18 giugno 2013

SENSIBILITA’ NON CELIACA AL GLUTINE (NCGS)


Una definizione precisa e ampiamente concordata di NCGS (Non-Celiac Gluten Sensitivity) ancora non esiste. 
La NCGS è intesa come una condizione associata a vari sintomi in seguito all’ingestione di alimenti contenenti frumento, segale e orzo e la risoluzione di detti sintomi basata sulla eliminazione di detti alimenti
 dalla dieta di soggetti nei quali sono state escluse Celiachia e Allergie al grano. 
La definizione di NCGS viene quindi effettuata mediante esclusione della Celiachia e della Allergia al frumento secondo quanto riportato nella slide.
http://www.reteimprese.it/laboratorioamatomolfetta

13 giugno 2013

Cambia il vento: l'Accademia dei Pediatri conferma l'associazione intestino - cervello nell'autismo

Connessione intestino cervello? Intestino permeabile? L'Accademia Americana dei Pediatri dice che non siamo pazzi!!


L'American Academy of Pediatrics (AAP) ha appena compiuto un  enorme quanto finora impensabile passo avanti verso il riconoscimento dell'associazione tra problemi gastrointestinali e disturbi dello spettro autistico: il numero di novembre 2012 della rivista Pediatrics (organo ufficiale di divulgazione dell’Accademia Americana  dei Pediatri) pubblica un supplemento di 200 pagine dal titolo “Migliorare l'assistenza sanitaria per bambini e ragazzi con autismo e altri disordini dello sviluppo (Non disponiamo del link perchè l'articolo non è ancora online).
 
Sfogliando i vari articoli del supplemento per vedere cosa dicesse appunto l' AAP, la mia attenzione è stata attirata da un titolo finora anche solo inimmaginabile su una rivista di quel calibro: “Patologie gastrointestinali (GI) nei bambini con Disordine dello Spettro Autistico: sviluppare un programma di ricerca”.

Curiosamente ottimista, ho deciso di rimandare la partita di football  del  sabato pomeriggio e leggere l'articolo. Dopo soli tre frasi, ero a bocca aperta.

"Molte persone con ASD hanno sintomi di condizioni mediche associate, tra cui convulsioni, disturbi del sonno, condizioni metaboliche e disturbi gastrointestinali (l'italicus è mio), che hanno impatti significativi sulla salute, lo sviluppo, la socializzazione e l'apprendimento".

Poche righe dopo ho trovato scritto che vi è  una "mancanza di riconoscimento da parte di medici del fatto che alcune manifestazioni comportamentali nei bambini con ASD sono indicatori di problemi gastrointestinali (ad esempio di dolore, malessere o nausea)"

Il mio primo pensiero è stato che qualcuno dell'ARI o del MAPS si fosse intrufolato nell'AAP e avesse cambiato qualche parola di questo articolo prima che andasse in stampa, senza che nessuno se ne accorgesse. Ma arrivando fino alla fine, sono rimasto completamente scioccato dal leggere altre frasi pazzesche come queste:


 
  • "La pratica clinica e la ricerca condotte ad oggi indicano il ruolo importante delle condizioni gastrointestinali nei disordini dello spettro autistico e il loro impatto non solo sui bambini, ma anche sui  loro genitori e medici"
  • "La connessione intestino - cervello, la funzione immunitaria, e l'interazione genoma-microbioma".  Sì, c'è scritto proprio connessione intestino - cervello!
  • "Sempre più prove supportano una combinazione di cambiamenti nella microflora intestinale, nella permeabilità intestinale (intestinale cosa?!), una risposta immunitaria inadeguata, l'attivazione di specifici percorsi metabolici e cambiamenti comportamentali"
  • "Analisi endoscopiche effettuate nei bambini con ASD e sintomi gastrointestinali hanno rivelato la presenza di una sottile infiammazione diffusa del tratto intestinale"
  • "Sono state segnalate risposte autoimmuni nei bambini con ASD e una storia familiare di malattie autoimmuni"
  • "Gli autoanticorpi potrebbero indicare la presenza di processi infiammatori e/o una componente autoimmune che potrebbe compromettere l'integrità della barriera mucosale e contribuire alla riduzione dell'integrità di questa barriera"
  • "Intestino permeabile." Sì, hanno usato proprio queste due parole che sono state derise per così tanto tempo, e spiegato la ricerca a sostegno di questa teoria in modo che noi pediatri generici potessimo capirla e cominciare a crederci.
  • "Lo stato nutrizionale e l'assorbimento dei nutrienti sono inestricabilmente legati nei bambini con autismo"

Si prevedono anche test per: permeabilità intestinale per valutare l'intestino permeabile, calprotectina per l'infiammazione intestinale, test sierologici per la celiachia per valutare la sensibilità al glutine, esami per le allergie alimentari (non so bene per cosa ... forse le allergie alimentari c'entrano qualcosa in tutto questo????), il test degli acidi organici per la vitamina B12 o la carenza di zolfo  e l'analisi del microbiota intestinale.

L'articolo si conclude con una discussione sulla mancanza di trattamenti accettati e condivisi per i problemi gastrointestinali specifici per i bambini con ASD e definisce sei obiettivi chiave della ricerca:
 
  1. Determinare la patologia delle condizioni  GI nell'ASD
  2. Aumentare la ricerca sugli animali in questo campo
  3. Identificare biomarker per guidare il trattamento.
  4. Migliore valutazione dello stato nutrizionale.
  5. Identificare fenotipi comportamentali legati allo scarso stato nutrizionale.
  6. Sviluppare algoritmi evidence-based per aiutare i medici nella valutazione e nel trattamento di problemi gastrointestinali nell'ASD.

