27 maggio 2015

Neuropatie: e se fosse colpa della celiachia?

L’ipotesi arriva da uno studio condotto su quasi trentamila svedesi. Le malattie avrebbero alcuni meccanismi immunologici comuni,  primi sintomi, nella maggior parte dei casi, restano confinati all’intestino e comprendono il gonfiore addominale e la dissenteria. Ma le conseguenze a lungo termine della celiachia, una malattia autoimmune che si manifesta in persone predisposte dopo l’ingestione di glutine, possono estendersi oltre l’apparato digerente e giungere al sistema nervoso periferico. A suffragare l’ipotesi è uno studio pubblicato su Jama Neurology.




  
  Celiachia e fegato: quale relazione?

LA RICERCA - I ricercatori (Università di Orebro, Columbia University e Karolinska Institutet) lo hanno realizzato raccogliendo da 28 reparti di patologia generale della Svezia, tra il 2006 e il 2008, i dati relativi alle biopsie intestinali dei celiaci. Oltre ventottomila i pazienti arruolati, le cui condizioni neurologiche sono state messe a confronto con quelle di 139mila individui inseriti nel gruppo di controllo. Dall’indagine è emerso che 198 celiaci avevano sviluppato nel tempo una neuropatia periferica (lo 0,7%): una percentuale più bassa rispetto a quella riscontrata tra le persone sane (0,3%). Il rischio assoluto che un celiaco sviluppasse deficit sensitivi, motori o vegetativi corrispondeva a 64 individui su centomila, rispetto ai 15 (sempre su centomila) soggetti sani potenzialmente esposti alla malattia nell’arco di un anno. La probabilità era dunque più alta di 2,5 volte tra i celiaci. Tre le forme di neuropatia più spesso riscontrate tra i celiaci: la forma demielinizzante infiammatoria cronica, la neuropatia autonomica e la mononeurite multipla.

    Celiachia, l’unica “terapia” è la dieta senza glutine

DALL’INTESTINO AL…SISTEMA NERVOSO - La ricerca ha aggiunto un tassello al puzzle della malattia, di cui in Italia soffrono almeno 164mila persone, stando ai dati inseriti nella relazione annuale sulla celiachia presentata al Parlamento. Non è però la prima volta che il disturbo viene riscontrato più di frequente in chi soffre di una neuropatia periferica. L’evidenza era già stata documentata nel 2012, in uno studio pubblicato sul Journal of Clinical Neuromuscular Disease. «In effetti diverse ricerche condotte su cadaveri hanno rilevato la presenza di infiltrato linfocitario in pazienti celiaci che avevano una neuropatia cronica o un’atassia cerebellare - afferma Angelo Quattrini, responsabile dell’unità di neuropatologia sperimentale dell’ospedale San Raffaele di Milano -. Alla base della celiachia e di alcuni disturbi del sistema nervoso potrebbe esserci un’origine autoimmune comune». L’associazione sarebbe bidirezionale. In un’analisi separata, infatti, i ricercatori hanno notato che i pazienti con neuropatia hanno un rischio più alto di andare incontro alla celiachia. Un’evidenza che, secondo Jonas Ludvigsson, docente di epidemiologia clinica al Karolinska Institutet di Solna, «dovrebbe tornare utile ai neurologi, quando si trovano di fronte a un paziente con una neuropatia senza un’origine - infettiva, infiammatoria o metabolica: la neuropatia rimane una delle più gravi complicanze del diabete - definita. In questi casi occorrerebbe procedere allo screening per la celiachia: chi risultasse positivo, potrebbe veder migliorare la propria condizione seguendo una dieta senza glutine».

    La sensibilità al glutine non è la celiachia: di cosa si tratta?

LE ALTRE “FACCE” DELLA CELIACHIA - Se ne parla ancora troppo di rado, ma lo spettro delle manifestazioni cliniche della celiachia è eterogeneo. La malattia, che si manifesta dopo l’ingestione di glutine, risulta collegata a un aumento delle diagnosi di altre condizioni autoimmuni: come il diabete di tipo I, la tiroidite di Hashimoto, il lupus eritematoso sistemico, la psoriasi e le forme di epatite autoimmune. Tra i celiaci risultano più frequenti anche le fratture e le diagnosi di osteoporosi, oltre ai disturbi legati alla sfera riproduttiva della donna.

