Mi occupo di Nutrizione per patologie accertate, Lipedema, Policistosi Ovarica, Intolleranze Alimentari, Disbiosi, Dieta Chetogenica su misura. Ricevo a Messina e Catania. In queste pagine offro consigli nutrizionali, ricette per tutti coloro che si interessano di Dieta, Nutrizione e Salute. Sono disponibile a consulenze online. Questo blog è collegato alla pagina Facebook Camice&Mestoli ed Instagram Bionutrizionistacacciola
08 giugno 2015
06 giugno 2015
Pasta di fagioli: buona e leggera
Esiste una pasta senza glutine
che non scuoce e non fa ingrassare. Stiamo parlando di un nuovo prodotto alimentare proveniente dai laboratori dell´Università Cattolica di Piacenza. Questa ricetta è a base di farina di fagiolo dal basso indice glicemico. Perfetta per i celiaci e per chi teme l’aumento di peso e l´incidenza di malattie metaboliche causati dal consumo di alimenti "gluten free".
"I risultati ottenuti sono molto promettenti" ha dichiarato Francesco Masoero, direttore dell´Istituto di Scienze degli alimenti e della nutrizione, che ha aggiunto: "i dati mostrano come l´inclusione di farina di fagiolo possa ridurre notevolmente l´indice glicemico della pasta, senza però modificare le principali caratteristiche tecnologiche del prodotto".
"I risultati ottenuti sono molto promettenti" ha dichiarato Francesco Masoero, direttore dell´Istituto di Scienze degli alimenti e della nutrizione, che ha aggiunto: "i dati mostrano come l´inclusione di farina di fagiolo possa ridurre notevolmente l´indice glicemico della pasta, senza però modificare le principali caratteristiche tecnologiche del prodotto".
Per ricreare questa farina di fagioli, i ricercatori hanno utilizzato tra gli ingredienti una farina ricavata da diverse varietà di fagiolo, ottenendo in via sperimentale una pasta che resiste di più alla cottura e dal gusto e dal profumo eccellenti. Ecco quanto dichiarato da Gianluca Giuberti, coordinatore del progetto di ricerca: "Sarà quello di valutare definitivamente l´efficacia dimagrante di questi prodotti su persone affette da celiachia".
27 maggio 2015
Neuropatie: e se fosse colpa della celiachia?
L’ipotesi arriva da uno studio condotto su quasi trentamila
svedesi. Le malattie avrebbero alcuni meccanismi immunologici comuni, primi sintomi, nella maggior parte dei casi,
restano confinati all’intestino e comprendono il gonfiore addominale e la
dissenteria. Ma le conseguenze a lungo termine della celiachia, una malattia
autoimmune che si manifesta in persone predisposte dopo l’ingestione di
glutine, possono estendersi oltre l’apparato digerente e giungere al sistema
nervoso periferico. A suffragare l’ipotesi è uno studio pubblicato su Jama
Neurology.
Celiachia e
fegato: quale relazione?
LA RICERCA - I ricercatori (Università di Orebro, Columbia
University e Karolinska Institutet) lo hanno realizzato raccogliendo da 28
reparti di patologia generale della Svezia, tra il 2006 e il 2008, i dati
relativi alle biopsie intestinali dei celiaci. Oltre ventottomila i pazienti
arruolati, le cui condizioni neurologiche sono state messe a confronto con
quelle di 139mila individui inseriti nel gruppo di controllo. Dall’indagine è
emerso che 198 celiaci avevano sviluppato nel tempo una neuropatia periferica
(lo 0,7%): una percentuale più bassa rispetto a quella riscontrata tra le
persone sane (0,3%). Il rischio assoluto che un celiaco sviluppasse deficit
sensitivi, motori o vegetativi corrispondeva a 64 individui su centomila,
rispetto ai 15 (sempre su centomila) soggetti sani potenzialmente esposti alla
malattia nell’arco di un anno. La probabilità era dunque più alta di 2,5 volte
tra i celiaci. Tre le forme di neuropatia più spesso riscontrate tra i celiaci:
la forma demielinizzante infiammatoria cronica, la neuropatia autonomica e la
mononeurite multipla.