Man mano che giungevo alla fine della lettura, lo spirito critico con cui di solito leggo gli articoli sul trattamento dell'autismo veniva sostituito da un grande ottimismo: alla fine la ricerca tradizionale ha finalmente in programma di esaminare gli aspetti gastrointestinali e nutrizionali del trattamento biomedico per l'autismo. Per venti anni o più, i medici che seguivano questo approccio hanno curato i problemi gastrointestinali nell'autismo senza molto sostegno dalla ricerca tradizionale e hanno dovuto sopportare per questo molte critiche e, ancora peggio, i genitori di bambini con autismo hanno scongiurato i loro pediatri chiedendo aiuto, pregandoli di considerare la possibilità di una connessione intestino-cervello nell'autismo. Il vento del cambiamento ha cominciato a soffiare a gennaio 2010 con la relazione del  Dr. Tim Buie sui problemi gastrointestinali nell'autismo (Pediatrics. 2010; 125 (Suppl 1): S1-S18).  E ora il vento è sempre più a nostro favore.

Questo articolo in realtà non supporta nessun particolare trattamento per i problemi gastrointestinali nell'autismo, e ci vorranno ancora molti anni perchè la ricerca medica giunga a qualche risultato in questo campo, ma è bello sapere che l'aiuto della medicina tradizionale sta arrivando e che se i genitori in cerca di aiuto per i problemi gastrointestinali dei propri figli saranno ridicolizzati da qualche medico avranno ora l'Accademia dei Pediatri dalla loro parte. Potete sventolargli articolo in faccia! Il testo integrale di sarà disponibile on-line al più presto, potete però già visualizzare la prima parte qui:

Gastrointestinal Conditions in Children With Autism Spectrum Disorder: Developing a Research Agenda


Se avete un pediatra aperto e avete bisogno di aiuto, portategli questo articolo, e sicuramente il vostro medico potrà testare e trattare alcuni problemi gastrointestinali del vostro bambino.

Come nota a margine, questa stessa edizione della rivista ha un articolo su l'importanza di valutare e trattare la stitichezza nell'ASD. Sicuramente una buona lettura per il vostro pediatra se avete un bambino che lotta con questo problema; l'articolo suggerisce anche di testare i ragazzi per le malattie della tiroide, per  sovraccarico di piombo, e, sentite questa,. . . per la celiachia! Ecco il link:

Management of Constipation in Children and Adolescents With Autism Spectrum Disorders


Grazie AAP!

Dr. Bob Sears
Pediatra e Direttore medico della TACAhttp://www.emergenzautismo.org/

16 maggio 2013

Meccanismi epigenetici alla base dell’autismo



Ricercatori del King's College di Londra hanno identificato meccanismi epigenetici coinvolti nei disturbi dello spettro autistico studiando gemelli identici che differivano per diagnosi di autismo.
Lo studio, pubblicato su Molecular Psychiatry, sottolinea l'influenza che l'ambiente esercita sull'attività di alcuni geni e che contribuisce allo sviluppo di disturbi dello spettro autistico. Gli studi sui gemelli indicano che esiste una forte componente genetica che predispone ad autismo.
Nel 70% dei casi, quando un gemello omozigote è autistico lo è anche l'altro gemello.Tuttavia nel 30% dei casi un solo gemello è autistico. Poiché i gemelli omozigoti presentano lo stesso codice genetico, questa evidenza suggerisce che siano coinvolti fattori non genetici o epigenetici  nell'espressione di questa patologia.

Le variazioni epigenetiche influenzano l'espressione o l'attività dei geni senza alterare la sequenza del DNA. In particolare in questo studio i ricercatori hanno valutato la metilazione del DNA, un evento che ha effetto di controllo sulle sequenze geniche che guidano l'espressione del gene e di conseguenza silenzia l'attività del gene. In questo studio è stata esaminata la metilazione di oltre 27000 siti nel genoma ottenuto da campioni prelevati in 50 coppie di gemelli identici (100 soggetti) presso  lo UK Medical Research Council (MRC). I risultati hanno evidenziato che:
  • - 34 paia di gemelli differivano per diagnosi di disturbi dello spettro autistico
  • - in 5 paia di gemelli entrambi i soggetti presentavano disturbi dello spettro autistico
  • - 11 paia di gemelli erano sani






E' stata identificato un pattern di metilazione del DNA associato in modo specifico alla diagnosi di autismo e all'aumento della gravità dei sintomi. In particolare il numero dei siti metilati nel genoma è risultato predittivo della gravità della patologia.

Wong et al.  'Methylomic analysis of monozygotic twins discordant for autism spectrum disorder and related behavioural traitsMolecular Psychiatry, 2013; DOI:10.1038/mp.2013.41

13 maggio 2013

L’ ORGANO ADIPOSO: LA CENTRALINA DEL NOSTRO BENESSERE


http://www.nutrifun.it/2012/11/14/l-organo-adiposo-la-centralina-del-nostro-benessere/

