regimi alimentari ad alto indice glicemico, compresi quelli ricchi di cereali raffinati e zuccheri aggiunti, si associano effettivamente a maggiori probabilità di sviluppare depressione nel corso degli anni. «Ma alcuni ingredienti hanno invece effetti protettivi contro i sintomi depressivi, tra cui le fibre, i cereali integrali, i frutti interi, la verdura e il lattosio, lo zucchero a basso indice glicemico contenuto nel latte e nei prodotti lattiero-caseari» riprende l'autore, sottolineando che questo protocollo di studio rende impossibile individuare un rapporto causale tra dieta e depressione. «Ciononostante, il consumo eccessivo di zuccheri e amidi raffinati è un fattore di rischio per l'infiammazione e le malattie cardiovascolari, malattie entrambe collegate allo sviluppo di depressione» ipotizzano i ricercatori, aggiungendo che questo tipo di dieta potrebbe anche portare a un'insulino-resistenza periferica, anch'essa legata alla comparsa di deficit cognitivi simili a quelli trovati nei pazienti con depressione maggiore. «Sono necessari ulteriori studi per approfondire l'argomento e in particolare l'eventuale nesso causa effetto alla base dell'associazione tra zuccheri aggiunti e depressione emersa da questi risultati» conclude Gangwisch.
Mi occupo di Nutrizione per patologie accertate, Lipedema, Policistosi Ovarica, Intolleranze Alimentari, Disbiosi, Dieta Chetogenica su misura. Ricevo a Messina e Catania. In queste pagine offro consigli nutrizionali, ricette per tutti coloro che si interessano di Dieta, Nutrizione e Salute. Sono disponibile a consulenze online. Questo blog è collegato alla pagina Facebook Camice&Mestoli ed Instagram Bionutrizionistacacciola
07 luglio 2015
02 luglio 2015
LA STEATOSI EPATICA NON ALCOLICA SI ASSOCIA AL CONSUMO DI BEVANDE ZUCCHERATE
Il consumo regolare di bevande zuccherate si associa a una
maggiore prevalenza di steatosi epatica, secondo un ampio studio osservazionale
appena pubblicato sul Journal of Hepatology e coordinato da Jiantao Ma
dell'Human Nutrition Research Center on Aging alla Tufts University di Boston,
Massachusetts. In particolare, analizzando i dati dei discendenti della coorte
originaria del Framingham Heart Study, emerge che gli adulti che bevono
abitualmente drink zuccherati hanno maggiori probabilità di sviluppare steatosi
epatica non alcolica rispetto ai non consumatori. Per giungere a questi
risultati i ricercatori hanno studiato 2.634 adulti di mezza età suddividendoli
in consumatori o non consumatori di bevande zuccherate. Tra i primi, la cola
con caffeina è risultata la bevanda preferita, bevuta nel 40% dei casi, seguita
dalle bevande non gassate alla frutta, 29%, da quelle gassate senza cola, 21%,
e dalla cola senza caffeina nel 10%.
J
Hepatology 2015. doi: 10.1016/j.jhep.2015.03.032
08 giugno 2015
06 giugno 2015
Pasta di fagioli: buona e leggera
Esiste una pasta senza glutine
che non scuoce e non fa ingrassare. Stiamo parlando di un nuovo prodotto alimentare proveniente dai laboratori dell´Università Cattolica di Piacenza. Questa ricetta è a base di farina di fagiolo dal basso indice glicemico. Perfetta per i celiaci e per chi teme l’aumento di peso e l´incidenza di malattie metaboliche causati dal consumo di alimenti "gluten free".
"I risultati ottenuti sono molto promettenti" ha dichiarato Francesco Masoero, direttore dell´Istituto di Scienze degli alimenti e della nutrizione, che ha aggiunto: "i dati mostrano come l´inclusione di farina di fagiolo possa ridurre notevolmente l´indice glicemico della pasta, senza però modificare le principali caratteristiche tecnologiche del prodotto".
"I risultati ottenuti sono molto promettenti" ha dichiarato Francesco Masoero, direttore dell´Istituto di Scienze degli alimenti e della nutrizione, che ha aggiunto: "i dati mostrano come l´inclusione di farina di fagiolo possa ridurre notevolmente l´indice glicemico della pasta, senza però modificare le principali caratteristiche tecnologiche del prodotto".
