13 maggio 2015

Rischio di diabete di tipo 2 da ripetuti cicli di antibiotici per alterazioni del microbiota intestinale


L'esposizione ripetuta ad alcuni gruppi di antibiotici può aumentare il rischio di sviluppare diabete di tipo 2. 
Lo riporta un ampio studio da poco apparso sullo "European Journal of Endocrinology". 
L'idea di fondo è che gli antibiotici, di cui nei Paesi occidentali si fa largo impiego, possono alterare la flora batterica intestinale (oggi più frequentemente definita come "microbiota") che, sia in modelli animali sia nell'uomo, influenza vie metaboliche importanti nella patogenesi di obesità, insulino-resistenza e diabete.  In base a queste premesse, gli autori della ricerca hanno voluto verificare se il fatto di essere stati esposti in passato ad antibiotici potesse determinare un rischio maggiore di sviluppo di diabete. 
Utilizzando un ampio database relativo alla popolazione del Regno Unito, sono stati identificati i pazienti con diagnosi di diabete e, per ogni caso, quattro controlli di pari età e genere, trattati nello stesso centro e con un follow-up di durata sovrapponibile.
 In totale lo studio ha riguardato oltre un milione di persone: 208.002 soggetti diabetici e 815.576 controlli. Le analisi effettuate dagli studiosi hanno rivelato che l'esposizione a un solo ciclo di antibiotici non risulta associata a un aumento del rischio di diabete, mentre coloro ai quali erano stati prescritti da due a cinque cicli di antibiotici - quattro tipi, in particolare: penicilline, cefalosporine, chinolonici e macrolidi - mostravano una maggiore probabilità di sviluppare diabete di tipo 2, con un rischio proporzionale al numero di antibiotici prescritti. 
Nel calcolo del rischio, gli autori hanno aggiustato i dati tenendo conto degli altri fattori di rischio per diabete, come obesità, fumo, presenza di coronaropatia e infezioni. È stato così determinato che 2-5 cicli di penicillina sarebbero associati a un aumento del rischio di diabete dell'8% (odds ratio, Or, aggiustato: 1,08; 95% CI: 1,05-1,11), mentre in caso di oltre 5 cicli il rischio risulterebbe aumentato del 23%. Per quanto concerne i chinolonici, con 2-5 cicli l'aumento del rischio di diabete sarebbe del 15% (Or: 1,15; 95% CI: 1,08-1,23) e, con oltre 5, si salirebbe al 37%. Non è stata trovata, invece, alcuna associazione tra il rischio di sviluppare diabete ed esposizione ad antivirali e antifungini.
In conclusione, anche se lo studio non dimostra una relazione causa-effetto, la modificazione numerica e qualitativa del microbiota intestinale determinata da agenti antimicrobici potrebbe spiegare il rapporto osservato tra utilizzo di antibiotici e rischio di diabete, inducendo a tenere in maggiore considerazione tale legame.

08 maggio 2015

I test nutrigenetici, un valido aiuto per dieta e salute

Una nutrizione mirata e precisa, grazie alla conoscenza della diversità genotipica di ciascun individuo, sta diventando sempre più importante nella prevenzione di un vasto numero di patologie e ha permesso lo sviluppo di nuove terapie sperimentali coadiuvanti la cura e il miglioramento di malattie complesse: malattie metaboliche, neurodegenerative, neoplastiche, cardiovascolari, danni da stress ossidativo. La conoscenza e la corretta interpretazione di variazioni genetiche in geni-chiave del metabolismo di determinati nutrienti ci permette di avere un'arma in più nella difesa dagli effetti negativi dei fattori ambientali sulla nostra salute. Allo stesso tempo ci permette di scegliere un'alimentazione e uno stile di vita più compatibilicon il nostro materiale genetico. 

Ciò che determina la qualità del test nutrigenetico sono le basi scientifiche, derivanti da studi pubblicati su riviste internazionali, attraverso cui vengono selezionati i geni e le rispettive varianti da analizzare. L'affidabilità di un test si valuta dalla trasparenza dell'informazione genetica, ovvero dalla presenza nel referto di un'elenco dettagliato dei geni, delle varianti analizzate e da appropriati riferimenti bibliografici, che dimostrino le basi scientifiche del servizio offerto.
Un test nutrigenetico valido non deve e non può fornire una diagnosi, né una prognosi della malattia, ma si deve focalizzare sui "fattori di rischio" intermedi come i livelli di omocisteina, colesterolo Ldl, ipertensione ecc. Lo scopo ultimo è quello di fornire indicazioni e linee guida sui valori ottimali di nutrienti essenziali da introdurre nella dieta per mantenere uno stato di salute ottimale. Attualmente esistono test che valutano circa 27 geni e relativi polimorfismi genetici che esercitano un importante ruolo nei processi di detossificazione, nel processo infiammatorio, nell'attività antiossidante, nella sensibilità all'insulina, nello stato di salute del cuore e delle ossa. In base ai risultati è fornita una tabella nutrizionale personalizzata, con le quantità giornaliere raccomandate di nutrienti e minerali e indicazioni dietetiche su come mettere in pratica queste informazioni con l'aiuto di un professionista del settore.
Elena Giordano

