31 agosto 2012

Vitamina D3 e Alzheimer




Un gruppo di ricercatori ha identificato il meccanismo intracellulare regolato dalla vitamina D3 che potrebbe aiutare il corpo a 'pulire' il cervello dal beta-amiloide, il principale componente delle placche associate al morbo di Alzheimer.
I risultati della ricerca, pubblicati nel Journal of Alzheimer's Disease, mostrano come la vitamina D3 possa attivare geni chiave e una rete di segnali cellulari che aiutano a stimolare il sistema immunitario a contrastare la proteina beta-amiloide. Questo studio evidenzia che la vitamina D, nei pazienti con morbo di Alzheimer, stimola i macrofagi a fagocitare il beta amiloide attraverso segnali genomici e non genomici. La clearance cerebrale del beta-amiloide ad opera dei macrofagi è necessaria per il mantenimento della normale funzionalità cerebrale. Questo processo di fagocitosi è carente in pazienti con morbo di Alzheimer.
Sono stati identificati due tipi di macrofagi nei pazienti con morbo di Alzheimer: macrofagi di tipo I e di tipo II. I ricercatori hanno evidenziato che la funzionalità dei macrofagi di tipo I può essere migliorata con vitamina D3 e curcuminoidi; i macrofagi di tipo II sono stati stimolati dalla sola vitamina D3. In particolare la vitamina D3 supporta la trascrizione di geni che codificano per il canale del cloro e del recettore della vitamina D3 nei macrofagi di tipo II. Il ripristino della fagocitosi del beta-amiloide nei macrofagi di tipo II ad opera della vitamina D3 è dipendente dal calcio e da un segnale che coinvolge una proteina chinasi attivata da mitogeni (MPAPK).

Bibliografia: Mizwicki MT et al. 'Genomic and nongenomic signaling induced by 1α,25(OH)2-Vitamin D3 promotes the recovery of amyloid-β phagocytosis by Alzheimer's disease macrophages' Journal of Alzheimer's Disease 2012: 51-62

OMOCISTEINA - scopriamo questo aminoacido



L'omocisteina è un aminoacido solforato che si forma in seguito a perdita di un gruppo metilico da parte della metionina, aminoacido essenziale, che deve essere introdotto con la dieta.
L'omocisteina viene oggi considerata come uno dei più importanti fattori di rischio cardiovascolare.
Un alto tasso di omocisteina aumenta difatti di tre volte il rischio di ictus o infarto cardiaco.
Un suo aumento è determinato dalla carenza di vitamine del gruppo B (soprattutto acido folico, ma anche vitamine B6 e Vitamina B12).
Per questo motivo la somministrazione di acido folico diventa indispensabile nelle persone ad alto rischio vascolare.
L'acido folico è molto abbondante: nelle foglie verde scure, nel lievito, nel germe di grano, nei fagioli.
In gravidanza può esistere un deficiente apporto di acido folico, ciò induce rischio di spina bifida e di palatoschisi nei neonati.
Esiste nell'alimentazione attuale una diffusa carenza vitaminica, e pertanto diventa sempre più utile assumere sette, otto pasti di frutta e verdura cruda al giorno.
Alla luce delle conoscenze attuali il trattamento dell 'iperomocisteinemia prevede la somministrazione di acido folico 0,5 mg al giorno, di vitamina B6, (50 mg al giorno) più vitamina B12 (1 mg / die).
Contenuto in metionina dei principali alimenti ( grammi di aminoacido per 16 grammi di azoto):
  • uva = 3,4
  • pesche = 3,8
  • albume di uovo = 3,5
  • latte di mucca = 2,9
  • pesce = 2,9
  • manzo = 2,7
  • pollo = 2,4
  • crostacei =2,9
broccoli contengono sostanze in grado di contrastare l'omocisteina.
Sembra inoltre che la birra contrasti la formazione di omocisteina, per l'alto contenuto di vitamina B6.
Una pinta di birra al giorno ci protegge da attacchi al cuore ben più di un bicchiere di vino rosso o di altri alcolici: lo afferma un team di ricercatori olandesi in uno studio pubblicato a Londra dalla rivista scientifica “Lancet".   Questo comunque non è un buon motivo per alzare troppo il gomito! E' sempre meglio optare per la moderazione.

21 agosto 2012

N-Acetilcistina terclatrata (c-NAC): nuova fonte per rigenerare il glutatione, il più potente antiossidante fisiologico a cura del dott. M. Radaelli (Saint George University, Milano-Darfo Boario)


Glutatione


Sappiamo da tempo che il Glutatione può proteggere  l'organismo dalla esposizione a radiazioni ionizzanti, oltre che dagli effetti nocivi legati alla assunzione di  metalli pesanti.
Il glutatione è un tripeptide, costituito da  acido glutammico, cisteina e glicina: la sua composizione chimica conferisce elevata capacità ossidoriduttiva
Il glutatione entra nella composizione di un gruppo di enzimi ad azione antiossidante (glutatione perossidasi): questi enzimi  catalizzano la neutralizzazione del perossido di idrogeno (potente radicale libero) e di altri perossidi.

