Da una riduzione del 10% dell'inattività fisica della popolazione mondiale si potrebbero verificare ogni anno oltre 533.000 decessi in meno e se si raggiungesse una diminuzione del 25% la cifra salirebbe a 1,3 milioni. È questo uno dei risultati emersi dallo studio "Effect of physical inactivity on major non-communicable diseases worldwide: an analysis of burden of disease and life expectancy" pubblicato dal Lancet a metà luglio. Obiettivo dell'indagine è stato di quantificare gli effetti della sedentarietà sull'aspettativa di vita e sul rischio di sviluppare patologie non trasmissibili - quali diabete di tipo 2, disturbi cardiovascolari, tumori al seno e al colon - attraverso una stima della riduzione dell'incidenza di tali problematiche nell'ipotesi di una corretta attività fisica da parte dei cittadini. A emergere è che stili di vita più pigri sono alla base del 10% dei casi di tumori al colon (con una variabilità regionale che va dal 5,7% del Sudest asiatico al 13,8% dell'area mediterranea) e al seno (con un range tra il 5,6% e il 14,1%), del 7% del diabete di tipo 2 (3,9-9,6%) e del 6% delle malattie cardiovascolari (3,2-7,8%). L'inattività fisica è additata poi come la responsabile del 9% della mortalità prematura (range 5,1-12,5%) e, in generale, di oltre 5,3 milioni di decessi dei 57 milioni totali che si sono registrati a livello mondiale nel 2008. In sostanza, con l'eliminazione dell'inattività fisica, l'aspettativa di vita della popolazione mondiale potrebbe aumentare, complessivamente, di 0,68 anni (ma il valore potrebbe essere maggiore se riferito alla sola fetta di popolazione che allo stato attuale risulta sedentaria). Un parametro, questo, che pone l'impatto dell'inattività fisica come fattore di rischio al pari di fumo e obesità.
Mi occupo di Nutrizione per patologie accertate, Lipedema, Policistosi Ovarica, Intolleranze Alimentari, Disbiosi, Dieta Chetogenica su misura. Ricevo a Messina e Catania. In queste pagine offro consigli nutrizionali, ricette per tutti coloro che si interessano di Dieta, Nutrizione e Salute. Sono disponibile a consulenze online. Questo blog è collegato alla pagina Facebook Camice&Mestoli ed Instagram Bionutrizionistacacciola
26 settembre 2012
DIABETE: calano i decessi se aumenta l'attività fisica
Da una riduzione del 10% dell'inattività fisica della popolazione mondiale si potrebbero verificare ogni anno oltre 533.000 decessi in meno e se si raggiungesse una diminuzione del 25% la cifra salirebbe a 1,3 milioni. È questo uno dei risultati emersi dallo studio "Effect of physical inactivity on major non-communicable diseases worldwide: an analysis of burden of disease and life expectancy" pubblicato dal Lancet a metà luglio. Obiettivo dell'indagine è stato di quantificare gli effetti della sedentarietà sull'aspettativa di vita e sul rischio di sviluppare patologie non trasmissibili - quali diabete di tipo 2, disturbi cardiovascolari, tumori al seno e al colon - attraverso una stima della riduzione dell'incidenza di tali problematiche nell'ipotesi di una corretta attività fisica da parte dei cittadini. A emergere è che stili di vita più pigri sono alla base del 10% dei casi di tumori al colon (con una variabilità regionale che va dal 5,7% del Sudest asiatico al 13,8% dell'area mediterranea) e al seno (con un range tra il 5,6% e il 14,1%), del 7% del diabete di tipo 2 (3,9-9,6%) e del 6% delle malattie cardiovascolari (3,2-7,8%). L'inattività fisica è additata poi come la responsabile del 9% della mortalità prematura (range 5,1-12,5%) e, in generale, di oltre 5,3 milioni di decessi dei 57 milioni totali che si sono registrati a livello mondiale nel 2008. In sostanza, con l'eliminazione dell'inattività fisica, l'aspettativa di vita della popolazione mondiale potrebbe aumentare, complessivamente, di 0,68 anni (ma il valore potrebbe essere maggiore se riferito alla sola fetta di popolazione che allo stato attuale risulta sedentaria). Un parametro, questo, che pone l'impatto dell'inattività fisica come fattore di rischio al pari di fumo e obesità.