07 maggio 2015

Un avocado al giorno toglie il colesterolo di torno



Mangiare un avocado al giorno come parte di una dieta cardiologicamente sana, ipocolesterolemizzante e a moderato contenuto di grassi può aiutare a ridurre i livelli di colesterolo “cattivo” nei soggetti obesi ed in sovrappeso. Questo dato deriva da una ricerca che ha valutato gli effetti dell’avocado sui fattori di rischio tradizionali ed innovativi mediante la sostituzione degli acidi grassi saturi presenti in una dieta media con acidi grassi insaturi degli avocado stessi. In base ai risultati dello studio, rispetto alla dieta americana media, la concentrazione dell’ LDL, o “colesterolo cattivo”, risulta notevolmente ridotta dopo il consumo di una dieta a moderato contenuto in grassi che includa l’avocado. Le LDL sono risultate ridotte anche con lo stesso tipo di dieta senza avocado, o con una dieta a basso contenuto in grassi, ma non nella stessa misura. Gli altri elementi che sono risultati favorevolmente influenzati dalla dieta con avocado rispetto alle altre due comprendono colesterolo totale, trigliceridi, colesterolo non-HDL ed altro ancora. Questi elementi sono tutti considerati fattori di rischio cardiometabolico in modi indipendenti dagli effetti cardiologici degli acidi grassi.
Negli USA come in Europa gli avocado non sono ancora un alimento molto diffuso e possono risultare costosi, soprattutto in alcuni periodi dell’anno, ed inoltre molte persone non sanno come incorporarli nelle proprie diete se non con il guacamole: il guacamole però viene tipicamente consumato con le tortillas, che contengono molte calorie e sodio. Gli avocado, comunque, possono essere mangiati anche in insalata, con verdure, nei tramezzini o con altri alimenti proteici magri come pollo o pesce, o anche da soli. Oltre ai MUFA, gli avocado possono anche fornire altre sostanze bioattive che hanno sicuramente contribuito ai risultati dello studio, come fibre, fitosteroli ed altro ancora. Molte diete cardiologicamente sane raccomandano la sostituzione degli acidi grassi saturi con MUFA o acidi grassi poliinsaturi per ridurre il rischio di cardiopatie; ciò dipende dal fatto che i grassi sature poissono aumentare i livelli di colesterolo “cattivo” ed aumentare quindi il rischio di malattie cardiovascolari. La dieta mediterranea prevede frutta, verdura, granaglie integrali, pesci grassi e cibi ricchi in MUFA, come l’olio di oliva extravergine e la frutta a guscio. Proprio come negli avocado, la ricerca indica che questi ultimi non soltanto contengono grasso migliori, ma anche alcuni micronutrienti ed alcune componenti bioattive che possono svolgere un ruolo importante nella riduzione delle malattie cardiovascolari.
 (J Am Heart Assoc online 2015, pubblicato l’8/1)