Se vogliamo vedere la faccenda dal punto di vista del “bicchiere mezzo pieno”, potremmo dire che l’ aumento epidemico dell’ obesità e della sindrome metabolica (alti livelli di colesterolo, trigliceridi, iperglicemia ed ipertensione) degli ultimi anni, ha stimolato i ricercatori ad approfondire l’ analisi del tessuto ritenuto responsabile di un incremento eccessivo con conseguenti importanti scoperte. Grazie, in particolare, al lavoro del gruppo di ricerca diretto dal Dott. Saverio Cinti dell’ Università Politecnica delle Marche si è giunti alla conclusione, accettata dal mondo accademico, che il tessuto adiposo è in realtà un organo. Il punto di partenza, che ha portato alla formulazione di questo nuovo assioma, è rappresentato dalla presenza nell’ adipocita della leptina (dal greco leptos, cioè snello,magro) ovvero di quell’ ormone legato alla regolazione dell’ appetito noto anche come “ormone della sazietà”.
Da qui, è iniziata l’ “era endocrina dell’ adipocita”.
Per comprendere meglio, bisogna risalire alla struttura anatomo-fisiologica di questo organo. Anzitutto, la parola organo sta ad indicare la presenza di due o più tessuti che cooperano per un fine funzionale comune; in questo caso parliamo di tessuto adiposo bianco e bruno. Nel nostro organismo, una particolare struttura ha una determinata forma e disposizione spaziale proprio perché, da queste caratteristiche, derivano gli obiettivi che un preciso organo deve assolvere per mantenere l’ omeostasi generale. Le cellule uniloculari e sferiche dell’ adipocita bianco e quelle poliedriche dell’ adipocita bruno, portano rispettivamente all’ adempimento di due funzioni: la creazione di un intervallo di tempo tra un pasto e l’ altro (se l’intervallo si prolunga per settimane queste cellule rappresentano l’unico mezzo di sopravvivenza) e la produzione di calore per il mantenimento di una temperatura corporea stabile (non legato ad attività muscolare) a partire dagli acidi grassi.
Andando più a fondo possiamo ben capire che la morfologia e dunque le funzioni dei due tessuti sono antitetiche: l’ adiposo bianco accumula mentre il bruno dissipa. In realtà, in questo vi è un reciproco completamento in quanto il nostro corpo abbisogna di uno step di accumulo di energia per consentire poi una utilizzazione di questa per la normale sopravvivenza. La compensazione dei due tessuti è inoltre visibile nella disposizione intersecata che assumono all’ interno dell’ organo adiposo stesso.
Ma la genetica c’entra qualcosa in questo discorso? Evolutivamente parlando, possiamo dire che in un periodo storico in cui la scarsità di cibo era la norma si sono selezionati i geni che avevano la capacità di sviluppare velocemente il tessuto adiposo bianco. Oggi, che questo problema è stato (almeno nelle civiltà occidentali) abbondantemente risolto -tanto da verificarsi il caso contrario-la presenza di questi geni ha probabilmente portato all’ obesità.
Facendo una correlazione organo adiposo-obesità si può concludere che due condizioni in particolare portano ad uno stato patologico di sovrappeso: un aumento nel numero di adipociti (iperplasia) o un aumento del volume degli adipociti (ipertrofia); la prima si verifica maggiormente in età evolutiva mentre la seconda in età adulta. La negatività di queste condizioni sono determinate dal fatto che, essendo un organo, l’adipe rilascia sostanze infiammatorie -le adipochine- ma anche molecole importanti per il normale funzionamento immunitario, coagulativo e idro-elettrolitico. Problemi di disfunzione di questo organo, quindi, risulterebbero in alterazioni di tipo metabolico importanti.
Le sedi sottocutanee e viscerali, in cui l’adipe si va ad annidare, sono importanti per comprendere la sua essenzialità fisiologica. L’adipe sottocutaneo, che si estende per tutta la superficie del corpo, lo si può definire sesso-specifico in quanto nella donna è particolarmente sviluppato in regione gluteo-femorale e mammaria mentre nel maschio nella zona addominale. L’ adipe viscerale, invece, si distribuisce tra i vari organi della cavità addominale ed un suo eccesso è correlato ad un aumentato rischio di patologie cardiovascolari e diabetiche. La circonferenza vita è allora un dato importante in quanto rivelatore di tale eccedenza.
Scoperta alquanto affascinante è quella rappresentata dal concetto di “transdifferenziazione fisiologica reversibile” tra i due tipi di cellule adipose. Questo vuol dire che vi è la possibilità di trasformare una cellula adiposa bianca in bruna e viceversa a seconda delle necessità energetiche dell’ organismo quindi, tutti i geni presenti nel white adipose tissue sono presenti nel brown tranne quello dell’ UCP1 (proteina disaccoppiante 1 che permette il controllo della temperatura corporea non di tipo muscolare) e forse della leptina.
In ultimo, possiamo dire che l’organo adiposo presenta un caratteristica dielasticità dovuta alla presenza di un recettore adrenergico-beta3- che permette di mantenere due necessità fondamentali: la termogenesi ed ilmetabolismo; quando il nostro corpo necessita in maniera prioritaria della prima perché troppo esposto al freddo, l’organo diventa “più bruno” utilizzando i lipidi per produrre calore, mentre quando necessita un maggiore accumulo di lipidi , l’organo diventa “più bianco”.
Questa transdifferenziazione è ben visibile nella ghiandola mammaria(ricca in tessuto adiposo) che nel tempo subisce differenti modificazioni metaboliche: nella condizione pre-gravidica la mammella è costituita per il 90% da adipociti mentre durante la gravidanza, questi vengono totalmente persi per dare posto alla componente ghiandolare secernente latte. Questa condizione permane anche nella fase di allattamento e si modifica soltanto 10 giorni dopo la fine di questo, periodo in cui gli adipociti si riformano tornando alla condizione pre-gravidica. Codesto fenomeno è stato denominato “occultamento adipocitico” .
Per concludere, nei primi mesi del 2012 il Dott. Cinti ha esposto nel giornale Nature una nuova scoperta coinvolgente l’ ormone irisina; questo verrebbe rilasciato in circolo a seguito di una intensa attività fisica e avrebbe una funzione di trasformazione delle cellule adipose.
Insomma, grandi passi avanti nella comprensione del più affascinante dei mondi: il nostro corpo e, si spera, importanti conseguenti applicazioni in campo medico per un miglioramento del benessere sociale.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI E SITOGRAFICI:
- La Transdifferenziazione nell’Organo Adiposo di Saverio Cinti, Review Società italiana obesità, 2008
- Il tessuto adiposo come organo multifunzionale di Gabriele Bittolo Bon,U.O. di Medicina Interna, Dipartimento di Medicina Clinica, Ospedale Umberto I, Mestre-Venezia,2008
- L’ organo adiposo di Saverio Cinti, Istituto di Morfologia Umana Normale, Università di Ancona
- “INFIAMMAZIONE DELL’ORGANO ADIPOSO IN MODELLI SPERIMENTALI DI OBESITA’” Tesi di dottorato di J. Perugini in Obesità e patologie correlate, Università politecnica delle Marche
- www.ilsole24ore.it