17 settembre 2012
La sindrome dell’ovaio policistico: un problema di molte donne
Post di Laura Pentassuglia, ricercatrice in cardioncologia
al Departement Biomedizin, CardioBiology, Physiology Institute dell’università di Basilea
al Departement Biomedizin, CardioBiology, Physiology Institute dell’università di Basilea
La sindrome dell’ovaio policisticoè problema che riguarda circa il 10% della popolazione femminile delle zone industrializzate, ed è un problema che mi riguarda da vicino. La diagnosi fu fatta quasi 20 anni fa, ma è stato solo di recente che mi sono resa conto del suo reale significato e di che cosa implica. La prima cosa che mi ha sorpreso quando ho iniziato a cercare informazioni su questa sindrome è stato apprendere che l’ovaio policistico ha radici comuni con ildiabete, e per questo motivo viene, di fatto, considerata una disfunzione ormonale. La seconda cosa è che viene considerata una problematica prettamente femminile. In realtà colpisce anche gli uomini, anche se in questo caso la diagnosi diventa più difficile e i sintomi si presentano in maniera diversa rispetto alle donne. Ma andiamo per gradi. Innanzitutto che cosa è la sindrome dell’ovaio policistico?
Nella maggioranza dei casi questa malattia è causata dal fatto che il nostro corpo non risponde normalmente all’insulina, condizione che è comunemente chiamata resistenza. La funzione principale dell’insulina è di regolare il metabolismo energetico, ovvero come il nostro corpo utilizza zuccheri e grassi. L’insulina favorisce l’utilizzo e l’accumulo degli zuccheri e allo stesso tempo inibisce l’utilizzo dei grassi come fonte di energia. Ma questo non è tutto, l’insulina ha anche un ruolo chiave nel regolare la crescita post-parto, è essenziale per il funzionamento ottimale di ormoni e proteine, e nelle ovaie stimola la proliferazione cellulare. La resistenza all’insulina può insorgere per diversi motivi, ma il risultato finale è lo stesso: un aumento nella produzione dell’insulina stessa.
Quest’aumento va a influenzare diversi organi fra cui anche le ovaie. In che maniera questo eccesso d’insulina è legato all’ovaio policistico? L’insulina è in grado di stimolare la produzione sia del testosterone sia degli estrogeni, e più alta è l’insulina, maggiore sarà la quantità di ormoni sessuali prodotti. In condizioni normali il testosterone è convertito in estrogeno, e solo una minima parte è presente nel flusso sanguigno. Nell’ovaio policistico la produzione di testosterone è talmente alta che una buona parte non subisce questo processo portando a concentrazioni tipicamente maschili anche nella donna. Da questo momento in poi diventa un circolo vizioso, dato che l’aumento del testosterone stimola la ghiandola pituitaria alla produzione di un altro ormone luteinizzante, che a sua volta stimola la produzione ormonale nelle ovaie. Come se non bastasse, l’insulina non solo porta direttamente ed indirettamente ad un aumento della quantità del testosterone circolante, ma anche nella sua disponibilità. Molte proteine che circolano nel sangue vengono “sequestrate” e quindi rese inattive fino al loro utilizzo. L’aumento d’insulina riduce in maniera significativa anche questo processo.