Per ricreare questa farina di fagioli, i ricercatori hanno utilizzato tra gli ingredienti una farina ricavata da diverse varietà di fagiolo, ottenendo in via sperimentale una pasta che resiste di più alla cottura e dal gusto e dal profumo eccellenti. Ecco quanto dichiarato da Gianluca Giuberti, coordinatore del progetto di ricerca: "Sarà quello di valutare definitivamente l´efficacia dimagrante di questi prodotti su persone affette da celiachia".
27 maggio 2015
Neuropatie: e se fosse colpa della celiachia?
L’ipotesi arriva da uno studio condotto su quasi trentamila
svedesi. Le malattie avrebbero alcuni meccanismi immunologici comuni, primi sintomi, nella maggior parte dei casi,
restano confinati all’intestino e comprendono il gonfiore addominale e la
dissenteria. Ma le conseguenze a lungo termine della celiachia, una malattia
autoimmune che si manifesta in persone predisposte dopo l’ingestione di
glutine, possono estendersi oltre l’apparato digerente e giungere al sistema
nervoso periferico. A suffragare l’ipotesi è uno studio pubblicato su Jama
Neurology.
Celiachia e
fegato: quale relazione?
LA RICERCA - I ricercatori (Università di Orebro, Columbia
University e Karolinska Institutet) lo hanno realizzato raccogliendo da 28
reparti di patologia generale della Svezia, tra il 2006 e il 2008, i dati
relativi alle biopsie intestinali dei celiaci. Oltre ventottomila i pazienti
arruolati, le cui condizioni neurologiche sono state messe a confronto con
quelle di 139mila individui inseriti nel gruppo di controllo. Dall’indagine è
emerso che 198 celiaci avevano sviluppato nel tempo una neuropatia periferica
(lo 0,7%): una percentuale più bassa rispetto a quella riscontrata tra le
persone sane (0,3%). Il rischio assoluto che un celiaco sviluppasse deficit
sensitivi, motori o vegetativi corrispondeva a 64 individui su centomila,
rispetto ai 15 (sempre su centomila) soggetti sani potenzialmente esposti alla
malattia nell’arco di un anno. La probabilità era dunque più alta di 2,5 volte
tra i celiaci. Tre le forme di neuropatia più spesso riscontrate tra i celiaci:
la forma demielinizzante infiammatoria cronica, la neuropatia autonomica e la
mononeurite multipla.
Celiachia, l’unica
“terapia” è la dieta senza glutine
DALL’INTESTINO AL…SISTEMA NERVOSO - La ricerca ha aggiunto
un tassello al puzzle della malattia, di cui in Italia soffrono almeno 164mila
persone, stando ai dati inseriti nella relazione annuale sulla celiachia
presentata al Parlamento. Non è però la prima volta che il disturbo viene
riscontrato più di frequente in chi soffre di una neuropatia periferica.
L’evidenza era già stata documentata nel 2012, in uno studio pubblicato sul Journal
of Clinical Neuromuscular Disease. «In effetti diverse ricerche condotte su
cadaveri hanno rilevato la presenza di infiltrato linfocitario in pazienti
celiaci che avevano una neuropatia cronica o un’atassia cerebellare - afferma
Angelo Quattrini, responsabile dell’unità di neuropatologia sperimentale
dell’ospedale San Raffaele di Milano -. Alla base della celiachia e di alcuni
disturbi del sistema nervoso potrebbe esserci un’origine autoimmune comune».
L’associazione sarebbe bidirezionale. In un’analisi separata, infatti, i
ricercatori hanno notato che i pazienti con neuropatia hanno un rischio più
alto di andare incontro alla celiachia. Un’evidenza che, secondo Jonas
Ludvigsson, docente di epidemiologia clinica al Karolinska Institutet di Solna,
«dovrebbe tornare utile ai neurologi, quando si trovano di fronte a un paziente
con una neuropatia senza un’origine - infettiva, infiammatoria o metabolica: la
neuropatia rimane una delle più gravi complicanze del diabete - definita. In
questi casi occorrerebbe procedere allo screening per la celiachia: chi
risultasse positivo, potrebbe veder migliorare la propria condizione seguendo
una dieta senza glutine».