CARATTERISTICHE GENOTIPICHE NELL’ATLETA


http://www.nutrifun.it/2013/05/06/caratteristiche-genotipiche-nellatleta/

L’esercizio fisico è un complesso insieme di fattori che comporta l’integrazione di sistemi anatomici e fisiologici. Negli ultimi anni  la ricerca ha cercato di descrivere quali sono le caratteristiche antropometriche e funzionali negli atleti che raggiungono alti livelli nelle gare agonistiche, indagando anche sulle basi genetiche e molecolari dell’adattamento all’esercizio e sui differenti indicatori nelle varie discipline sportive.
genedoping cartoon
La prima documentazione attestante differenze genetiche in atleti d’elite risale ai Giochi Olimpici del Messico nel 1968 in cui vennero individuati comuni marcatori per verificare se vi fossero differenze nell’allele o nella frequenza genotipica (De Garay et al, 1974). Le indagini proseguirono con studi su geni di alcune proteine del muscolo scheletrico  in relazione ad indicatori di endurance cardio-respiratoria (Bouchard et al, 1988). Queste differenze vennero poi studiate a livello della molecola del DNA, grazie alle nuove tecniche di biologia molecolare: nel Marzo del 2000 un gruppo di scienziati riuscì a pubblicare la prima mappa genetica umana correlata alla performance, attraverso una revisione sistematica dei dati ricavati dalle maggiori pubblicazioni scientifiche e con successivi periodici update (The Humane Gene Map for Performance and Health-Related Fitness Phenotypes, Rankinen et al., 2001).
Con l’avanzare della ricerca, sono state individuate oltre 200 varianti genetiche associate all’eccellenza atletica. Tra i marcatori maggiormente correlati a manifestazioni fenotipiche del sistema muscolare rientrano il gene ACE ed il gene ACTN3.
gene sports enhancementIl gene ACE ha un ruolo importante nella regolazione della pressione arteriosa attraverso il sistema renina-angiotensina: converte l’angiotensina I in angiotensina II che a sua volta è implicata nella crescita dei tessuti e nell’ipertrofia cardiaca in risposta al caricamento meccanico. Sono stati identificati numerosi loci polimorfici all’interno di questo gene e quello più studiato è l’inserzione Alu nell’introne 16: la presenza di un frammento di 287 bp (allele I-insertion o “variante dello scalatore“) è associato a minori livelli di ACE nei tessuti e favorirebbe performance di endurance.
Il gene ACTN3 codifica per l’actinina-3, una proteina presente nelle fibre di tipo 2 (veloci) e viene quindi definito “The gene of speed”. Le actinine hanno la funzione di mantenere la stabilità e l’integrità della membrana cellulare durante la contrazione muscolare, permettendo inoltre il trasferimento della forza dalla struttura sarcomerica alla matrice extra-cellulare. Quindi la presenza dell’actinina-3 (polimorfismo 577R, presente nel 50% della popolazione euroasiatica e nell’85% di quella africana) aumenterebbe la performance di attività collegate allo sprint; al contrario la sua assenza (577XX)  favorisce gli sport di endurance.
ACTN3
Un’altra mutazione che influisce sulle prestazioni sportive è la mutazione dell’EPOr, il recettore per la produzione endogena dell’ eritropoietina: ne risulta una migliore capacità di trasportare ossigeno ai tessuti, soprattutto in chi pratica sport di resistenza.  Questa mutazione determina infatti policitemia con conseguente aumento nella capacità di trasporto dell’ossigeno del 25-50% ; è stata riscontrata ad esempio nello sciatore finlandese Eero Mäntyranta, vincitore negli anni ’60 di 7 medaglie olimpiche e di 5 titoli mondiali.
Altri geni candidati sono quelli che controllano la produzione di IGF-1 e di miostatina. L‘IGF-1 (Insulin-like Growth Factor-1) è un ormone coinvolto nella crescita e nella riparazione dei muscoli; l’introduzione dell’IGF-1 produce ipertrofia muscolare con aumento della forza di circa il 15% e un incremento della capacità di riparazione muscolare.  La miostatina (GDF-8, growth differentiation factor 8) è una proteina che  controlla lo sviluppo muscolare inibendo la proliferazione delle cellule satelliti nelle fibre muscolari. Il suo ruolo fisiologico non è ancora del tutto chiaro, anche se l’utilizzo diinibitori della miostatina (quali per esempio la follistatina) oppure mutazioni del gene MSTN , provocano un aumento della massa muscolare e possono migliorare la condizione rigenerativa in pazienti che soffrono di malattie gravi come nella distrofia muscolare di Duchenne. Nel 2005 uno studio della Johns Hopkins University ha messo in evidenza che topi privati del gene della miostatina (topi knock out) sviluppano una muscolatura ipertrofica.
Il PPAR-delta (Peroxisome Proliferator Activated Receptor) è un fattore di trascrizione coinvolto in alcune modificazioni del metabolismo energetico; risulta inoltre essere correlato alla formazione di fibre lente (tipo I) e quindi a un miglioramento significativo della resistenza. VEGF (fattore di crescita dell’endotelio vascolare) può essere utilizzato per promuovere la crescita di nuovi vasi sanguigni consentendo un maggiore apporto di ossigeno ai tessuti. Finora sono stati fatti esperimenti di terapia genica in patologie come l’ischemia cardiaca oppure in caso di insufficienza arteriosa periferica  ma non si esclude che la manipolazione genica possa essere applicata anche per cercare di migliorare la performance sportiva.
A partire dal 1 gennaio del 2003 il Comitato Olimpico Internazionale (CIO) ha incluso il Doping Genetico nella lista delle classi di sostanze e metodi proibiti.
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Secondo la definizione della World Anti-Doping Agency(WADA) il doping genetico è “ l’uso non terapeutico di cellule, geni ed elementi genetici o della modulazione dell’espressione di geni aventi la capacità di migliorare le performance atletiche”.
L’importanza di comprendere come la specie umana sia capace di sfidare e superare quei limiti che conducono un atleta sul gradino più alto del podio, portano oggi ricercatori e studiosi ad unire le proprie forze. Questi approcci vengono valutati su modelli animali ma sono in atto ricerche antidoping preventive perché ci sono molte incertezze in merito agli effetti a lungo termine. A Trieste presso la sede italiana dell’International Centre for Genetic Engineering and Biotechnology, c’è un gruppo di ricercatori incaricato dalla WADA per far luce sul fenomeno, individuando anche le possibili tecniche per controllare gli atleti.
Il miglior personal trainer è quindi il nostro Dna? Sebbene sia stato evidenziato che esiste un ampio numero di associazioni tra geni e performance fisico-sportiva attualmente la determinazione delle caratteristiche genetiche sembra non apportare contributi nella programmazione di allenamenti per il raggiungimento di risultati di eccellenza e ci sono ancora troppi punti critici da tenere in considerazione.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
  • Rankinen T. et al. (2001) The human gene map for performance and health-related fitness phenotypes. Med Sci Sports Exerc. 33(6):855-67
  • Bouchard, C., R. Malina, and L. Pérusse (1997). Genetics of Fitness and Physical Performance. Champaign: Human Kinetics, pp. 400
  • Gayagay G, Yu B, Hambly B, Boston T, Hahn A, et al. (1998). Elite endurance athletes and the ACE I allele – the role of genes in athletic performance. Human Genetics 103, 48-50
  • Se-Jin Lee et al. (2004) Myostatin mutation associated with gross muscle hypertrophy in a child.N Engl J Med 350 (26): 2682–8
  • Gaffney GR, Parisotto R (2007). Gene doping: a review of performance-enhancing genetics.Pediatr Clin North Am. Aug;54(4):807-22
  • World Anti-Doping Agency. The 2013 prohibited list: international standard. http://www.wada-ama.org/
  • MacArthur and North (2004) A gene for speed? The evolution and function ofalpha-actinin-3.BioEssays 26:786-795
  • Yang et al. (2003) ACTN3 Genotype Is Associated with Human Elite Athletic Performance. American Journal of Human Genetics 73:627-631