Quali sono quindi i sintomi dell’ovaio policistico? I sintomi sono diversi e non è necessario che si presentino nello stesso momento. Quelli più evidenti sono la mancanza di un ciclo regolare e sterilità, irsutismo, in altre parole una distribuzione della peluria simile a quella maschile e sovrappeso. In quest’ultimo caso è importante notare qual è la distribuzione del grasso, infatti, nella sindrome dell’ovaio policistico, il grasso tende ad accumularsi nella zona addominale, in maniera del tutto simile agli uomini. Altri sintomi possono essere la presenza diacne, il sentirsi spesso stanchi senza nessun apparente motivo, bassa concentrazione degli zuccheri dopo i pasti caratterizzata da improvvisa sonnolenza e/o vertigini. In casi di severa resistenza all’insulina si possono anche presentare delle macchie nell’incavo delle braccia. Bisogna anche ricordare che questa sindrome é spesso ereditaria, in particolare in quelle famiglie con casi di diabete di tipo 2. In ogni caso, è sempre consigliabile far riferimento a un ginecologo ed endocrinologo per una diagnosi accurata tramite un’ecografia ed analisi del sangue.
Come si affronta questa sindrome? Il primo e più importante passo da fare è di consultare il proprio medico. Ogni donna, ogni paziente, ha le proprie esigenze e motivi diversi per porre fine al circolo vizioso innescato da questa sindrome. Nel mio caso specifico ho voluto fare un lavoro preventivo, poiché a lungo termine chi ha l’ovaio policistico ha una maggiore possibilità di sviluppare malattie cardiocircolatorie. Nel mio caso l’approccio è diverso rispetto a una donna che vuole avere un figlio. In ogni caso un primo importante passo è di cambiare il proprio stile di vita: una dieta sana, equilibrata, a basso indice glicemico, accostata ad attività fisica saranno sempre il primo importante rimedio a questa e molte altre patologie.
09 settembre 2012
04 settembre 2012
Meccanismo epigenetico della vitamina D contro l'infiammazione
Si stima che oltre il 50% della popolazione europea abbia una carenza di vitamina D. La carenza di vitamina D, oltre ad aumentare il rischio di insorgenza di alcuni disturbi come ad esempio l'osteoporosi, è correlata a numerosi disturbi infiammatori tuttavia non era stato fino ad oggi chiarito il meccanismo d'azione attraverso il quale la vitamina D contrastasse l'infiammazione. Zhang Y et al. hanno studiato gli effetti inibitori della vitamina D sulla risposta infiammatoria stimolata dal lipopolisaccaride LPS sui monociti circolanti e hanno indagato il potenziale meccanismo d'azione della vitamina D.
E' stato osservato che due forme di vitamina D (1,25(OH)2D3 e 25(OH)D3 ) in misura dose dipendente hanno inibito la fosforilazione della p38 (una chinasi citosolica del monocita che può attivare specifici fattori di trascrizione) indotta dal LPS a concentrazioni fisiologiche e hanno inibito la produzione di IL-6 e TNF-α da parte dei monociti. In seguito al trattamento con vitamina D è risultata significativamente sovra-regolata l'espressione della fosfatasiMAPK-1 in monociti umani e in macrofagi midollari del topo. Erano già dimostrati l'incremento del legame della vitamina D al recettore e l'aumento dell'acetilazione dell'istone H4 all'elemento di risposta alla vitamina D dei promotori MPK-1 (l'acetilazione degli istoni e la metilazione del DNA sono possibili meccanismi provocante effetti epigenetici*).
Questo studio ha ora identificato la sovra-regolazione della MKP-1 da parte della vitamina D come nuova via attraverso la quale la vitamina D inibisce la produzione di citochine ed inibisce l'attivazione della p38 indotta dal Lipopolisaccaride LPS nei monociti e nei macrofagi.
* L'epigenetica studia i meccanismi molecolari mediante i quali l'ambiente altera il grado di espressione dei geni senza tuttavia modificare l'informazione contenuta, ossia senza modificare la sequenza del DNA.