Fabio Di Todaro
@fabioditodaro



16 maggio 2015

La nutrizione come potenziale strumento terapeutico nella fibromialgia




Un gruppo italiano ha deciso di revisionare, attraverso una ricerca sistematica effettuata su Medline dal 2000 a quest'anno, le attuali conoscenze sul legame tra fibromialgia e nutrizione. Obiettivo: individuare linee guida nutrizionali per supportare il paziente durante la terapia e migliorare la qualità della vita. La sindrome fibromialgica (Fm) è infatti una malattia cronica, caratterizzata da dolore generalizzato di solito associato ad alcuni sintomi, come fatica cronica, disturbi del sonno, mal di testa, sindrome del colon irritabile e disturbi dell'umore. Oggi diversi sono i trattamenti possibili, ma le più recenti linee guida suggeriscono che i risultati migliori si ottengono con un approccio multidisciplinare che combina trattamenti farmacologici e non farmacologici, tra cui un ruolo di spicco ricopre ovviamente la nutrizione. Obesità e sovrappeso, spesso presenti in questi pazienti, sono correlati alla gravità della patologia e contribuiscono al peggioramento della qualità della vita in termini di dolore maggiore, fatica nel compiere i movimenti quotidiani, scarsa qualità del sonno e maggiore incidenza di disturbi dell'umore. Il controllo del peso è quindi uno strumento efficace per migliorare i sintomi. Inoltre, sembra ragionevole eliminare alcune sostanze dalla dieta, quali per esempio le "eccitotossine" come il glutammato, l'aspartato e la cisteina. La sensibilità al glutine non celiachia, merita un occhio di riguardo poiché non solo è sempre più riconosciuta come una condizione frequente, ma può presentare manifestazioni simili che si sovrappongono a quelle di Fm. L'eliminazione del glutine dalla dieta di questi pazienti può essere, a ragione, considerato un potenziale intervento dietetico in grado di portare a un miglioramento clinico. 



















Rossi A, Di Lollo AC, Guzzo MP, Giacomelli C, Atzeni F, Bazzichi L, Di Franco M. Fibromyalgia and nutrition: what news? Clin Exp Rheumatol. 2015 Mar-Apr;33 Suppl 88(1):117-125.
Silvia Ambrogio

13 maggio 2015

Rischio di diabete di tipo 2 da ripetuti cicli di antibiotici per alterazioni del microbiota intestinale


L'esposizione ripetuta ad alcuni gruppi di antibiotici può aumentare il rischio di sviluppare diabete di tipo 2. 
Lo riporta un ampio studio da poco apparso sullo "European Journal of Endocrinology". 
L'idea di fondo è che gli antibiotici, di cui nei Paesi occidentali si fa largo impiego, possono alterare la flora batterica intestinale (oggi più frequentemente definita come "microbiota") che, sia in modelli animali sia nell'uomo, influenza vie metaboliche importanti nella patogenesi di obesità, insulino-resistenza e diabete.  In base a queste premesse, gli autori della ricerca hanno voluto verificare se il fatto di essere stati esposti in passato ad antibiotici potesse determinare un rischio maggiore di sviluppo di diabete. 
Utilizzando un ampio database relativo alla popolazione del Regno Unito, sono stati identificati i pazienti con diagnosi di diabete e, per ogni caso, quattro controlli di pari età e genere, trattati nello stesso centro e con un follow-up di durata sovrapponibile.
 In totale lo studio ha riguardato oltre un milione di persone: 208.002 soggetti diabetici e 815.576 controlli. Le analisi effettuate dagli studiosi hanno rivelato che l'esposizione a un solo ciclo di antibiotici non risulta associata a un aumento del rischio di diabete, mentre coloro ai quali erano stati prescritti da due a cinque cicli di antibiotici - quattro tipi, in particolare: penicilline, cefalosporine, chinolonici e macrolidi - mostravano una maggiore probabilità di sviluppare diabete di tipo 2, con un rischio proporzionale al numero di antibiotici prescritti. 
Nel calcolo del rischio, gli autori hanno aggiustato i dati tenendo conto degli altri fattori di rischio per diabete, come obesità, fumo, presenza di coronaropatia e infezioni. È stato così determinato che 2-5 cicli di penicillina sarebbero associati a un aumento del rischio di diabete dell'8% (odds ratio, Or, aggiustato: 1,08; 95% CI: 1,05-1,11), mentre in caso di oltre 5 cicli il rischio risulterebbe aumentato del 23%. Per quanto concerne i chinolonici, con 2-5 cicli l'aumento del rischio di diabete sarebbe del 15% (Or: 1,15; 95% CI: 1,08-1,23) e, con oltre 5, si salirebbe al 37%. Non è stata trovata, invece, alcuna associazione tra il rischio di sviluppare diabete ed esposizione ad antivirali e antifungini.
In conclusione, anche se lo studio non dimostra una relazione causa-effetto, la modificazione numerica e qualitativa del microbiota intestinale determinata da agenti antimicrobici potrebbe spiegare il rapporto osservato tra utilizzo di antibiotici e rischio di diabete, inducendo a tenere in maggiore considerazione tale legame.

