13 marzo 2015

"Gluten sensitivity non celiaca": una delle cause più frequenti dell'IBS


Fino a pochi anni fa la sindrome del colon irritabile (IBS) era spesso considerata una malattia a sfondo funzionale, dovuta a particolari caratteristiche emotive. Poi i lavori del 2008 diShulman (1) hanno evidenziato nella sindrome la partecipazione di fatti infiammatori del colon in modo più evidente e documentato di quanto lo fossero gli aspetti di disagio emotivo.
L'infiammazione colica dovuta al glutine è oggi confermata come una delle più frequenti cause di questa condizione che, almeno in Europa, è riferita come problema dominante nel 12% delle visite con il medico di base e nel 28% dei consulti con lo specialista gastroenterologo. L'IBS trova quindi spiegazioni di tipo immunologico e infiammatorio sempre più consistenti, legate all'infiammazione dovuta al cibo. Per anni, di sensibilità al glutine non celiaca si è semplicemente evitato di parlare, nonostante i continui richiami provenienti da chi si occupava di nutrizione applicata. I primi lavori di Sapone(2) e di Biesiekiersky (3), che nel 2011 hanno definito l'esistenza di questo disturbo, hanno ipotizzato che la prevalenza della reattività glutinica potesse aggirarsi intorno al 6-10% delle persone sane, ma le successive acquisizioni hanno proposto percentuali più elevate, tanto che il British Medical Journal (BMJ), nel novembre 2012 (4) indicava una prevalenza anche del 25% tra la popolazione apparentemente sana. Di certo, le ricerche di Carroccio (5) hanno evidenziato una crescita dei valori di anticorpi antigliadina sia di tipo IgA sia di tipo IgG in chi si lamenta di "colon irritabile" e soprattutto ha identificato una risposta alla introduzione del glutine (test in doppio cieco randomizzato, crossover) in circa un terzo dei casi valutati (29,5%).  Secondo il BMJ, le persone che hanno disturbi intestinali ed extraintestinali legati all'assunzione di glutine e che non sono né celiaci (biopsia) né allergici al frumento (IgE), dovrebbero essere messi a dieta sui derivati glutinici, con una diagnosi di "Gluten sensitivity non celiaca" e devono essere avvisati che si tratta di una entità clinica di recente scoperta di cui va ancora perfezionata la completa comprensione. A fronte di chi cerca di difendere il glutine addossando la responsabilità ai fruttani rintracciabili comunque nei prodotti con glutine (6), c'è chi come noi, sulla base delle teorie evoluzionistiche, propone una dieta di rotazione che consente di guarire la condizione clinica favorendo il recupero della tolleranza.
1) Shulman RJ et al, J Pediatr. 2008 Nov;153(5):646-50. Epub 2008 Jun 9
2) Sapone A et al, BMC Med. 2011; 9: 23. Published online 2011 March 9. doi: 10.1186/1741-7015-9-23
3) Biesiekierski JR et al, Am J Gastroenterol. 2011 Mar;106(3):508-14; quiz 515. Epub 2011 Jan 11
4) Aziz I et al, BMJ. 2012 Nov 30;345:e7907. doi: 10.1136/bmj.e7907
5) Carroccio A et al, Am J Gastroenterol. 2012 Dec;107(12):1898-906. doi: 10.1038/ajg.2012.236. Epub 2012 Jul 24
6) Sanders DS et al, Am J Gastroenterol. 2012 Dec;107(12):1908-12. doi: 10.1038/ajg.2012.344
Attilio Speciani

09 marzo 2015

Melograno prebiotico?

