17 luglio 2015

Fondamentale l'uso degli enzimi nel trattamento delle patologie autoimmuni



La completa digestione degli alimenti e la riduzione degli antigeni residui nell'intestino ha un forte rilievo nel trattamento delle patologie autoimmuni e l'uso degli enzimi è una delle armi più frequentemente utilizzate, al pari degli antinfiammatori, dei regolatori immunitari e dei probiotici, nel piano terapeutico di ogni persona.
Molti pensano alle patologie autoimmuni come a malattie in cui si costruiscano anticorpi contro il proprio "self" che facilitino l'autodistruzione. Il tema è dibattuto, perché in realtà molti autoanticorpi esistono "normalmente" in persone che non hanno nessun tipo di disturbo e in molte situazioni, come nella tiroidite di Hashimoto, la presenza di autoanticorpi, anche a livelli elevati, non significa necessariamente che la tiroide smetta di funzionare. Ciò che genera "malattia" è la reazione infiammatoria, quasi sempre stimolata anche dal contatto tra intestino e cibo che assume così un ruolo spesso determinante. L'innesco di questo meccanismo può essere dovuto a citochine come BAFF (B Cell Activating Factor) e PAF (Platelet Activating Factor) che attivano a cascata una risposta immunologica diretta. Gli autoanticorpi non determinano necessariamente una lesione d'organo, ma possono invece creare, con alcune proteine assorbite dall'intestino e non ancora completamente digerite, dei reticoli complessi, quasi dei veri e propri "grumi", che vengono filtrati e trattenuti da alcuni organi e che generano una attivazione a cascata di reazioni infiammatorie di forte impatto sull'intero organismo.
Il malassorbimento intestinale, l'infiammazione da cibo e la "leaky gut syndrome" (situazione in cui la permeabilità intestinale è aumentata) sono tutte situazioni che facilitano la comparsa di malattie autoimmuni. Basti pensare per esempio alle strette relazioni tra tiroidite e Gluten sensitivity. Come ha descritto Fasano (1), l'aumentata permeabilità intestinale è la possibile causa di molte malattie autoimmuni e la completa digestione enzimatica della gliadina, ottenuta da proteasi prodotte dall'Aspergillo, è in grado di ridurre o annullare la risposta reattiva delle cellule T sensibli al glutine (2).
Quest'ultimo lavoro spiega perché la completa digestione della gliadina può ridurre la reazione che porta poi, nei soggetti predisposti, allo sviluppo della celiachia.
Quindi le reazioni autoimmuni sono spesso stimolate dalla presenza di un reticolo di proteine indigerite in cui gli autoanticorpi fanno da "legante", attivando l'azione del Complemento (dosabile nel sangue come C3 e C4) che viene consumato e si presenta in questi casi spesso ridotto. Il fatto che la grande maggioranza delle malattie autoimmuni, infiammatorie e allergiche tragga beneficio dall'utilizzazione a cicli ripetuti di enzimi digestivi fa capire che la cattiva digestione è una concausa importante di questi disturbi e tra le tante sicuramente una concausa facilmente risolvibile.
1) Fasano A. Clin Rev Allergy Immunol. 2012 Feb;42(1):71-8. doi: 10.1007/s12016-011-8291-x
2) Toft-Hansen H et al, Clin Immunol. 2014 Aug;153(2):323-31. doi: 10.1016/j.clim.2014.05.009. Epub 2014 Jun 3.
Attilio Speciani

13 luglio 2015

La radice di Rehmannia glutinosa ad attività probiotica ed antiobesità

Questo studio clinico ha indagato l'effetto anti-obesità della radice di Rehmannia glutinosa Libosch (Shu Dihuang), un rimedio erboristico cinese ampiamente utilizzato per il trattamento delle malattie metaboliche. Per comprenderne il meccanismo d'azione dei benefici effetti della R. glutinosa, sono stati indagati i cambiamenti nella flora intestinale dopo il trattamento con questa radice attraverso l'analisi 16S rRna pyrosequencing gene-based. Dodici soggetti di mezza età di sesso femminile (40-65 anni), con indice di massa corporea (Bmi) superiore a 25 sono stati incl usi in questo studio che ha previsto l'assunzione di radici di R. glutinosa, trattate al vapore, per otto settimane. I soggetti sono stati valutati nelle misure antropometriche ogni due settimane e campioni fecali sono stati raccolti prima e dopo il trattamento. Tutti i soggetti hanno mostrato una circonferenza della vita notevolmente diminuita dopo il trattamento a base di erbe. La relativa abbondanza di flora microbiotica fecale ha suggerito l'associazione fra l'assunzione di R. glutinosa con lo sviluppo di Actinobatteri e Bifidobatteri, e diminuzione dei Firmicutes e Blautia. Sulla base di questi risultati, non si può escludere che una diminuzione delle circonferenze della vita dopo l'assunzione di R. glutinosa possa essere correlata alla modificazione della flora intestinale.