12 maggio 2013

I fito-neuro-precursori




Nel regno vegetale esistono alcuni metaboliti secondari precursori dei neurotrasmettitori. Ad esempio nei semi della Griffonia simplicifolia (fam. Fabaceae) si concentra il 5-HPT, diretto precursore della serotonina. Diversi trial clinici hanno confermato gli effetti benefici del 5-HPT contro alcune patologie causate da deficit di serotonina (depressione, fibromialgia) (1,2). Effetti sulla depressione sono stati osservati già con 200 mg/die di 5-HTP, corrispondenti a circa 1 g di estratto di Griffonia tit. al 20%. In tale studio viene usato anche un inibitore periferico della carbossilasi che bloccando la degradazione periferica di 5-HTP, ne favorisce un maggi ore accumulo a livello del SNC (3). Ad oggi non esistono ancora studi in cui si sono messi a confronto gli estratti titolati di Griffonia con un pari quantitativo di 5-HTP per valutare l'influenza del fitocomplesso sulla farmacocinetica del p.a.. Un simile esperimento è stato invece realizzato per un altra fabacea di origine indiana, la Mucuna pruriens, avente i semi naturalmente ricchi di L-DOPA (LD), il precursore endogeno della dopamina. Non è l'unica fabacea ad essere un importante fonte di LD. Anche le comuni fave (Vicia Fava) lo sono, se pur in modo più modesto. Lo studio in questione è stato randomizzato su 8 pazienti affetti da Morbo di Parkinson's ai quali è stato proposto un doppio cieco in crossover; da una parte LD (200 mg) in presenza di carbidopa (CD) (50 mg), dall'altra15g o 30g rispettivamente di polvere di semi di Mucuna pruriens.. Rispetto a LD / CD i 30 g di Mucuna hanno portato ad un insorgenza notevol mente più veloce dell'effetto antidiscinesiaco(34,6 contro 68,5 min, p = 0,021), ed un miglioramento di tutti i parametri farmacocinetici. (4)
  1. Shaw K, Turner J, Del Mar C. Tryptophan and 5-hydroxytryptophan for depression. Cochrane Database Syst Rev 2002;:CD003198.
  2. Caruso I, Sarzi Puttini P, Cazzola M, Azzolini V. Double-blind study of 5-hydroxytryptophan versus placebo in the treatment of primary fibromyalgia syndrome.J Int Med Res 1990;18:201-9.
  3. Young SN. Are SAMe and 5-HTP safe and effective treatments for depression? J Psychiatry Neurosci. 2003 ;28(6):471.
  4. R Katzenschlager, A Evans, A Manson, P N Patsalos, N Ratnaraj, H Watt, L Timmermann, R Van der Giessen, A J Lees. Mucuna pruriens in Parkinson's disease: a double blind clinical and pharmacological study. J Neurol Neurosurg Psychiatry 2004;75:1672-1677

Angelo Siviero
Farmacista, esperto in fitoterapia clinica
Aosta

11 aprile 2013

Fattori epigenetici nell’insorgenza di obesità e diabete di tipo 2




Patologie metaboliche, tra cui il diabete di tipo 2, sono in aumento in tutto il mondo con una velocità allarmante. Si ritiene che le modifiche epigenetiche come la metilazione del DNA e le modifiche istoniche giochino un ruolo importante nello sviluppo e la predisposizione a patologie metaboliche. Kirchner, in un articolo pubblicato su Trends Cell Biol, sottolinea la funzione chiave della metilazione del DNA e spiega i meccanismi che potrebbero rendere conto dell'aumento globale dell'obesità e del diabete di tipo 2. L'impatto dell'attività fisica e della nutrizione sul profilo epigenetico è rilevante in quanto questi fattori legati allo stile di vita possono modificare la programmazione epigenetica e la predisposizione all'obesità e al diabete di tipo 2.
La flessibilità epigenetica potrebbe permettere rapidi adattamenti genetici all'ambiente che possono spiegare lo sviluppo di patologie croniche e questa flessibilità può essere influenzata da fattori quali la dieta e lo stile di vita.