Glutatione ridotto (2 G-SH) + Perossido di idrogeno (H2O2) → Glutatione ossidato (G-S-S-G) + 2 H2O

2 G-SH + ROOH ----> GSSG + ROH +  H2O

In pratica  il glutatione ridotto cede il suo idrogeno (H+), che funge da accettore di elettroni proveniente da molecole reattive dell'ossigeno (radicali liberi).
Svolta la sua funzione il glutatione ossidato, per riacquistare la propria attività, deve tornare nella forma ridotta, per azione di  un enzima NADPH dipendente (glutatione redattasi): per questa capacità di rigenerarsi il glutatione è considerato il più potente antiossidante fisiologico.

Il rapporto “fisiologico” fra glutatione ridotto e glutatione ossidato è  intorno a 9:1; una diminuzione è indice di stress ossidativo.
Il  glutatione è particolarmente concentrato nel fegato, dove protegge gli epatociti da molecole tossiche di origine esogena: in questo caso, il glutatione, una volta espletata la propria attività detossificante non può rigenerarsi completamente essendo in parte eliminato, principalmente per via biliare: una eccessiva concentrazione di sostanze tossiche può quindi “depletare” i livelli di glutatione, con grave danno epatico e perdita dei suoi effetti protettivi sistemici.



Fonti di glutatione

Gli integratori di glutatione si sono rivelati assolutamente inattivi in quanto non assorbiti a livello intestinale, mentre la concentrazione di glutatione nell'organismo aumenta efficacemente dopo  somministrazione orale di uno dei suoi precursori, l'amminoacido solforato cisteina, la cui principale fonte in commercio è rappresentata dalla N-Acetil-Cisteina (NAC).

La NAC rientra nella composizione di noti farmaci mucolitici ed è proposta anche quale integratore alimentare: abbiamo oggi a disposizione la forma terclatrata della NAC (c-NAC), che presenta il vantaggio di proteggere la NAC dall’ossidazione, migliorarne l’aspetto organolettico con un effetto “taste-masking”  e che è somministrabile a dosi largamente inferiori, a parità di efficacia, ovviando così a frequenti effetti collaterali indesiderati (gastralgie) e all’inconveniente del meteorismo sulfureo, tipico durante assunzione orale di amminoacidi solforati

(la terclatrazione è una piattaforma tecnologica, frutto della Ricerca italiana, che consente di ottimizzare la biodisponibilità di principi attivi attraverso una attivazione meccano-chimica allo stato solido. Il prodotto  che ne deriva  contiene almeno tre tipologie di componenti: il principio attivo, NAC, nel caso della c-NAC, un carrier (ciclodestrina), biocatalizzatori  facilitanti l’inclusione dell’attivo nel carrier.).

Il suggerimento è la sistematica assunzione di prodotti a base di c-NAC nei soggetti esposti a maggior rischio ambientale (radiazioni) o in cui sia comunque  importante un corretto approccio antiossidante,


16 agosto 2012

Dallo Zafferano un aiuto alla depressione



depressioneIn Italia almeno 1,5 milioni di persone soffrono di depressione, mentre il 10% della popolazione italiana, cioè circa 6 milioni di persone, hanno sofferto almeno una volta, nel corso della loro vita, di un episodio depressivo.

Secondo le previsioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, nell’anno 2020 la depressione sarà la seconda malattia più diffusa, dopo le malattie cardiovascolari, in tutto il mondo, Italia compresa. Le sindromi depressive colpiscono soprattutto la popolazione anziana (over 65) e il numero di anziani sofferenti di depressione è destinato a salire per il progressivo invecchiamento della popolazione. Per quanto riguarda la diffusione in rapporto al sesso, le donne, soprattutto nella fascia di età compresa tra i 40 e i 50 anni, sono colpite in misura doppia rispetto agli uomini. Le statistiche dicono che se una persona ha avuto un episodio depressivo, ha il 50% di probabilità di averne un altro nell’arco della sua vita. Questo significa che metà delle persone che hanno avuto un episodio depressivo, una volta guariti, poi stanno bene per sempre. Se l’individuo ha avuto due episodi depressivi, la probabilità che ne abbia un terzo sale al 75%. Questa percentuale raggiunge il 90% se la persona ha avuto tre episodi depressivi. Quando gli episodi depressivi diventano quattro o cinque o di più è praticamente sicuro che si avranno altri episodi. Le ricadute hanno un andamento prevalentemente stagionale e sono statisticamente più frequenti nei mesi di marzo–aprile e ottobre–novembre.