Celiachia, l’unica
“terapia” è la dieta senza glutine
DALL’INTESTINO AL…SISTEMA NERVOSO - La ricerca ha aggiunto
un tassello al puzzle della malattia, di cui in Italia soffrono almeno 164mila
persone, stando ai dati inseriti nella relazione annuale sulla celiachia
presentata al Parlamento. Non è però la prima volta che il disturbo viene
riscontrato più di frequente in chi soffre di una neuropatia periferica.
L’evidenza era già stata documentata nel 2012, in uno studio pubblicato sul Journal
of Clinical Neuromuscular Disease. «In effetti diverse ricerche condotte su
cadaveri hanno rilevato la presenza di infiltrato linfocitario in pazienti
celiaci che avevano una neuropatia cronica o un’atassia cerebellare - afferma
Angelo Quattrini, responsabile dell’unità di neuropatologia sperimentale
dell’ospedale San Raffaele di Milano -. Alla base della celiachia e di alcuni
disturbi del sistema nervoso potrebbe esserci un’origine autoimmune comune».
L’associazione sarebbe bidirezionale. In un’analisi separata, infatti, i
ricercatori hanno notato che i pazienti con neuropatia hanno un rischio più
alto di andare incontro alla celiachia. Un’evidenza che, secondo Jonas
Ludvigsson, docente di epidemiologia clinica al Karolinska Institutet di Solna,
«dovrebbe tornare utile ai neurologi, quando si trovano di fronte a un paziente
con una neuropatia senza un’origine - infettiva, infiammatoria o metabolica: la
neuropatia rimane una delle più gravi complicanze del diabete - definita. In
questi casi occorrerebbe procedere allo screening per la celiachia: chi
risultasse positivo, potrebbe veder migliorare la propria condizione seguendo
una dieta senza glutine».
La sensibilità al
glutine non è la celiachia: di cosa si tratta?
LE ALTRE “FACCE” DELLA CELIACHIA - Se ne parla ancora troppo
di rado, ma lo spettro delle manifestazioni cliniche della celiachia è
eterogeneo. La malattia, che si manifesta dopo l’ingestione di glutine, risulta
collegata a un aumento delle diagnosi di altre condizioni autoimmuni: come il
diabete di tipo I, la tiroidite di Hashimoto, il lupus eritematoso sistemico,
la psoriasi e le forme di epatite autoimmune. Tra i celiaci risultano più
frequenti anche le fratture e le diagnosi di osteoporosi, oltre ai disturbi
legati alla sfera riproduttiva della donna.
Fabio Di Todaro
@fabioditodaro
16 maggio 2015
La nutrizione come potenziale strumento terapeutico nella fibromialgia
Rossi A, Di Lollo AC, Guzzo MP, Giacomelli C, Atzeni F, Bazzichi L, Di Franco M. Fibromyalgia and nutrition: what news? Clin Exp Rheumatol. 2015 Mar-Apr;33 Suppl 88(1):117-125.
Silvia Ambrogio
13 maggio 2015
Rischio di diabete di tipo 2 da ripetuti cicli di antibiotici per alterazioni del microbiota intestinale
L'esposizione ripetuta ad alcuni gruppi di antibiotici può aumentare il rischio di sviluppare diabete di tipo 2.
Lo riporta un ampio studio da poco apparso sullo "European Journal of Endocrinology".
L'idea di fondo è che gli antibiotici, di cui nei Paesi occidentali si fa largo impiego, possono alterare la flora batterica intestinale (oggi più frequentemente definita come "microbiota") che, sia in modelli animali sia nell'uomo, influenza vie metaboliche importanti nella patogenesi di obesità, insulino-resistenza e diabete. In base a queste premesse, gli autori della ricerca hanno voluto verificare se il fatto di essere stati esposti in passato ad antibiotici potesse determinare un rischio maggiore di sviluppo di diabete.