Bibliografia: Zhang Y. et al. 'Vitamin D inhibits monocyte/macrophage proinflammatory cytokine production by targeting MAPK Phosphatase-1' The Journal of Immunology 1012,188 (5): 2127-2135
31 agosto 2012
Vitamina D3 e Alzheimer
Un gruppo di ricercatori ha identificato il meccanismo intracellulare regolato dalla vitamina D3 che potrebbe aiutare il corpo a 'pulire' il cervello dal beta-amiloide, il principale componente delle placche associate al morbo di Alzheimer.
I risultati della ricerca, pubblicati nel Journal of Alzheimer's Disease, mostrano come la vitamina D3 possa attivare geni chiave e una rete di segnali cellulari che aiutano a stimolare il sistema immunitario a contrastare la proteina beta-amiloide. Questo studio evidenzia che la vitamina D, nei pazienti con morbo di Alzheimer, stimola i macrofagi a fagocitare il beta amiloide attraverso segnali genomici e non genomici. La clearance cerebrale del beta-amiloide ad opera dei macrofagi è necessaria per il mantenimento della normale funzionalità cerebrale. Questo processo di fagocitosi è carente in pazienti con morbo di Alzheimer.
Sono stati identificati due tipi di macrofagi nei pazienti con morbo di Alzheimer: macrofagi di tipo I e di tipo II. I ricercatori hanno evidenziato che la funzionalità dei macrofagi di tipo I può essere migliorata con vitamina D3 e curcuminoidi; i macrofagi di tipo II sono stati stimolati dalla sola vitamina D3. In particolare la vitamina D3 supporta la trascrizione di geni che codificano per il canale del cloro e del recettore della vitamina D3 nei macrofagi di tipo II. Il ripristino della fagocitosi del beta-amiloide nei macrofagi di tipo II ad opera della vitamina D3 è dipendente dal calcio e da un segnale che coinvolge una proteina chinasi attivata da mitogeni (MPAPK).
Bibliografia: Mizwicki MT et al. 'Genomic and nongenomic signaling induced by 1α,25(OH)2-Vitamin D3 promotes the recovery of amyloid-β phagocytosis by Alzheimer's disease macrophages' Journal of Alzheimer's Disease 2012: 51-62
OMOCISTEINA - scopriamo questo aminoacido
L'omocisteina viene oggi considerata come uno dei più importanti fattori di rischio cardiovascolare.
Un alto tasso di omocisteina aumenta difatti di tre volte il rischio di ictus o infarto cardiaco.
Un suo aumento è determinato dalla carenza di vitamine del gruppo B (soprattutto acido folico, ma anche vitamine B6 e Vitamina B12).
Per questo motivo la somministrazione di acido folico diventa indispensabile nelle persone ad alto rischio vascolare.
L'acido folico è molto abbondante: nelle foglie verde scure, nel lievito, nel germe di grano, nei fagioli.
In gravidanza può esistere un deficiente apporto di acido folico, ciò induce rischio di spina bifida e di palatoschisi nei neonati.
Esiste nell'alimentazione attuale una diffusa carenza vitaminica, e pertanto diventa sempre più utile assumere sette, otto pasti di frutta e verdura cruda al giorno.
Alla luce delle conoscenze attuali il trattamento dell 'iperomocisteinemia prevede la somministrazione di acido folico 0,5 mg al giorno, di vitamina B6, (50 mg al giorno) più vitamina B12 (1 mg / die).
Contenuto in metionina dei principali alimenti ( grammi di aminoacido per 16 grammi di azoto):
- uva = 3,4
- pesche = 3,8
- albume di uovo = 3,5
- latte di mucca = 2,9
- pesce = 2,9
- manzo = 2,7
- pollo = 2,4
- crostacei =2,9
Sembra inoltre che la birra contrasti la formazione di omocisteina, per l'alto contenuto di vitamina B6.
Una pinta di birra al giorno ci protegge da attacchi al cuore ben più di un bicchiere di vino rosso o di altri alcolici: lo afferma un team di ricercatori olandesi in uno studio pubblicato a Londra dalla rivista scientifica “Lancet". Questo comunque non è un buon motivo per alzare troppo il gomito! E' sempre meglio optare per la moderazione.