08 maggio 2015

I test nutrigenetici, un valido aiuto per dieta e salute

Una nutrizione mirata e precisa, grazie alla conoscenza della diversità genotipica di ciascun individuo, sta diventando sempre più importante nella prevenzione di un vasto numero di patologie e ha permesso lo sviluppo di nuove terapie sperimentali coadiuvanti la cura e il miglioramento di malattie complesse: malattie metaboliche, neurodegenerative, neoplastiche, cardiovascolari, danni da stress ossidativo. La conoscenza e la corretta interpretazione di variazioni genetiche in geni-chiave del metabolismo di determinati nutrienti ci permette di avere un'arma in più nella difesa dagli effetti negativi dei fattori ambientali sulla nostra salute. Allo stesso tempo ci permette di scegliere un'alimentazione e uno stile di vita più compatibilicon il nostro materiale genetico. 

Ciò che determina la qualità del test nutrigenetico sono le basi scientifiche, derivanti da studi pubblicati su riviste internazionali, attraverso cui vengono selezionati i geni e le rispettive varianti da analizzare. L'affidabilità di un test si valuta dalla trasparenza dell'informazione genetica, ovvero dalla presenza nel referto di un'elenco dettagliato dei geni, delle varianti analizzate e da appropriati riferimenti bibliografici, che dimostrino le basi scientifiche del servizio offerto.
Un test nutrigenetico valido non deve e non può fornire una diagnosi, né una prognosi della malattia, ma si deve focalizzare sui "fattori di rischio" intermedi come i livelli di omocisteina, colesterolo Ldl, ipertensione ecc. Lo scopo ultimo è quello di fornire indicazioni e linee guida sui valori ottimali di nutrienti essenziali da introdurre nella dieta per mantenere uno stato di salute ottimale. Attualmente esistono test che valutano circa 27 geni e relativi polimorfismi genetici che esercitano un importante ruolo nei processi di detossificazione, nel processo infiammatorio, nell'attività antiossidante, nella sensibilità all'insulina, nello stato di salute del cuore e delle ossa. In base ai risultati è fornita una tabella nutrizionale personalizzata, con le quantità giornaliere raccomandate di nutrienti e minerali e indicazioni dietetiche su come mettere in pratica queste informazioni con l'aiuto di un professionista del settore.
Elena Giordano