A causa dei molti pregiudizi presenti nei confronti del disturbo depressivo, solo il 25% dei pazienti (cioè uno su quattro) consulta lo specialista cui compete la cura, cioè lo psichiatra. Eppure nella maggior parte dei casi le fasi acute del disturbo, con un’adeguata terapia, regrediscono nel giro di 4–6 settimane. Dopo la nascita di un bambino può capitare che la donna si senta triste senza motivo, irritabile, incline al pianto, “inadeguata” nei confronti dei nuovi ed impegnativi compiti che la attendono. Nella maggior parte dei casi tale stato d’animo è del tutto fisiologico e nel giro di pochi giorni questi sentimenti negativi passano. Si parla in questi casi di “baby blues” (depressione post–partum) e si stima che circa il 70–80% delle donne ne soffra. In più del 90% dei casi i pazienti depressi, soprattutto anziani, presentano sintomi somatici: mal di schiena, mal di testa, dolori, sintomi gastroenterici. Nel 50% dei casi i sintomi della serie depressiva sono presenti assieme a quelli della serie ansiosa. Poterli affrontare entrambi con il supporto di un rimedio naturale può essere di aiuto.

03 agosto 2012

ALIMENTARSI CON FAME INIZIALE - VIVI TE STESSO, NON FARTI CONDIZIONARE (ALIMENTAZIONE OMEOSTATICA) di Mario Ciampolini e Lorenzo Ciampolini

L'essere umano si adatta, il più delle volte a spese delle difese. Mangia per non sentire la fame, seguita a stare perfettamente bene ma aumentano i rischi. L’attuale numero di malattie, leucemie, allergie, tumori ed infarti c'è sempre stato, ma non è una maledizione genetica. Può esser evitato diminuendo la resistenza all’insulina e le sue conseguenze: stato pro-infiammatorio, grandi rischi e deterioramenti. La resistenza all’insulina dipende dall’alimentarsi, che è abituale. Abbiamo studiato la glicemia cioè il nutrimento disponibile per le cellule corporee, prima dei tre pasti con diario di 7 giorni in 120 adulti. In 7 giorni, l’intervallo medio di confidenza era ± 3.8 mg/dL attorno alla glicemia media della settimana. La variazione della media dopo 5 mesi era 0 mg/dL, e tenendo conto delle variazioni assolute (aumenti e diminuzioni) la variazione delle medie setimanali era 6.0 ± 4.6 mg/dL in 31 soggetti di controllo dopo 5 mesi. Dai 60 mg/dL ai 115 mg/dL, I soggetti erano stratificati per la loro media glicemica settimanale in 8 – 10 livelli di abitudine alimentare (la media glicemica settimanale è la provvisione media di nutrimento alle proprie cellule), e ogni livello era significativamente diverso dagli altri. Coloro che tenevano una media glicemica elevata potevano stare bene o aver vari disturbi, ma avevano tutti resistenza all’insulina (più rischi e deterioramenti) rispetto ai soggetti che avevano un media glicemica bassa. Il 70% - 80% della popolazione ha livelli glicemici elevati.
Possono stare bene, ma le persone con livelli pre-prandiali più alti sono sfortunati: hanno uno stato di resistenza all’insulina e il conseguente stato d’infiammazione subclinica diffusa (allergie, ecc.); hanno più rischi, deterioramenti e dolori. I più sfortunati per la scelta alimentare che hanno inconsapevolmente fatto, possono apprendere le abitudini di quei pochi (20% - 30%) più sani. Questo volume insegna a riconoscere le sensazioni individuali di fame iniziale (Cap. VI e VII) misurando la glicemia per imparare a indovinarla.
Richiede abilità e pazienza per imparare in una o due settimane, non occorrono assolutamente sacrifici, il pasto deve precedere la sofferenza. Alimentarsi con fame iniziale (AFI) è sufficiente per vivere bene durante la giornata e mantenere costante un peso che non è eccessivo, ma ideale per ogni funzione, anche per l’attrazione dell’altro sesso. Può essere scelta per tutta la vita per appareggiarsi a coloro che vivono meglio, più a lungo, senza deterioramenti, senza rischi. 