 La Buccia del Melograno-Punica granatum L. (PoP) e l'estratto da essa ottenuto (PopX), possono fungere da prebiotici, capaci del miglioramento del microbiota del colon. PopX ha una concentrazione apprezzabile di ellagitannini che sono idrolizzati dalla microflora intestinale in punicalagine e acido ellagico che agiscono come prebiotici. Come prebiotici, gli estratti di melograno inibiscono gli agenti patogeni e favoriscono la crescita del microbiota benefico nell'intestino umano. I Lactobacilli probiotici sono relativamente inalterati dai costituenti chimi ci del melograno. Viceversa, patogeni come S. aureus, Clostridium perfringens, Clostridiumclostridioforme, Clostridium ramosum e Bacteroidesfragilis sono fortemente inibiti da ellagitannini e punicalagine. Pertanto, contrariamente agli agenti patogeni, la crescita dei probiotici è relativamente inalterata o addirittura arricchita dagli ellagitannini del melograno, suggerendo che i prodotti del melograno possono aiutare a regolare i patogeni senza effetti negativi sui batteri benefici. È noto che la microflora intestinale sia un fattore da prendere in considerazione per valutare i fattori di rischio correlati all'obesità: Neyrinck et al. (2013) hanno recentemente dimostrato che PoP, in virtù della sua attività prebiotica, costituisce un alimento/integratore promettente nel controllo dei disturbi infiammatori e aterogeni associati all'obesità indotta dalla dieta. I meccanismi responsabili degli effetti selettivi batteriostatico/battericida sono complessi: per esempio, come per la punicalagine e i polifenoli, il meccanismo di inibizione S. aureus sembra essere correlato alla diminuzione di pH ambientali, mentre per i tannini sono coinvolti altri meccanismi, come l'esaurimento di ioni metallici e l'inibizione dell'attività enzimatica. L'utilizzo di PoP e PopX come un serbatoio di preziosi agenti terapeutici sembra essere un approccio pragmatico nella prevenzione di alcune malattie croniche e aprirebbe nuove strade per la ricerca scientifica nel regno della scienza dell'alimentazione e della nutrizione.
Food Chem. 2015 May 1; 174C: 417-425. doi: 10.1016/j.foodchem.2014.11.035. Epub 2014 Nov 15.

Eugenia Gallo
Dipartimento NEUROFARMBA
Università degli Studi di Firenze

05 marzo 2015

Consumo di latticini e tumori

L’ attenzione primaria, al fine di promuovere la salute pubblica, deve rivolgersi soprattutto verso la prevenzione della patologia: è quindi essenziale considerare le abitudini dell’individuo, ed in particolar modo l’alimentazione, per poter garantire il mantenimento dello stato di salute. In quest’ottica, è importante ricercare i fattori alimentari che possono risultare dannosi per l’equilibrio dell’organismo, arrivando anche a “stravolgere” miti alimentari ormai radicati nella popolazione. In questo caso parliamo proprio di uno dei “capisaldi” dell’alimentazione: la necessità (o meno) dell’assunzione di prodotti lattiero-caseari.
Nella tradizione culinaria e nelle linee guida nutrizionali, latte, formaggi, yogurt, sono considerati un punto saldo per l’apporto di nutrienti fin dall’infanzia; ma tutto questo viene già da tempo messo in discussione, soprattutto considerando gli ulteriori recenti risultati in merito all’incidenza di gravi patologie come i tumori del sistema riproduttivo. Il consumo di latticini è infatti collegato con l’aumento del rischio di cancro alla prostata e al seno. Molto probabilmente la pericolosità del prodotto lattiero caseario deriva dalla presenza del fattore di crescita insulino-simile (IGF-1) nel latte vaccino; una costante assunzione di questi prodotti determina un aumento dei livelli sierici di IGF-1, fattore per il quale è stata dimostrata da studi “caso-controllo” una forte associazione con il rischio (fino a 4 volte maggiore) di sviluppo di cancro alla prostata. Ad ulteriore conferma, il Physicians Health Study, che riporta i risultati di un monitoraggio su 21.660 partecipanti della durata di 28 anni, ha riscontrato un aumento del rischio di cancro prostatico in coloro che assumevano da 5 a più porzioni di prodotti lattiero-caseari al giorno rispetto a chi ne consumava mezza o meno al giorno. Uno studio sull’assunzione di latte a ridotto contenuto in grassi evidenzia che l’incidenza di rischio di cancro alla prostata è elevata anche in questo caso, quindi il legame non è solo con l’eccesso di grassi saturi presenti naturalmente nel prodotto “intero”, ma anche con l’eccessiva quantità di calcio presente nei latticini, tale da dimostrarsi potenziale minaccia per la salute della prostata.
D’altro canto, un ulteriore fattore di rischio correlato all’incidenza dei tumori del sistema riproduttivo (prostata, seno, ovaie), oltre all’IGF-1, è dato dai metaboliti degli estrogeni, in grado di influenzare la proliferazione cellulare provocandone una rapida crescita anche aberrante, portando quindi allo sviluppo e alla crescita del cancro.
Il consumo di latte e latticini contribuisce per il 60-70% all’assunzione di estrogeni nell’alimentazione umana. È stato condotto uno studio epidemiologico (Cancer Epidemiology Study ) su un campione di 1893 donne alle quali era stato diagnosticato il carcinoma mammario invasivo in fase iniziale: dai dati finali si evince che una maggiore assunzione di grassi, associata ad un consumo elevato di latticini, comporta un più alto tasso di mortalità, già con sola mezza porzione al giorno di questi alimenti. Questo risultato è probabilmente legato al fatto che gli estrogeni si accumulano principalmente nel grasso, dando quindi maggior rilevanza negativa agli alimenti ad alto tenore in grassi come i latticini.
È stata inoltre riscontrata un’aumentata incidenza di cancro all’ovaio legata all’assunzione di latticini, probabilmente a causa della “digestione” del lattosio, scisso in glucosio e galattosio: quest’ultimo infatti può essere tossico per le cellule ovariche. Uno studio condotto in Svezia ha rilevato la relazione tra l’assunzione di latticini e cancro ovarico, riportando un aumento del 73% di probabilità di sviluppo del cancro ovarico per le donne che assumevano più di un bicchiere di latte al giorno rispetto a quelle che ne assumevano meno di uno al giorno. In conclusione, la lettura di questi risultati dovrebbe portare ad una riflessione non solo le persone onnivore, ma anche coloro che mantengono una scelta alimentare di tipo latto-ovo-vegetariano: il consiglio è quello di modificare la propria alimentazione spostandosi verso una priva di ingredienti di origine animale.