Utilizzando un ampio database relativo alla popolazione del Regno Unito, sono stati identificati i pazienti con diagnosi di diabete e, per ogni caso, quattro controlli di pari età e genere, trattati nello stesso centro e con un follow-up di durata sovrapponibile.
In totale lo studio ha riguardato oltre un milione di persone: 208.002 soggetti diabetici e 815.576 controlli. Le analisi effettuate dagli studiosi hanno rivelato che l'esposizione a un solo ciclo di antibiotici non risulta associata a un aumento del rischio di diabete, mentre coloro ai quali erano stati prescritti da due a cinque cicli di antibiotici - quattro tipi, in particolare: penicilline, cefalosporine, chinolonici e macrolidi - mostravano una maggiore probabilità di sviluppare diabete di tipo 2, con un rischio proporzionale al numero di antibiotici prescritti.
Nel calcolo del rischio, gli autori hanno aggiustato i dati tenendo conto degli altri fattori di rischio per diabete, come obesità, fumo, presenza di coronaropatia e infezioni. È stato così determinato che 2-5 cicli di penicillina sarebbero associati a un aumento del rischio di diabete dell'8% (odds ratio, Or, aggiustato: 1,08; 95% CI: 1,05-1,11), mentre in caso di oltre 5 cicli il rischio risulterebbe aumentato del 23%. Per quanto concerne i chinolonici, con 2-5 cicli l'aumento del rischio di diabete sarebbe del 15% (Or: 1,15; 95% CI: 1,08-1,23) e, con oltre 5, si salirebbe al 37%. Non è stata trovata, invece, alcuna associazione tra il rischio di sviluppare diabete ed esposizione ad antivirali e antifungini.
In conclusione, anche se lo studio non dimostra una relazione causa-effetto, la modificazione numerica e qualitativa del microbiota intestinale determinata da agenti antimicrobici potrebbe spiegare il rapporto osservato tra utilizzo di antibiotici e rischio di diabete, inducendo a tenere in maggiore considerazione tale legame.
08 maggio 2015
I test nutrigenetici, un valido aiuto per dieta e salute
Una nutrizione mirata e precisa, grazie alla conoscenza della diversità genotipica di ciascun individuo, sta diventando sempre più importante nella prevenzione di un vasto numero di patologie e ha permesso lo sviluppo di nuove terapie sperimentali coadiuvanti la cura e il miglioramento di malattie complesse: malattie metaboliche, neurodegenerative, neoplastiche, cardiovascolari, danni da stress ossidativo. La conoscenza e la corretta interpretazione di variazioni genetiche in geni-chiave del metabolismo di determinati nutrienti ci permette di avere un'arma in più nella difesa dagli effetti negativi dei fattori ambientali sulla nostra salute. Allo stesso tempo ci permette di scegliere un'alimentazione e uno stile di vita più compatibilicon il nostro materiale genetico.
Ciò che determina la qualità del test nutrigenetico sono le basi scientifiche, derivanti da studi pubblicati su riviste internazionali, attraverso cui vengono selezionati i geni e le rispettive varianti da analizzare. L'affidabilità di un test si valuta dalla trasparenza dell'informazione genetica, ovvero dalla presenza nel referto di un'elenco dettagliato dei geni, delle varianti analizzate e da appropriati riferimenti bibliografici, che dimostrino le basi scientifiche del servizio offerto.
Un test nutrigenetico valido non deve e non può fornire una diagnosi, né una prognosi della malattia, ma si deve focalizzare sui "fattori di rischio" intermedi come i livelli di omocisteina, colesterolo Ldl, ipertensione ecc. Lo scopo ultimo è quello di fornire indicazioni e linee guida sui valori ottimali di nutrienti essenziali da introdurre nella dieta per mantenere uno stato di salute ottimale. Attualmente esistono test che valutano circa 27 geni e relativi polimorfismi genetici che esercitano un importante ruolo nei processi di detossificazione, nel processo infiammatorio, nell'attività antiossidante, nella sensibilità all'insulina, nello stato di salute del cuore e delle ossa. In base ai risultati è fornita una tabella nutrizionale personalizzata, con le quantità giornaliere raccomandate di nutrienti e minerali e indicazioni dietetiche su come mettere in pratica queste informazioni con l'aiuto di un professionista del settore.