Mentre alcuni eventi epigenetici sembrano essere fissati, altri sono altamente flessibili e influenzabili da fattori ambientali quali la dieta ad esempio. E' questa flessibilità che ci aiuta ad adattarci rapidamente alle variazioni ambientali entro una singola generazione o persino nel tempo di una vita.
Le risposte epigenetiche allo stress ambientale avrebbero conferito un vantaggio ai nostri antenati cacciatori e raccoglitori ma non in questo ambiente con elevate calorie a disposizione. Oltre ai fattori legati alle scorte nutrizionali, fattori ambientali quali il consumo 
di alcool e di tabacco, inquinanti e lo stress psicologico possono scatenare questa stessa risposta epigenetica adattativa che può portare ad obesità o diabete di tipo 2.
La risposta epigenetica all'attività fisica fornisce un altro esempio di flessibilità epigenetica. L'attività fisica ha dimostrato di esercitare estese e rapide variazioni epigenetiche adattative che possono spiegare perché l'esercizio possa migliorare la funzionalità metabolica e ridurre il rischio di patologie. Perciò lo stile di vita e gli interventi legati alla dieta possono migliorare la salute e ridurre il rischio di patologie influenzando i meccanismi di flessibilità epigenetica.

Kirchner H et al. 'Epigenetic flexibility in metabolic regulation: disease cause and prevention?'Trends Cell Biol 2012 Dec 28

26 marzo 2013

SEMINARIO INTOLLERANZE ALIMENTARI TEST ALCAT NUTRIGENETICA E IONORISONANZA CICLOTRONICA ENDOGENA

il Seminario vuole informare tutti coloro che sono interessati, sull’ esistenza di correlazioni fra intolleranze alimentari e nutrigenomica.  
In tutti i casi esistono test per la diagnosi e modi non invasivi, che insieme all'alimentazione corretta e personalizzata, possono far migliorare lo stato di salute e riequilibrare i nostri organi e tessuti corporei ed ottenere il ripristino dell'omeostasi cellulare.
Relatori:
Dott.ssa Cacciola Maria Stella - biologa nutrizionista - esperta in intolleranze alimentari
Dott Linosa Carlo - medico omeopata - specialista in medicina biologica e posturologia

Presso
Associazione Vivencia
Via Amato 21
Trappeto -  S. Giovanni La Punta -  Catania

Per prenotarsi
Cell.  3401006624
associazionevivencia@gmail.com
faridea@libero.it


10 marzo 2013

Carciofo efficace nelle disfunzioni glicemiche, e non solo


L'alterazione della glicemia a digiuno (Impaired fasting glycaemia, Ifg) è una disfunzione metabolica sempre più frequente nella popolazione occidentale. Colpisce il 24% dei maschi e il 17% delle donne oltre i 60 anni: se non trattati, la maggior parte di questi soggetti nell'arco di 10 anni svilupperà diabete di tipo 2 e, conseguentemente, tutte le alterazioni degenerative che questo comporta. Esistono molti rimedi fitoterapici indicati per il controllo della glicemia e il metabolismo dei carboidrati, sia tramand ati dalle diverse tradizioni medicinali e sia più moderni. Nel tempo, le piante maggiormente utilizzate allo scopo sono state Garcinia cambogia, Gymnema sylvestre, Allium sativum, Panax ginseng, ognuna caratterizzata da una differente fitochimica e quindi da diverso meccanismo d'azione, oltre a specie vegetali a effetto più meccanico, ricche cioè in lunghe fibre polisaccaridiche, quali Amorphophallus konjac, Opuntia ficus indica e Momordica charantia. Recentemente, inoltre, ottime evidenze sperimentali sono state mostrate da estratti di Cynnamomum zeylanicum, la cannella, dopo somministrazione orale post-prandiale. Uno studio tutto italiano riporta però in auge, mostrando interessanti risultati, un'altra specie vegetale, il carciofo (Cynara scolymus). I componenti fitochimici principali e maggiormente attivi estratti dalle pa rti aeree di questa asteracea, nota per lo più per le sue proprietà coleretiche, sono l'acido clorogenico e l'acido caffeilchinico; in particolare, il primo è un potente inibitore della glucosio-6-traslocasi, enzima chiave del sistema epatico di regolazione del metabolismo del glucosio, mentre il secondo e i suoi derivati sono coinvolti nella regolazione dell'attività della alfa-glicosidasi, enzima pancreatico la cui attività determina la liberazione in sede duodenale (ed il conseguente assorbimento) di gran parte del glucosio di origine alimentare. Lo studio clinico, condotto in doppio cieco presso l'università di Pavia, ha coinvolto 55 soggetti sovrappeso od obesi la cui dieta è stata implementata, per 60 giorni, con un estratto di carciofo (600 mg/die suddivisi in tre somministrazioni ai pasti principali) o con placebo. L'estratto vegetale utilizzato è molto caratterizzato, nota importante per uno studio in materia fitoterapi ca: titolato mediante HPLC al 60% in acido caffeilchinico, è stato preparato con estrazione idroalcolica (EtOH 70%) ed è caratterizzato da un rapporto droga/estratto di 120:1. Dati positivi e statisticamente significativi sono stati ottenuti non solo per il valore della glicemia a digiuno, ma anche per molti essenziali parametri corollari quali l'indice di emoglobina glicata, i valori di Adag (Media glicemica derivata dalla Hb glicata) e quelli dell'indice Homa per la valutazione dell'insulino-resistenza, tutti ridotti. Azioni positive sono state ottenute, come atteso, per quanto riguarda i parametri lipidemici con una riduzione del colesterolo Ldl ed un miglioramento sostanziale dell'Irc (indice di rischio cardiovascolare). Anche il Bmi risulta migliorato nel gruppo trattato, evidenziando quanto estesamente il supplemento dietetico di estratto di carciofo sia clinicamente efficace.