 Fonte: The Physicians Committee for Responsible Medicine - PCRM, Health Concerns about Dairy Products http://www.pcrm.org/health/ diets/vegdiets/health-concerns-about-dairy-products 

24 febbraio 2015

Nei bambini obesi la dieta vegan riduce il rischio cardiovascolare


Secondo uno studio su The journal of pediatrics, nei bambini obesi un'alimentazione a base vegetale e a basso contenuto di grassi riduce non solo il peso corporeo, ma anche il rischio cardiovascolare e quello di sviluppare ipertensione, migliorando inoltre i livelli di colesterolo e la sensibilità all'insulina. Il trial, svolto alla Cleveland Clinic e coordinato dal pediatra Michael Macknin, ha messo a confronto per quattro settimane una dieta vegetariana e quella consigliata dall'American heart association (Aha) in 28 obesi tra 9 e 18 anni con elevata colesterolemia, servendo la medesima dieta anche a uno dei genitori. «L'alimentazione vegan era a base di vegetali e cereali integrali, con avocado e noci, senza grassi o prodotti animali» spiega il ricercatore, aggiungendo che nel gruppo vegan sono stati osservati miglioramenti significativi in nove misure: indice di massa corporea, pressione arteriosa sistolica, circonferenza a metà braccio, colesterolo totale, lipoproteine a bassa densità (Ldl) e insulinemia, oltre a due marcatori comuni di cardiopatia, mieloperossidasi e proteina C-reattiva ad alta sensibilità. «Viceversa, la dieta Aha consisteva in frutta, verdura, cereali integrali e non, poco sodio, basso contenuto di grassi, oli vegetali selezionati, carne magra e pesce con moderazione» riprende il pediatra, sottolineando che questi bambini hanno manifestato miglioramenti significativi solo in quattro parametri: indice di massa corporea, circonferenza vita, circonferenza a metà braccio e mieloperossidasi. «Dato che il numero di bambini obesi con colesterolo alto continua a crescere, servono efficaci modifiche dello stile di vita per aiutarli a invertire i fattori di rischio per le malattie cardiache» afferma l'autore dell'articolo, osservando che le diete a base vegetale sono utili nella prevenzione delle malattie cardiovascolari negli adulti, ma che nei bambini i dati sono ancora insufficienti. «Le malattie cardiovascolari iniziano nell'infanzia, e se siamo in grado di vedere miglioramenti significativi nell'arco di quattro settimane, possiamo immaginare il potenziale dell'alimentazione vegan a lungo termine in un'intera popolazione» conclude Macknin.
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/25684089 

30 gennaio 2015

Datemi retta, il cibo "smart" allunga la vita Il progetto "SmartFood", del biologo Pier Giuseppe Pelicci, identifica nel cibo i principi attivi che accendono i geni della longevità