La sensibilità al
glutine non è la celiachia: di cosa si tratta?
LE ALTRE “FACCE” DELLA CELIACHIA - Se ne parla ancora troppo
di rado, ma lo spettro delle manifestazioni cliniche della celiachia è
eterogeneo. La malattia, che si manifesta dopo l’ingestione di glutine, risulta
collegata a un aumento delle diagnosi di altre condizioni autoimmuni: come il
diabete di tipo I, la tiroidite di Hashimoto, il lupus eritematoso sistemico,
la psoriasi e le forme di epatite autoimmune. Tra i celiaci risultano più
frequenti anche le fratture e le diagnosi di osteoporosi, oltre ai disturbi
legati alla sfera riproduttiva della donna.
Fabio Di Todaro
@fabioditodaro
16 maggio 2015
La nutrizione come potenziale strumento terapeutico nella fibromialgia
Rossi A, Di Lollo AC, Guzzo MP, Giacomelli C, Atzeni F, Bazzichi L, Di Franco M. Fibromyalgia and nutrition: what news? Clin Exp Rheumatol. 2015 Mar-Apr;33 Suppl 88(1):117-125.
Silvia Ambrogio
13 maggio 2015
Rischio di diabete di tipo 2 da ripetuti cicli di antibiotici per alterazioni del microbiota intestinale
L'esposizione ripetuta ad alcuni gruppi di antibiotici può aumentare il rischio di sviluppare diabete di tipo 2.
Lo riporta un ampio studio da poco apparso sullo "European Journal of Endocrinology".
L'idea di fondo è che gli antibiotici, di cui nei Paesi occidentali si fa largo impiego, possono alterare la flora batterica intestinale (oggi più frequentemente definita come "microbiota") che, sia in modelli animali sia nell'uomo, influenza vie metaboliche importanti nella patogenesi di obesità, insulino-resistenza e diabete. In base a queste premesse, gli autori della ricerca hanno voluto verificare se il fatto di essere stati esposti in passato ad antibiotici potesse determinare un rischio maggiore di sviluppo di diabete.
Utilizzando un ampio database relativo alla popolazione del Regno Unito, sono stati identificati i pazienti con diagnosi di diabete e, per ogni caso, quattro controlli di pari età e genere, trattati nello stesso centro e con un follow-up di durata sovrapponibile.
In totale lo studio ha riguardato oltre un milione di persone: 208.002 soggetti diabetici e 815.576 controlli. Le analisi effettuate dagli studiosi hanno rivelato che l'esposizione a un solo ciclo di antibiotici non risulta associata a un aumento del rischio di diabete, mentre coloro ai quali erano stati prescritti da due a cinque cicli di antibiotici - quattro tipi, in particolare: penicilline, cefalosporine, chinolonici e macrolidi - mostravano una maggiore probabilità di sviluppare diabete di tipo 2, con un rischio proporzionale al numero di antibiotici prescritti.
Nel calcolo del rischio, gli autori hanno aggiustato i dati tenendo conto degli altri fattori di rischio per diabete, come obesità, fumo, presenza di coronaropatia e infezioni. È stato così determinato che 2-5 cicli di penicillina sarebbero associati a un aumento del rischio di diabete dell'8% (odds ratio, Or, aggiustato: 1,08; 95% CI: 1,05-1,11), mentre in caso di oltre 5 cicli il rischio risulterebbe aumentato del 23%. Per quanto concerne i chinolonici, con 2-5 cicli l'aumento del rischio di diabete sarebbe del 15% (Or: 1,15; 95% CI: 1,08-1,23) e, con oltre 5, si salirebbe al 37%. Non è stata trovata, invece, alcuna associazione tra il rischio di sviluppare diabete ed esposizione ad antivirali e antifungini.
In conclusione, anche se lo studio non dimostra una relazione causa-effetto, la modificazione numerica e qualitativa del microbiota intestinale determinata da agenti antimicrobici potrebbe spiegare il rapporto osservato tra utilizzo di antibiotici e rischio di diabete, inducendo a tenere in maggiore considerazione tale legame.
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