CLA modula la risposta immunitaria in soggetti con il morbo di Chron



L'acido linoleico coniugato (CLA) è un isomero dell'acido linoleico, un acido grasso polinsaturo della serie omega 6. Il CLA è presente in natura nei tessuti animali e nei cibi e diversi studi hanno testato i suoi effetti di miglioramento della composizione corporea. Il CLA è infatti utile nella riduzione della massa grassa poiché contrasta l'accumulo di trigliceridi da parte degli adipociti.
Il CLA ha dimostrato inoltre di modulare la risposta immunitaria e di contrastare l'infiammazione in modelli animali di colite. Un recente studio ha valutato l'attività immunomodulatoria del CLA nell'uomo, in particolare in soggetti con disturbo di Chron lieve o moderato.
Lo studio ha coinvolto 13 soggetti con morbo di Chron lieve o moderato che hanno ricevuto CLA ad alto dosaggio per 12 settimane. Sono state isolate le cellule mononucleate circolanti all'inizio dello studio e dopo 6 e 12 settimane per valutare la proliferazione linfocitaria e la produzione di citochine.
L'integrazione con CLA ha dimostrato di ridurre significativamente la capacità dei sottoinsiemi CD4+ e CD8+ dei linfociti T di produrre IFN-γ, TNF-α ed IL-17 (marker di infiammazione) e la proliferazione linfocitaria dopo 12 settimane.
L'integrazione con CLA risulta ben tollerata e riduce la capacità delle cellule T periferiche di produrre citochine pro-infiammatoriecontrasta il disturbo infiammatorio e migliora la qualità della vita in soggetti con morbo di Chron.

Bibliografia: Bassaganya-Riera J et al. 'Conjugated linoleic acid modulates immune responses in patients with mild to moderately active Crohn's disease' Clin Nutr 2012

31 luglio 2012

Malattie Autoimmuni - Articolo scritto dal dott Mainardi Paolo - ricercatore presso Università degli Studi di Genova



Subito dopo la loro scoperta, circa un secolo fa, le patologie autoimmuni sono state studiate sulla base di diverse teorie incentrate sulla produzione di autoanticorpi. Cioè di anticorpi che, per motivi diversi, il corpo umano sarebbe capace di produrre contro se stesso.  Anni di ricerche in tal senso non hanno prodotto terapie vincenti per queste devastanti patologie, pertanto sono necessari nuovi approcci, nuove idee.
Recentemente per le patologie autoimmuni è stato preso in considerazione il ruolo dell’intestino[1]. Infatti, in queste patologie autoimmuni è riportata un’elevata permeabilità intestinale. Un intestino troppo permeabile lascia passare grosse frazioni peptidiche prima che queste siano ridotte a piccoli peptidi. Contro questi grandi peptidi si scatenerà una risposta anticorpale, che dipende unicamente dalle dimensioni delle molecole che entrano nel torrente circolatorio.
Questi grandi peptidi potranno accumularsi presso sequenze amminoacidiche delle proteine tissutali a loro simili (simile cerca simile), ma in questo modo, portandosi dietro  gli anticorpi questi si attiveranno questi attaccheranno anche le sequenze amminoacidiche delle proteine tissutali simili, in quanto la tollerabilità degli anticorpi non è in grado di distinguere la sequenza ammino acidica del peptone “clandestino”da quella della proteina tissutale.
In pratica la risposta immunitaria non è impazzita, ma attacca, giustamente, le proteine tissutali che hanno sequenze amminoacidiche simili a quelle delle grosse frazioni proteiche (peptidiche) “clandestine” che la hanno attivata.
Studi recenti confermano la presenza di elevata permeabilità intestinale nelle patologie autoimmuni, oggi misurabile in modo preciso grazie alla determinazione plasmatica di una proteina, lo Zonulin, che è stata vista controllare la permeabilità intestinale.
Elevati livelli di questa proteina corrispondono ad elevata permeabilità[2].
Oggi si è appreso che la permeabilità intestinale non è un fattore statico, ma dinamico, modulabile in base a stimolazioni, nell’arco di ore.
ELEVATI LIVELLI DI ZONULIN SONO STATI RIPORTATI NELLE PATOLOGIE AUTOIMMUNI, confermando l’elevata permeabilità.
L’alfa-lattoalbumina, sieroproteina del latte ha il compito di ridurre la permeabilità intestinale, che è massima al momento della nascita: nel colostro umano rappresenta il 40% delle proteine totali.
Altrimenti intere proteine possono attraversare la membrana intestinale.
In 6-7 giorni di allattamento la permeabilità viene ridotta e vengono attivati i processi difensivi intestinali e quelli assorbitivi.
Ridurre la permeabilità intestinale impedisce l’ingresso nel torrente circolatorio dei grossi peptidi responsabili della risposta anticorpale che attaccano le proteine tissutali, dando origine alle patologie autoimmuni.  In questo modo si ferma il problema dalla sua origine.
[1] Fasano A, Shea-Donohue T. Mechanisms of disease: the role of intestinal barrier function in the pathogenesis of gastrointestinal autoimmune diseases. Nat Clin Pract Gastroenterol Hepatol. 2005 Sep;2(9):416-22
[2] Wang W, Uzzau S, Goldblum SE, Fasano A. Human zonulin, a potential modulator of intestinal tight junctions. J Cell Sci. 2000 Dec;113 Pt 24:4435-40.