Pier Giuseppe Pelicci è molto alto e molto sorridente, soprattutto quando parla di molecole, geni, cellule. Biologo molecolare e drettore del dipartimento di oncologia sperimentale all’Istituto europeo di oncologia (Ieo), ammette che «faccio un mestiere meraviglioso e mi pagano pure». Oltre a indagare sui meccanismi dei tumori e della longevità (è stato lui a identificare, qualche anno fa, il gene «di lunga vita» P66, scoperta che ha fatto il giro del mondo) dirige allo Ieo il programma di ricerca SmartFood, cibo «furbo». Obiettivo, scoprire quali sostanze contenute negli alimenti possono attivare o silenziare i geni che allungano o accorciano la durata della vita. Manipolazione genetica, per così dire, fatta mangiando.
Smartfood: cibo furbo, intelligente. Un nome azzeccato. Ma il cibo «furbo» può davvero farci vivere più lungo?
Noi ne siamo convinti, ed è l’obiettivo delle nostre ricerche. Negli ultimi dieci anni c’è stata una rivoluzione nella comprensione dei meccanismi molecolari alla base dell’invecchiamento. Oggi sappiamo che la durata della vita e l’incidenza delle malattie sono fortemente influenzati da alcuni geni. Su cui il cibo può agire.
Quanti sono questi geni?
Ne abbiamo individuato una manciata, circa 25, ma pensiamo siano un centinaio. Si è visto che attivando o togliendo nei topi determinati geni, gli animali vivono più a lungo o, al contrario, di meno. Perché i geni che incidono sulla durata della vita sono di due tipi, quelli che la allungano o che la accorciano.
Ma a che cosa serve un gene che accorcia la vita?
È la domanda che si sono fatti gli scienziati: per quale motivo abbiamo geni che ci fanno invecchiare? Qualcuno ci vuole del male? Chiaramente non è così.
Hanno magari una funzione protettiva?
E certo che ce l’hanno. I geni dell’invecchiamento sono indispensabili in natura perché garantiscono la giusta quantità di energia, sotto forma di adipe, quando il cibo scarseggia. Regolano il metabolismo in modo da farci accumulare grasso per sopravvivere al freddo e alla carenza di risorse. Due condizioni che oggi, nei paesi occidentali pieni di frigoriferi, supermercati, caloriferi, cappotti, non si verificano più.
E perché favoriscono l’invecchiamento?
Attivati dal segnale dell’abbondanza di cibo, spingono a un consumo elevato e rapido di energia al fine della riproduzione, che è poi lo scopo di tutti gli esseri viventi. Come se dicessero all’organismo: approfitta che è il momento giusto. Ma consumare molta energia produce radicali liberi e molecole ossidanti. E nella nostra nicchia ecologica confortevole e artificiosa questi geni vengono continuamente sollecitati.
Se i geni dell’invecchiamento sono regolati dal cibo, agendo sul cibo possiamo modificarli?
Senza dubbio. Un modo potente per allungare la durata della vita, e che funziona su tutte le specie su cui è stato finora provato, dal verme alla scimmia, è la restrizione calorica. Non c’è motivo che non sia così anche per l’uomo.
Sugli umani, quali dati ci sono?
Indiretti. C’è questo gruppo di persone negli Stati Uniti che già oggi pratica la restrizione calorica nell’ambito di uno studio clinico; e i dati sui biomarker surrogati, quindi non sulla durata della vita ma su fattori come l’invecchiamento dei tessuti, la lunghezza dei telomeri e l’età cardiovascolare, suggeriscono che la restrizione calorica è efficace. Ma si tratta di una scelta eroica, difficilmente estendibile.
Per restrizione calorica che cosa si intende?
La minima quantità di calorie sopra la malnutrizione. Nel topo corrisponde al 30 per cento in meno di ciò che mangerebbe se avesse cibo in abbondanza. In assenza o in scarsità di cibo entrano in gioco i geni che favoriscono la riparazione delle cellule. Come succede a un telefonino: se è sempre acceso le batterie si scaricano, se è in stand-by allunga la sua durata.
Una cosa del genere. La restrizione calorica però nell’uomo non è praticabile. Si può agire sui geni della longevità anche con il digiuno alternato, più gestibile, o con molecole ricavate dagli alimenti.
Il digiuno alternato suona meglio. Gli ultimi studi suggerisocno che persino un minidigiuno di 12 ore faccia bene.
Il digiuno si è dimostrato uno strumento molto potente per abbassare i livelli di insulina, ormone stimolato dalla presenza di glucosio nel cibo. E l’insulina favorisce lo sviluppo dei tumori e ha effetti negativi sulla longevità.
Lei digiuna?
No, ma da anni ho un’abitudine che sto rivalutando: la mattina non faccio colazione, e non pranzo perché non ho tempo. Di fatto il mio pasto è la sera. Non mi sento di consigliarlo perché la sera è il momento in cui si brucia di meno, ma di fatto io digiuno per 24 ore.
Lasciando perdere diete punitive e digiuni alternati, possiamo raggiungere gli stessi obiettivi mangiando?
È quello che stiamo scoprendo: ci sono sostanze presenti nel cibo in grado di regolare questi geni. Al momento lavoriamo su una decina di molecole.
Per esempio?
L’arancia rossa dell’Etna è uno degli alimenti su cui abbiamo fatto più studi: produce grandi quantità di antocianine, che le danno quel colore intenso. Nei topi, la somministrazione dell’arancia stimola i geni legati alla durata della vita, e ha un effetto protettivo sulle malattie cardiovascolari.
Arance rosse, e poi?
Un frutto indiano, la Garcinia Cambogia: contiene principi attivi che agiscono sulle vie metaboliche della longevità. Così come altri cibi: fragole, mirtilli, uva rossa, cipolle e peperoncino. Non solo. Qualche tempo fa un lavoro su Nature ha dimostrato che una sostanza chimica ricavata da un fungo, il Ganoderma lucidum, data a topi adulti ne prolunga la vita, facendo crollare l’incidenza di cancro e di malattie cardiovascolari.
E che cosa ne facciamo di queste molecole "magiche"?
Intanto, gli alimenti diventano un’indicazione per la salute. L’obiettivo finale poi è purificare queste sostanze per farne prodotti di sintesi: farmaci veri e propri che hanno lo stesso effetto del cibo.
Nel frattempo, mangiamo cinque porzioni di frutta e cinque di verdura al giorno?
Ma per carità, chi l’ha detto?
Mah, voi esperti...
Io mai. Non c’è alcuna evidenza che le porzioni debbano essere proprio cinque. Di sicuro c’è che il consumo di frutta e verdura fa bene, ma nessuno sa con certezza se cinque porzioni quotidiane siano meglio di tre o di un’unica porzione grossa la settimana. Ma che vuol dire, che adesso io mi alzo perché devo mangiare una barbabietola? Smartfood destruttura proprio le indicazioni fondate sul nulla e le ristruttura in base alle evidenze scientifiche. L'informazione scientifica è l'unico strumento che abbiamo per orientare le nostre scelte.
http://www.panorama.it/scienza/dieta/cibo-smart-allunga-vita/ 