Rondelli, M., et al., Metabolic Management in Overweight Subjects with N aive Impaired Fasting Glycaemia by Means of a Highly Standardized Extract From Cynara scolymus: A Double-blind, Placebo-controlled, Randomized Clinical Trial. Phytother Res., 2013, Feb 25.doi: 10.1002/ptr.4950.

Matteo Floridia
Biotecnologo, Esperto in Fitoterapia clinica
Milano

20 febbraio 2013

Le Intolleranze Alimentari ed i Test per la diagnosi: storia di una esperienza personale


Sono dieci anni che mi occupo di intolleranze alimentari. Come tutte le cose che ti cambiano la vita arrivano quasi per caso!

Infatti la mia passione è nata quando mi sono rivolta ad una collega BN, che faceva anche il test citotossico, nell’ulteriore tentativo di perdere un paio di chili resistenti.
La collega attuò una “dieta di eliminazione” totale degli alimenti cui ero risultata intollerante.

Finalmente riuscivo a superare la soglia tanto desiderata!

Ma c’è un ma...

Infatti , nonostante avessi riportato un successo insperato dal punto di vista della riduzione del peso, avevo spesso un fastidioso mal di testa che si calmava solo quando andavo in palestra o correvo!

Inspiegabile!

A questo punto però mi sono molto appassionata ed ho iniziato a leggere tutto quello che l’attuale letteratura proponeva, ho partecipato a seminari a favore e contro (più questi ultimi!), sono andata a Roma per fare il corso per la lettura del test citotossico. Sono stata a fare uno stage in un centro di Bologna, dove facevano centinaia di test citotossici ogni giorno.

Ancora una volta mi si propone di fare il test citotossico e scopro intolleranze diverse da quello precedente. Mi sarei aspettata di non trovarne affatto invece ero ancora intollerante!
Latte e leviti! Non se ne parlava proprio! Togliere il latte? I lieviti? Non avevo alcuna intenzione di sobbarcarmi all’iter di eliminazione totale per 3 mesi!

Ho iniziato anch’io a fare i test citotossici ai pazienti in collaborazione con un laboratorio di analisi. Per ogni test prima ricevevo il paziente, facevo un’accurata anamnesi, dopo facevo il test, impiegando anche 2 ore per ciascuno, cercando di fare attenzione all’impilamento dei Globuli Rossi, alla vacuolizzazione dei Globuli Bianchi, alle interruzioni di continuità della membrana, ai danni più eclatanti, controllavo molti campi ecc.

Posso dire che quello che provavo a fare era trovare dei parametri di lettura oggettivi! Ma spesso mi accorgevo che se stavo troppo a lungo ad osservare un vetrino, il campione si modificava e si alterava, probabilmente a causa del calore indotto dal sistema di illuminazione del microscopio stesso. Il tentativo di essere più accurati, precisi e oggettivi si risolveva nell’alterazione del campione, quindi diventava controproducente.

L’esperienza è qualcosa di meraviglioso! Col tempo si diventa capaci di fare le stesse cose in minor tempo! Ma siamo certi che sia sempre a favore del “fatto bene” ?

Nel  frattempo ho deciso di provare a fare anch’io la dieta di eliminazione di latte, latticini e lieviti con risultati veramente importanti e ottenendo  finalmente anche la scomparsa del fastidioso mal di testa

Questo può essere soggetto a diverse interpretazioni. Possiamo ipotizzare ad esempio che il primo test  sia stato letto in modo corretto ed oggettivo e le intolleranze al latte e ai lieviti siano subentrate in seguito. Questa ipotesi non tiene conto del mal di testa comparso durante il primo trattamento dietetico e scomparso nel secondo con l’eliminazione del latte, latticini e lieviti e non convince la spiegazione che queste intolleranze si siano sviluppate in un secondo tempo, a causa dell’uso continuativo di quei cibi,  perché in realtà non era stato così cioè non avevo consumato più latte, latticini e lieviti di prima. 

È più semplice pensare che tutte queste intolleranze erano presenti fin dal principio e che non sono state individuate precedentemente perché forse il quadro era complesso e lo stato infiammatorio molto importante. Anzi l’eliminazione del primo gruppo di alimenti aveva apportato il beneficio di sboccare un metabolismo rallentato ma non aveva ridotto in modo ottimale l’infiammazione minima persistente causata dal latte, latticini e lieviti e mi avevano resa più sensibile alle altre intolleranze causandomi il fastidioso mal di testa.

In seguito ho sempre più riscontrato la cosa anche in altre persone da me seguite nutrizionalmente.  

La BN che aveva fatto il primo test aveva fatto un buon lavoro ma non aveva individuato con completezza i cibi cui ero intollerante.

Questo ci riporta ad una riflessione importante sulla soggettività della lettura del test citotossico e sulla possibilità di omettere più o meno consapevolmente intolleranze a cibi che potrebbero essere molto importanti ai fini di un corretto impiego per l’elaborazione di piani nutrizionali assolutamente personalizzati.