07 maggio 2015

Un avocado al giorno toglie il colesterolo di torno



Mangiare un avocado al giorno come parte di una dieta cardiologicamente sana, ipocolesterolemizzante e a moderato contenuto di grassi può aiutare a ridurre i livelli di colesterolo “cattivo” nei soggetti obesi ed in sovrappeso. Questo dato deriva da una ricerca che ha valutato gli effetti dell’avocado sui fattori di rischio tradizionali ed innovativi mediante la sostituzione degli acidi grassi saturi presenti in una dieta media con acidi grassi insaturi degli avocado stessi. In base ai risultati dello studio, rispetto alla dieta americana media, la concentrazione dell’ LDL, o “colesterolo cattivo”, risulta notevolmente ridotta dopo il consumo di una dieta a moderato contenuto in grassi che includa l’avocado. Le LDL sono risultate ridotte anche con lo stesso tipo di dieta senza avocado, o con una dieta a basso contenuto in grassi, ma non nella stessa misura. Gli altri elementi che sono risultati favorevolmente influenzati dalla dieta con avocado rispetto alle altre due comprendono colesterolo totale, trigliceridi, colesterolo non-HDL ed altro ancora. Questi elementi sono tutti considerati fattori di rischio cardiometabolico in modi indipendenti dagli effetti cardiologici degli acidi grassi.
Negli USA come in Europa gli avocado non sono ancora un alimento molto diffuso e possono risultare costosi, soprattutto in alcuni periodi dell’anno, ed inoltre molte persone non sanno come incorporarli nelle proprie diete se non con il guacamole: il guacamole però viene tipicamente consumato con le tortillas, che contengono molte calorie e sodio. Gli avocado, comunque, possono essere mangiati anche in insalata, con verdure, nei tramezzini o con altri alimenti proteici magri come pollo o pesce, o anche da soli. Oltre ai MUFA, gli avocado possono anche fornire altre sostanze bioattive che hanno sicuramente contribuito ai risultati dello studio, come fibre, fitosteroli ed altro ancora. Molte diete cardiologicamente sane raccomandano la sostituzione degli acidi grassi saturi con MUFA o acidi grassi poliinsaturi per ridurre il rischio di cardiopatie; ciò dipende dal fatto che i grassi sature poissono aumentare i livelli di colesterolo “cattivo” ed aumentare quindi il rischio di malattie cardiovascolari. La dieta mediterranea prevede frutta, verdura, granaglie integrali, pesci grassi e cibi ricchi in MUFA, come l’olio di oliva extravergine e la frutta a guscio. Proprio come negli avocado, la ricerca indica che questi ultimi non soltanto contengono grasso migliori, ma anche alcuni micronutrienti ed alcune componenti bioattive che possono svolgere un ruolo importante nella riduzione delle malattie cardiovascolari.
 (J Am Heart Assoc online 2015, pubblicato l’8/1)

06 maggio 2015

Nel diabete 2 la colazione sostanziosa aiuta il controllo metabolico


Nelle persone con diabete di tipo 2, chi consuma una colazione ad alta energia e una cena a basso contenuto calorico ha un miglior controllo della glicemia rispetto a chi fa il contrario. Ecco, in sintesi, le conclusioni di uno studio pubblicato su Diabetologia, prima autrice Daniela Jakubowicz del Wolfson medical center all'Università di Tel Aviv in Israele, da cui emerge che un simile schema alimentare potrebbe migliorare il controllo metabolico contribuendo a prevenire le complicanze del diabete di tipo 2. Il trial, basato su un protocollo randomizzato che ha incluso una piccola casistica di 18 persone fra 30 e 70 anni, 8 uomini e 10 donne, con diabete di tipo 2 da meno di 10 anni e indice di massa corporea tra 22 e 35 kg/m2, prevedeva l'assegnazione casuale dei pazienti a due regimi alimentari per una settimana: il primo con 2.946 kilojoule (kJ) a colazione, 2.523 kJ a pranzo e 858 kJ a cena; l'altro con la stessa energia totale, ma organizzato in modo diverso: 858 kJ a colazione, 2.523 kJ a pranzo e 2.946 kJ a cena. I livelli postprandiali di glucosio sono stati misurati in ciascun partecipante, così come i valori di insulina, C-peptide e GLP-1. Due settimane più tardi, i pazienti si sono scambiati i regimi alimentari e sono state ripetute le misurazioni. «I risultati dimostrano che la glicemia postprandiale era inferiore e i livelli di insulina, C-peptide e Glp-1 erano del 20% superiori nei partecipanti che seguivano la prima dieta rispetto alla seconda nonostante i due schemi alimentari contenessero il medesimo apporto energetico» afferma la ricercatrice. Queste osservazioni suggeriscono che una ridistribuzione giornaliera dell'introito calorico globale potrebbe influenzare il ritmo quotidiano della secrezione di insulina e GLP-1 postprandiale, portando a una sostanziale riduzione della glicemia dopo i pasti. «La migliore tolleranza al glucosio osservata dopo una prima colazione ad alta energia può essere in parte il risultato di una risposta delle cellule beta, che aumentano la secrezione di insulina al mattino, riducendo i picchi di glucosio postprandiale nei pazienti con diabete di tipo 2» conclude Jakubowicz.