In post-menopausa i cambiamenti di peso aumentano il rischio fratturativo





Nelle donne in post-menopausa l'aumento e la perdita di peso si associano a una maggiore incidenza di fratture, ma in differenti siti anatomici. Ecco in sintesi i risultati di uno studio pubblicato sul British medical journal, che contrastano con la convinzione che l'incremento ponderale abbia un effetto protettivo. Esordisce Carolyn Crandall, professore di medicina all'University of California, Los Angeles: «Il basso peso è un fattore di rischio ben conosciuto, ma le probabilità di rompersi le ossa aumentano anche negli obesi». Tant'è che la ricercatrice e i coautori hanno esaminato le associazioni tra variazioni ponderali dopo la menopausa e l'incidenza di fratture in 120.000 donne sane in post-menopausa. Le partecipanti, seguite per oltre un decennio, erano tra 50 e 79 anni all'inizio dello studio, e ogni anno venivano pesate e interrogate sull'occorrenza di fratture dell'arto superiore ovvero mano, polso, gomito, braccio, spalla, degli arti inferiori cioè piede, ginocchio, coscia tranne anca, caviglia, e del corpo: anca, bacino e colonna vertebrale. Il calo ponderale è stato classificato come stabile o rilevante a seconda che fosse inferiore o superiore a una diminuzione del 5% rispetto alla prima pesata. Il criterio usato per l'incremento di peso era il medesimo, e prevedeva un aumento minore o maggiore del 5% dal primo valore. I risultati? Al termine del follow-up la perdita di peso comportava un aumento del 65% delle fratture d'anca e del 9% di quelle dell'arto superiore. Viceversa, l'incremento ponderale si legava a un aumento del 10% delle fratture degli arti superiori e del 18% di quelle degli arti inferiori. In un editoriale Juliet Compston, professore emerito all'Università di Cambridge, commenta: «In post-menopausa una perdita di peso involontaria del 5% o più dovrebbe essere considerata un fattore di rischio fratturativo, specie per l'anca. Viceversa, il legame tra fratture e perdita di peso intenzionale nonché aumento di peso, sebbene in misura minore, sottolinea la necessità di prevenire il depauperamento di tessuto osseo durante gli interventi dimagranti».