Food Funct.2015 Jul 3.

Vittorio Mascherini
CERFIT
Regione Toscana, Università di Firenze


07 luglio 2015

Con elevato consumo di zuccheri raffinati aumenta la frequenza di depressione

Il consumo di alimenti contenenti alcuni zuccheri, ma non di tutti, si associa alla presenza di disturbi depressivi, almeno secondo le conclusioni di uno studio pubblicato sull'American journal of clinical nutrition da James Gangwisch, professore associato di psichiatria alla Columbia university, che assieme ai colleghi ha voluto chiarire se gli alimenti con indice glicemico (Gi) più alto fossero associati a una maggiore frequenza di sintomi depressivi. «Quand'ero bambino mangiavo molte caramelle, e dopo averne mangiate tante mi sentivo giù di corda» esordisce il ricercatore che pur non toccando caramelle da anni è rimasto con la curiosità di sapere se una dieta a base di cibo spazzatura possa contribuire a rendere depresso chi la consuma. Così i ricercatori hanno esaminato i dati di circa 70.000 partecipanti al trial Women's health initiative, nessuna delle quali depressa all'inizio dello studio, scoprendo che i regimi alimentari ad alto indice glicemico, compresi quelli ricchi di cereali raffinati e zuccheri aggiunti, si associano effettivamente a maggiori probabilità di sviluppare depressione nel corso degli anni. «Ma alcuni ingredienti hanno invece effetti protettivi contro i sintomi depressivi, tra cui le fibre, i cereali integrali, i frutti interi, la verdura e il lattosio, lo zucchero a basso indice glicemico contenuto nel latte e nei prodotti lattiero-caseari» riprende l'autore, sottolineando che questo protocollo di studio rende impossibile individuare un rapporto causale tra dieta e depressione. «Ciononostante, il consumo eccessivo di zuccheri e amidi raffinati è un fattore di rischio per l'infiammazione e le malattie cardiovascolari, malattie entrambe collegate allo sviluppo di depressione» ipotizzano i ricercatori, aggiungendo che questo tipo di dieta potrebbe anche portare a un'insulino-resistenza periferica, anch'essa legata alla comparsa di deficit cognitivi simili a quelli trovati nei pazienti con depressione maggiore. «Sono necessari ulteriori studi per approfondire l'argomento e in particolare l'eventuale nesso causa effetto alla base dell'associazione tra zuccheri aggiunti e depressione emersa da questi risultati» conclude Gangwisch.



02 luglio 2015

LA STEATOSI EPATICA NON ALCOLICA SI ASSOCIA AL CONSUMO DI BEVANDE ZUCCHERATE

Il consumo regolare di bevande zuccherate si associa a una maggiore prevalenza di steatosi epatica, secondo un ampio studio osservazionale appena pubblicato sul Journal of Hepatology e coordinato da Jiantao Ma dell'Human Nutrition Research Center on Aging alla Tufts University di Boston, Massachusetts. In particolare, analizzando i dati dei discendenti della coorte originaria del Framingham Heart Study, emerge che gli adulti che bevono abitualmente drink zuccherati hanno maggiori probabilità di sviluppare steatosi epatica non alcolica rispetto ai non consumatori. Per giungere a questi risultati i ricercatori hanno studiato 2.634 adulti di mezza età suddividendoli in consumatori o non consumatori di bevande zuccherate. Tra i primi, la cola con caffeina è risultata la bevanda preferita, bevuta nel 40% dei casi, seguita dalle bevande non gassate alla frutta, 29%, da quelle gassate senza cola, 21%, e dalla cola senza caffeina nel 10%. 





























J Hepatology 2015. doi: 10.1016/j.jhep.2015.03.032

06 giugno 2015

Pasta di fagioli: buona e leggera

Esiste una pasta senza glutine 
che non scuoce e non fa ingrassare. Stiamo parlando di un nuovo prodotto alimentare proveniente dai laboratori dell´Università Cattolica di Piacenza. Questa ricetta è a base di farina di fagiolo dal basso indice glicemico. Perfetta per i celiaci e per chi teme l’aumento di peso e l´incidenza di malattie metaboliche causati dal consumo di alimenti "gluten free".
"I risultati ottenuti sono molto promettenti" ha dichiarato Francesco Masoero, direttore dell´Istituto di Scienze degli alimenti e della nutrizione, che ha aggiunto: "i dati mostrano come l´inclusione di farina di fagiolo possa ridurre notevolmente l´indice glicemico della pasta, senza però modificare le principali caratteristiche tecnologiche del prodotto".
Per ricreare questa farina di fagioli, i ricercatori hanno utilizzato tra gli ingredienti una farina ricavata da diverse varietà di fagiolo, ottenendo in via sperimentale una pasta che resiste di più alla cottura e dal gusto e dal profumo eccellenti. Ecco quanto dichiarato da Gianluca Giuberti, coordinatore del progetto di ricerca: "Sarà quello di valutare definitivamente l´efficacia dimagrante di questi prodotti su persone affette da celiachia".