Diabetologia. 2015; 58(5):912-9

10 aprile 2015

Emicrania: alimentazione tra le cause primarie di Attilio Speciani

La relazione tra emicrania e alimentazione ha superato le limitative classificazioni dell'emicrania da ristorante cinese (eccesso di glutammato nei cibi) o dell'emicrania scatenata da cioccolato o da vino. 

Le cause del dolore cefalico sono ormai molto più chiare se si valuta il preesistente stato di infiammazione su cui si innesta la reazione dolorosa. Nella maggior parte dei casi si tratta del superamento di un livello di soglia, stimolato magari dal glutammato, da un gamberetto o dai solfiti del vino, che agiscono come una "goccia che fa traboccare il vaso". 

L'infiammazione legata a stimoli provenienti dal quotidiano, come quelli dovuti a cibo, farmaci o stimoli tossicologici ripetuti, diventa quindi la causa primaria del fenomeno. 
Il rumore, il freddo e lo stress possono allora diventare gli stimoli finali che scatenano la crisi emicranica non certo per un loro effetto specifico ma per l'aggiunta di uno stimolo irritativo a un'infiammazione diffusa che rende reattive tutte le strutture dell'organismo. 

Ci sono alcuni importanti lavori che hanno correlato emicrania e alimentazione con questo innovativo paradigma. Il più recente, pubblicato da Alpay1 su Cephalalgiadescrive l'efficacia terapeutica di un test di valutazione delle IgG (come ad esempio Recaller o Biomarkers, oggi diffusi in Italia) e del relativo profilo alimentare individuale per la cura dell'emicrania. Gli anticorpi IgG verso alimenti sono indicatori di un'eccessiva assunzione2 del rispettivo gruppo alimentare e non esprimono certo una reazione avversa al cibo stesso, che rimane, secondo la teoria evoluzionistica, la fonte primaria di energia. 
Nel lavoro di Alpay, il controllo dietetico degli alimenti verso cui esisteva un aumentato livello di IgG ha portato in breve tempo alla significativa riduzione delle crisi emicraniche. 
Si tratta di uno dei primi lavori randomizzati, controllati e in doppio cieco svolti in questo campo. 

Riferendoci alla reattività al glutine non celiaca, Gluten sensitivity (descritta suNutrizione33), impressiona pensare che questa chiave di lettura fosse già stata descritta su Neurology nel 20013 e addirittura ripresa da Ford4 su Medical Hypothesisnel 2009, arrivando a parlare di "Gluten Syndrome" per i forti risvolti neurologici indotti dalla ingestione di un particolare alimento. 

Oggi sappiamo che l'emicrania non è prerogativa di una reattività al glutine ma che il glutine ne è spesso causa anche in soggetti non celiaci. Qualsiasi alimento è in grado, se usato in eccesso, di determinare reazioni infiammatorie che portano anche all'emicrania. L'impostazione diagnostica e quella terapeutica devono quindi prendere atto di queste conoscenze per una corretta ed efficace gestione del disturbo. 

1. Alpay K et al, Cephalalgia. 2010 Jul;30(7):829-37. Epub 2010 Mar 10
2. Ligaarden SC et al, BMC Gastroenterol.2012 Nov 21;12:166. doi: 10.1186/1471-230X-12-166
3. Hadjivassiliou M et al, Neurology 2001 Feb 13;56(3):385-388
4. Ford RP. Med Hypotheses. 2009 Sep;73(3):438-40

Attilio Speciani