06 maggio 2015

Nel diabete 2 la colazione sostanziosa aiuta il controllo metabolico


Nelle persone con diabete di tipo 2, chi consuma una colazione ad alta energia e una cena a basso contenuto calorico ha un miglior controllo della glicemia rispetto a chi fa il contrario. Ecco, in sintesi, le conclusioni di uno studio pubblicato su Diabetologia, prima autrice Daniela Jakubowicz del Wolfson medical center all'Università di Tel Aviv in Israele, da cui emerge che un simile schema alimentare potrebbe migliorare il controllo metabolico contribuendo a prevenire le complicanze del diabete di tipo 2. Il trial, basato su un protocollo randomizzato che ha incluso una piccola casistica di 18 persone fra 30 e 70 anni, 8 uomini e 10 donne, con diabete di tipo 2 da meno di 10 anni e indice di massa corporea tra 22 e 35 kg/m2, prevedeva l'assegnazione casuale dei pazienti a due regimi alimentari per una settimana: il primo con 2.946 kilojoule (kJ) a colazione, 2.523 kJ a pranzo e 858 kJ a cena; l'altro con la stessa energia totale, ma organizzato in modo diverso: 858 kJ a colazione, 2.523 kJ a pranzo e 2.946 kJ a cena. I livelli postprandiali di glucosio sono stati misurati in ciascun partecipante, così come i valori di insulina, C-peptide e GLP-1. Due settimane più tardi, i pazienti si sono scambiati i regimi alimentari e sono state ripetute le misurazioni. «I risultati dimostrano che la glicemia postprandiale era inferiore e i livelli di insulina, C-peptide e Glp-1 erano del 20% superiori nei partecipanti che seguivano la prima dieta rispetto alla seconda nonostante i due schemi alimentari contenessero il medesimo apporto energetico» afferma la ricercatrice. Queste osservazioni suggeriscono che una ridistribuzione giornaliera dell'introito calorico globale potrebbe influenzare il ritmo quotidiano della secrezione di insulina e GLP-1 postprandiale, portando a una sostanziale riduzione della glicemia dopo i pasti. «La migliore tolleranza al glucosio osservata dopo una prima colazione ad alta energia può essere in parte il risultato di una risposta delle cellule beta, che aumentano la secrezione di insulina al mattino, riducendo i picchi di glucosio postprandiale nei pazienti con diabete di tipo 2» conclude Jakubowicz.

Diabetologia. 2015; 58(5):912-9

10 aprile 2015

Emicrania: alimentazione tra le cause primarie di Attilio Speciani

La relazione tra emicrania e alimentazione ha superato le limitative classificazioni dell'emicrania da ristorante cinese (eccesso di glutammato nei cibi) o dell'emicrania scatenata da cioccolato o da vino. 

Le cause del dolore cefalico sono ormai molto più chiare se si valuta il preesistente stato di infiammazione su cui si innesta la reazione dolorosa. Nella maggior parte dei casi si tratta del superamento di un livello di soglia, stimolato magari dal glutammato, da un gamberetto o dai solfiti del vino, che agiscono come una "goccia che fa traboccare il vaso". 

L'infiammazione legata a stimoli provenienti dal quotidiano, come quelli dovuti a cibo, farmaci o stimoli tossicologici ripetuti, diventa quindi la causa primaria del fenomeno. 
Il rumore, il freddo e lo stress possono allora diventare gli stimoli finali che scatenano la crisi emicranica non certo per un loro effetto specifico ma per l'aggiunta di uno stimolo irritativo a un'infiammazione diffusa che rende reattive tutte le strutture dell'organismo. 

Ci sono alcuni importanti lavori che hanno correlato emicrania e alimentazione con questo innovativo paradigma. Il più recente, pubblicato da Alpay1 su Cephalalgiadescrive l'efficacia terapeutica di un test di valutazione delle IgG (come ad esempio Recaller o Biomarkers, oggi diffusi in Italia) e del relativo profilo alimentare individuale per la cura dell'emicrania. Gli anticorpi IgG verso alimenti sono indicatori di un'eccessiva assunzione2 del rispettivo gruppo alimentare e non esprimono certo una reazione avversa al cibo stesso, che rimane, secondo la teoria evoluzionistica, la fonte primaria di energia. 
Nel lavoro di Alpay, il controllo dietetico degli alimenti verso cui esisteva un aumentato livello di IgG ha portato in breve tempo alla significativa riduzione delle crisi emicraniche. 
Si tratta di uno dei primi lavori randomizzati, controllati e in doppio cieco svolti in questo campo. 

Riferendoci alla reattività al glutine non celiaca, Gluten sensitivity (descritta suNutrizione33), impressiona pensare che questa chiave di lettura fosse già stata descritta su Neurology nel 20013 e addirittura ripresa da Ford4 su Medical Hypothesisnel 2009, arrivando a parlare di "Gluten Syndrome" per i forti risvolti neurologici indotti dalla ingestione di un particolare alimento. 

Oggi sappiamo che l'emicrania non è prerogativa di una reattività al glutine ma che il glutine ne è spesso causa anche in soggetti non celiaci. Qualsiasi alimento è in grado, se usato in eccesso, di determinare reazioni infiammatorie che portano anche all'emicrania. L'impostazione diagnostica e quella terapeutica devono quindi prendere atto di queste conoscenze per una corretta ed efficace gestione del disturbo. 