27 maggio 2015

Neuropatie: e se fosse colpa della celiachia?

L’ipotesi arriva da uno studio condotto su quasi trentamila svedesi. Le malattie avrebbero alcuni meccanismi immunologici comuni,  primi sintomi, nella maggior parte dei casi, restano confinati all’intestino e comprendono il gonfiore addominale e la dissenteria. Ma le conseguenze a lungo termine della celiachia, una malattia autoimmune che si manifesta in persone predisposte dopo l’ingestione di glutine, possono estendersi oltre l’apparato digerente e giungere al sistema nervoso periferico. A suffragare l’ipotesi è uno studio pubblicato su Jama Neurology.




  
  Celiachia e fegato: quale relazione?

LA RICERCA - I ricercatori (Università di Orebro, Columbia University e Karolinska Institutet) lo hanno realizzato raccogliendo da 28 reparti di patologia generale della Svezia, tra il 2006 e il 2008, i dati relativi alle biopsie intestinali dei celiaci. Oltre ventottomila i pazienti arruolati, le cui condizioni neurologiche sono state messe a confronto con quelle di 139mila individui inseriti nel gruppo di controllo. Dall’indagine è emerso che 198 celiaci avevano sviluppato nel tempo una neuropatia periferica (lo 0,7%): una percentuale più bassa rispetto a quella riscontrata tra le persone sane (0,3%). Il rischio assoluto che un celiaco sviluppasse deficit sensitivi, motori o vegetativi corrispondeva a 64 individui su centomila, rispetto ai 15 (sempre su centomila) soggetti sani potenzialmente esposti alla malattia nell’arco di un anno. La probabilità era dunque più alta di 2,5 volte tra i celiaci. Tre le forme di neuropatia più spesso riscontrate tra i celiaci: la forma demielinizzante infiammatoria cronica, la neuropatia autonomica e la mononeurite multipla.

    Celiachia, l’unica “terapia” è la dieta senza glutine

DALL’INTESTINO AL…SISTEMA NERVOSO - La ricerca ha aggiunto un tassello al puzzle della malattia, di cui in Italia soffrono almeno 164mila persone, stando ai dati inseriti nella relazione annuale sulla celiachia presentata al Parlamento. Non è però la prima volta che il disturbo viene riscontrato più di frequente in chi soffre di una neuropatia periferica. L’evidenza era già stata documentata nel 2012, in uno studio pubblicato sul Journal of Clinical Neuromuscular Disease. «In effetti diverse ricerche condotte su cadaveri hanno rilevato la presenza di infiltrato linfocitario in pazienti celiaci che avevano una neuropatia cronica o un’atassia cerebellare - afferma Angelo Quattrini, responsabile dell’unità di neuropatologia sperimentale dell’ospedale San Raffaele di Milano -. Alla base della celiachia e di alcuni disturbi del sistema nervoso potrebbe esserci un’origine autoimmune comune». L’associazione sarebbe bidirezionale. In un’analisi separata, infatti, i ricercatori hanno notato che i pazienti con neuropatia hanno un rischio più alto di andare incontro alla celiachia. Un’evidenza che, secondo Jonas Ludvigsson, docente di epidemiologia clinica al Karolinska Institutet di Solna, «dovrebbe tornare utile ai neurologi, quando si trovano di fronte a un paziente con una neuropatia senza un’origine - infettiva, infiammatoria o metabolica: la neuropatia rimane una delle più gravi complicanze del diabete - definita. In questi casi occorrerebbe procedere allo screening per la celiachia: chi risultasse positivo, potrebbe veder migliorare la propria condizione seguendo una dieta senza glutine».

    La sensibilità al glutine non è la celiachia: di cosa si tratta?

LE ALTRE “FACCE” DELLA CELIACHIA - Se ne parla ancora troppo di rado, ma lo spettro delle manifestazioni cliniche della celiachia è eterogeneo. La malattia, che si manifesta dopo l’ingestione di glutine, risulta collegata a un aumento delle diagnosi di altre condizioni autoimmuni: come il diabete di tipo I, la tiroidite di Hashimoto, il lupus eritematoso sistemico, la psoriasi e le forme di epatite autoimmune. Tra i celiaci risultano più frequenti anche le fratture e le diagnosi di osteoporosi, oltre ai disturbi legati alla sfera riproduttiva della donna.

Fabio Di Todaro
@fabioditodaro