21 agosto 2012
N-Acetilcistina terclatrata (c-NAC): nuova fonte per rigenerare il glutatione, il più potente antiossidante fisiologico a cura del dott. M. Radaelli (Saint George University, Milano-Darfo Boario)
Glutatione
Sappiamo da tempo che il Glutatione può
proteggere l'organismo dalla esposizione
a radiazioni ionizzanti, oltre che dagli effetti nocivi legati alla assunzione
di metalli pesanti.
Il glutatione è un tripeptide,
costituito da acido glutammico, cisteina
e glicina: la sua composizione chimica conferisce elevata capacità
ossidoriduttiva
Il glutatione entra nella composizione di un gruppo
di enzimi ad azione antiossidante (glutatione perossidasi):
questi enzimi catalizzano la neutralizzazione
del perossido di idrogeno (potente radicale libero) e di altri perossidi.
Glutatione ridotto (2 G-SH) +
Perossido di idrogeno (H2O2) → Glutatione ossidato
(G-S-S-G) + 2 H2O
2 G-SH + ROOH ----> GSSG + ROH
+ H2O
In pratica il glutatione ridotto cede il suo idrogeno
(H+), che funge da accettore di elettroni proveniente da molecole reattive
dell'ossigeno (radicali liberi).
Svolta la sua funzione il glutatione
ossidato, per riacquistare la propria attività, deve tornare nella forma
ridotta, per azione di un enzima NADPH
dipendente (glutatione redattasi): per questa capacità di rigenerarsi il
glutatione è considerato il più potente antiossidante fisiologico.
Il rapporto “fisiologico” fra glutatione
ridotto e glutatione ossidato è intorno
a 9:1; una diminuzione è indice di stress ossidativo.
Il
glutatione è particolarmente concentrato nel fegato, dove protegge gli epatociti da molecole
tossiche di origine esogena: in questo caso, il glutatione, una volta espletata
la propria attività detossificante non può rigenerarsi completamente essendo in
parte eliminato, principalmente per via biliare: una eccessiva
concentrazione di sostanze tossiche può quindi “depletare” i livelli di
glutatione, con grave danno epatico e perdita dei suoi effetti protettivi
sistemici.
Fonti di glutatione
Gli integratori di glutatione si sono
rivelati assolutamente inattivi in quanto non assorbiti a livello intestinale, mentre
la concentrazione di glutatione nell'organismo aumenta
efficacemente dopo somministrazione
orale di uno dei suoi precursori, l'amminoacido solforato cisteina, la cui
principale fonte in commercio è rappresentata dalla N-Acetil-Cisteina (NAC).
La NAC rientra nella composizione di
noti farmaci
mucolitici ed è proposta anche quale integratore alimentare: abbiamo
oggi a disposizione la forma terclatrata della NAC (c-NAC), che presenta il
vantaggio di proteggere la NAC dall’ossidazione, migliorarne l’aspetto
organolettico con un effetto “taste-masking”
e che è somministrabile a dosi largamente inferiori, a parità di
efficacia, ovviando così a frequenti effetti collaterali indesiderati
(gastralgie) e all’inconveniente del meteorismo sulfureo, tipico durante
assunzione orale di amminoacidi solforati
(la terclatrazione è una piattaforma tecnologica,
frutto della Ricerca italiana, che consente di ottimizzare la biodisponibilità
di principi attivi attraverso una attivazione meccano-chimica allo stato
solido. Il prodotto che ne deriva contiene almeno tre tipologie di componenti:
il principio attivo, NAC, nel caso della c-NAC, un carrier (ciclodestrina),
biocatalizzatori facilitanti
l’inclusione dell’attivo nel carrier.).
Il suggerimento è la sistematica
assunzione di prodotti a base di c-NAC nei soggetti esposti a maggior rischio
ambientale (radiazioni) o in cui sia comunque
importante un corretto approccio antiossidante,
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