Ricordo bene che qualche anno fa ci dicevano che un buon test citotossico deve dare intolleranza a pochi alimenti, 2 o 3, massimo 4.

E se ne troviamo 10-15 allora cosa facciamo?

A tal riguardo vorrei porre l’attenzione sull’intolleranza al nickel! Se si omettono informazioni perché non valutate importanti si rischia di non riuscire a diagnosticarla in modo corretto. 
Si tratta infatti di una delle più difficili delle intolleranze da inquadrare perché coinvolge moltissimi alimenti non collocabili  per famiglie biologiche e tal volta si riscontra in persone che apparentemente non sono allergiche al nickel o comunque hanno una reazione allergica molto bassa!

Mi sono spesso chiesta come fidarsi, alla luce di tutte queste importanti conoscenze, di test citotossici fatti presso laboratori privati, letti da operatori frettolosi o comunque ignari delle informazioni sul paziente che solo il nutrizionista può avere e troppo spesso gestiti in modo autonomo dai pazienti, che non essendo consapevoli dei danni provocati dalle diete di eliminazione possono provocarsi malnutrizioni importanti?

Per alcuni anni non ho più né fatto test citotossici né richiesto test ai miei pazienti, in qualche caso qualcuno mi portava quello che aveva già fatto fare ed io lo accettavo, lo valutavo, ma ho imparato ad interrogare le persone accuratamente e farmi dare moltissime informazioni e a stilare piani nutrizionali tenendo in considerazione tutti questi dati raccolti.

In qualche caso, però restano i dubbi, rimane qualcosa di inspiegabile!

Proprio per tutte queste considerazioni mi sono interessata ad altri test, come la ricerca delle IgG ma non sempre ho avuto buon riscontro perché non sempre i soggetti intolleranti hanno le IgG aumentate e viceversa!

È molto interessante l’ALCAT test, che in realtà è sempre un test citotossico ma non viene effettuato su sangue intero ma solo sui globuli bianchi neutrofili e cosa ancor più importante non richiede la lettura di un operatore ma i pozzetti con alimenti o sostanze chimiche e sangue sono letti attraverso uno specifico strumento di conteggio e misurazione cellulare, denominato ROBOCATII (validato dall’US Food & Drug Administration), che individua le eventuali variazioni volumetriche e cliniche dei globuli bianchi (granulociti neutrofili) a contatto con le sostanze testate. Quando si verifica una variazione del numero e delle dimensioni dei globuli bianchi, significa che è presente una reazione avversa a quella determinata sostanza.

Questo sistema permette una determinazione oggettiva delle intolleranze ad alimenti e sostanze chimiche inoltre il risultato che viene fornito è corredato da tutta una serie di informazioni che non solo aiutano il nutrizionista nella stesura del piano nutrizionale corretto  superando la vecchia modalità di eliminazione assoluta di tutti i cibi incriminati per 3 o 4 mesi, con una più moderna che è quella della “dieta di rotazione”, cioè l’esclusione degli alimenti solo per alcuni giorni alla settimana e la reintroduzione negli altri giorni.

Altro effetto importante è certamente quello di costituire una rete di nutrizionisti che utilizzando lo stesso test a lettura oggettiva ed i medesimi principi di stesura della dieta che è quella di rotazione,  può dare anche la possibilità a tutti i componenti di interagire direttamente in workshop organizzati appositamente e magari pubblicare i risultati di queste interazioni.

dott.ssa Cacciola Maria Stella
biologa nutrizionista
esperta in intolleranze alimentari e fitointegrazione


19 gennaio 2013

Colesterolo e ciclo mestruale





L'influenza degli ormoni femminili sui livelli di colesterolo e trigliceridi è nota ormai da tempo. A partire dal secondo trimestre di gravidanza, la colesterolemia totale sale notevolmente sotto la spinta degli estrogeni prodotti dalla placenta; anche le pillole anticoncezionali con elevate concentrazioni estrogeniche, o le terapie sostitutive durante la menopausa, tendono a far salire in maniera significativa la colesterolemia totale. In entrambi i casi, l'incremento dei valori ematici di colesterolo interessa soprattutto la frazione HDL. Per questo importante contributo, durante l'età fertile di ogni donna gli estrogeni conferiscono un'importantissima protezione nei confronti delle malattie cardiovascolari.

Influenza delle variazioni ormonali durante il ciclo mestruale sui livelli di colesterolo

Durante il ciclo mestruale, i valori di colesterolo variano in maniera non trascurabile secondo i fisiologici mutamenti dei tassi plasmatici di estradiolo e progesterone. Di conseguenza, è importante valutare anche la fase del ciclo mestruale in cui ci si sottopone ai test di colesterolemia e trigliceridemia.
In linea di massima, i livelli di colesterolo salgono durante la prima metà del ciclo mestruale e diminuiscono nella fase luteinica.
Come anticipato, i crescenti livelli di estrogeni che caratterizzano la prima metà del ciclo mestruale portano con sé un graduale incremento delle lipoproteine HDL (colesterolo buono), che raggiungono un picco in corrispondenza dell'ovulazione. Per contro, colesterolo totale, colesterolo LDL e trigliceridi sembrano diminuire all'aumentare dei livelli estrogenici; questo declino, tuttavia, non è immediato, ma si manifesta con qualche giorno di ritardo. Pertanto, nell'interpretazione del grafico sottostante, bisogna considerare che il picco dei livelli di colesterolo totale durante la fase mestruale è la conseguenza del declino degli estrogeni nella tarda fase luteinica, mentre il successivo declino della colesterolemia totale consegue al lieve aumento degli estrogeni durante la fase mestruale; tale declino diviene ancor più brusco qualche giorno dopo che i livelli estrogenici iniziano ad aumentare sensibilmente in vista dell'ovulazione.