Un test nutrigenetico valido non deve e non può fornire una diagnosi, né una prognosi della malattia, ma si deve focalizzare sui "fattori di rischio" intermedi come i livelli di omocisteina, colesterolo Ldl, ipertensione ecc. Lo scopo ultimo è quello di fornire indicazioni e linee guida sui valori ottimali di nutrienti essenziali da introdurre nella dieta per mantenere uno stato di salute ottimale. Attualmente esistono test che valutano circa 27 geni e relativi polimorfismi genetici che esercitano un importante ruolo nei processi di detossificazione, nel processo infiammatorio, nell'attività antiossidante, nella sensibilità all'insulina, nello stato di salute del cuore e delle ossa. In base ai risultati è fornita una tabella nutrizionale personalizzata, con le quantità giornaliere raccomandate di nutrienti e minerali e indicazioni dietetiche su come mettere in pratica queste informazioni con l'aiuto di un professionista del settore.
Elena Giordano
07 maggio 2015
Un avocado al giorno toglie il colesterolo di torno
Mangiare un avocado al giorno come parte di una dieta cardiologicamente sana, ipocolesterolemizzante e a moderato contenuto di grassi può aiutare a ridurre i livelli di colesterolo “cattivo” nei soggetti obesi ed in sovrappeso. Questo dato deriva da una ricerca che ha valutato gli effetti dell’avocado sui fattori di rischio tradizionali ed innovativi mediante la sostituzione degli acidi grassi saturi presenti in una dieta media con acidi grassi insaturi degli avocado stessi. In base ai risultati dello studio, rispetto alla dieta americana media, la concentrazione dell’ LDL, o “colesterolo cattivo”, risulta notevolmente ridotta dopo il consumo di una dieta a moderato contenuto in grassi che includa l’avocado. Le LDL sono risultate ridotte anche con lo stesso tipo di dieta senza avocado, o con una dieta a basso contenuto in grassi, ma non nella stessa misura. Gli altri elementi che sono risultati favorevolmente influenzati dalla dieta con avocado rispetto alle altre due comprendono colesterolo totale, trigliceridi, colesterolo non-HDL ed altro ancora. Questi elementi sono tutti considerati fattori di rischio cardiometabolico in modi indipendenti dagli effetti cardiologici degli acidi grassi.
Negli USA come in Europa gli avocado non sono ancora un alimento molto diffuso e possono risultare costosi, soprattutto in alcuni periodi dell’anno, ed inoltre molte persone non sanno come incorporarli nelle proprie diete se non con il guacamole: il guacamole però viene tipicamente consumato con le tortillas, che contengono molte calorie e sodio. Gli avocado, comunque, possono essere mangiati anche in insalata, con verdure, nei tramezzini o con altri alimenti proteici magri come pollo o pesce, o anche da soli. Oltre ai MUFA, gli avocado possono anche fornire altre sostanze bioattive che hanno sicuramente contribuito ai risultati dello studio, come fibre, fitosteroli ed altro ancora. Molte diete cardiologicamente sane raccomandano la sostituzione degli acidi grassi saturi con MUFA o acidi grassi poliinsaturi per ridurre il rischio di cardiopatie; ciò dipende dal fatto che i grassi sature poissono aumentare i livelli di colesterolo “cattivo” ed aumentare quindi il rischio di malattie cardiovascolari. La dieta mediterranea prevede frutta, verdura, granaglie integrali, pesci grassi e cibi ricchi in MUFA, come l’olio di oliva extravergine e la frutta a guscio. Proprio come negli avocado, la ricerca indica che questi ultimi non soltanto contengono grasso migliori, ma anche alcuni micronutrienti ed alcune componenti bioattive che possono svolgere un ruolo importante nella riduzione delle malattie cardiovascolari.
(J Am Heart Assoc online 2015, pubblicato l’8/1)
Iscriviti a:
Post (Atom)