1. Alpay K et al, Cephalalgia. 2010 Jul;30(7):829-37. Epub 2010 Mar 10
2. Ligaarden SC et al, BMC Gastroenterol.2012 Nov 21;12:166. doi: 10.1186/1471-230X-12-166
3. Hadjivassiliou M et al, Neurology 2001 Feb 13;56(3):385-388
4. Ford RP. Med Hypotheses. 2009 Sep;73(3):438-40

Attilio Speciani

Olio di pesce e chemioterapia: coesistenza incompatibile





Mangiare aringhe e sgombri o altre fonti di olio di pesce aumenta i livelli di acidi grassi polinsaturi (Pufa) n-3, che secondo esperimenti sui modelli murini potrebbero indurre resistenza alla chemioterapia nel trattamento del cancro. Questo è quanto conclude uno studio pubblicato su Jama oncology coordinato da Emile Voest del Cancer institute Netherlands ad Amsterdam. «I malati di tumore adottano spesso modifiche dello stile di vita che includono l'uso di integratori» esordisce il ricercatore, sottolineando la crescente preoccupazione riguardo l'assunzione di integratori durante la somministrazione di antitumorali, nonché sulla possibile interferenza in termini di risultati del trattamento. Così Voest e coautori hanno esaminato gli effetti dell'esposizione ai Pufa provenienti dal pesce o dall'olio di pesce tra i pazienti sottoposti a cure anticancro, reclutando anche cinquanta volontari sani per esaminare i livelli ematici di acidi grassi dopo l'ingestione di Pufa. «Tra i 118 malati di tumore che hanno risposto a un sondaggio circa l'uso di integratori alimentari, il 30% riferiva l'uso regolare, e l'11% occasionale, di integratori contenenti acidi grassi omega-3» riprendono gli autori, che hanno rilevato un aumento dei livelli ematici di Pufa n-3 nei soggetti sani che avevano assunto la dose giornaliera raccomandata di 10 ml di olio di pesce, con quasi completa normalizzazione otto ore dopo. Più lenta, ovviamente, è stata la normalizzazione dopo una dose di 50 ml. Anche mangiare 100 grammi di aringhe e sgombri aumenta i livelli ematici di Pufa n-3, mentre il tonno non ne influenza in alcun modo i livelli ematici e il salmone provoca un picco ridotto e di breve durata. 
«Questi risultati sono in linea con la crescente consapevolezza dell'attività biologica di diversi acidi grassi, mettendo in guardia sull'uso simultaneo della chemioterapia e dell'olio di pesce» aggiunge Voest. 












JAMA Oncol 2015. doi:10.1001/jamaoncol.2015.0388

01 aprile 2015

Diabete e uso ripetuto di antibiotici: un legame a doppio filo

L'uso ripetuto di antibiotici può aumentare il rischio di diabete di tipo 2, secondo uno studio pubblicato su European Journal of Endocrinology. I ricercatori, coordinati da Yu-Xiao Yang dell'Università di Pennsylvania, hanno analizzato i dati di un milione di persone nel Regno Unito scoprendo che nei soggetti cui erano stati prescritti almeno due cicli di quattro tipi di antibiotici diversi, penicilline, cefalosporine, chinoloni e macrolidi, le probabilità di sviluppare diabete aumentavano in modo direttamente proporzionale agli antibatterici assunti. Per dirla in numeri, da due a cinque cicli di penicillina aumentavano il rischio dell'8%, e più di cinque cicli del 23%. Viceversa, da due a cinque cicli di chinoloni aumentavano le probabilità di diventare di diabetici del 15%, che arrivavano al 37% per oltre cinque cicli. «I tassi maggiori di diabete associato ad antibiotici sono emersi aggiustando i dati per altri fattori di rischio del diabete come l'obesità, il fumo, le malattie cardiache e le infezioni» aggiunge Yang, sottolineando che sebbene lo studio non fosse progettato per verificare un nesso causa-effetto, una modifica nella biodiversità batterica intestinale potrebbe spiegare il legame tra antibiotici e rischio di diabete. «Tant'è che il microbiota influenza i meccanismi alla base dell'obesità, dell'insulino-resistenza e diabete in modelli umani e animali, e precedenti ricerche dimostrano che gli antibiotici possono alterare l'ecosistema digestivo» prosegue il ricercatore, sottolineando che la presenza di batteri in un distretto corporeo può contribuire allo sviluppo di uno stato infiammatorio in un altro, come dimostra per esempio la connessione tra gengivite e malattie cardiache. Cosa che secondo gli autori non impedisce di pensare come un simile legame possa esistere anche tra diabete e microbiota intestinale. «L'uso eccessivo di antibiotici è un problema in tutto il mondo, come anche la resistenza batterica, e questi risultati sono importanti non solo per comprendere lo sviluppo del diabete, ma come avvertimento per ridurre i trattamenti antibatterici inappropriati» conclude Yang.