Mi occupo di Nutrizione per patologie accertate, Lipedema, Policistosi Ovarica, Intolleranze Alimentari, Disbiosi, Dieta Chetogenica su misura. Ricevo a Messina e Catania. In queste pagine offro consigli nutrizionali, ricette per tutti coloro che si interessano di Dieta, Nutrizione e Salute. Sono disponibile a consulenze online. Questo blog è collegato alla pagina Facebook Camice&Mestoli ed Instagram Bionutrizionistacacciola
Mangiare un avocado al giorno come parte di una dieta cardiologicamente sana, ipocolesterolemizzante e a moderato contenuto di grassi può aiutare a ridurre i livelli di colesterolo “cattivo” nei soggetti obesi ed in sovrappeso. Questo dato deriva da una ricerca che ha valutato gli effetti dell’avocado sui fattori di rischio tradizionali ed innovativi mediante la sostituzione degli acidi grassi saturi presenti in una dieta media con acidi grassi insaturi degli avocado stessi. In base ai risultati dello studio, rispetto alla dieta americana media, la concentrazione dell’ LDL, o “colesterolo cattivo”, risulta notevolmente ridotta dopo il consumo di una dieta a moderato contenuto in grassi che includa l’avocado. Le LDL sono risultate ridotte anche con lo stesso tipo di dieta senza avocado, o con una dieta a basso contenuto in grassi, ma non nella stessa misura. Gli altri elementi che sono risultati favorevolmente influenzati dalla dieta con avocado rispetto alle altre due comprendono colesterolo totale, trigliceridi, colesterolo non-HDL ed altro ancora. Questi elementi sono tutti considerati fattori di rischio cardiometabolico in modi indipendenti dagli effetti cardiologici degli acidi grassi.
Negli USA come in Europa gli avocado non sono ancora un alimento molto diffuso e possono risultare costosi, soprattutto in alcuni periodi dell’anno, ed inoltre molte persone non sanno come incorporarli nelle proprie diete se non con il guacamole: il guacamole però viene tipicamente consumato con le tortillas, che contengono molte calorie e sodio. Gli avocado, comunque, possono essere mangiati anche in insalata, con verdure, nei tramezzini o con altri alimenti proteici magri come pollo o pesce, o anche da soli. Oltre ai MUFA, gli avocado possono anche fornire altre sostanze bioattive che hanno sicuramente contribuito ai risultati dello studio, come fibre, fitosteroli ed altro ancora. Molte diete cardiologicamente sane raccomandano la sostituzione degli acidi grassi saturi con MUFA o acidi grassi poliinsaturi per ridurre il rischio di cardiopatie; ciò dipende dal fatto che i grassi sature poissono aumentare i livelli di colesterolo “cattivo” ed aumentare quindi il rischio di malattie cardiovascolari. La dieta mediterranea prevede frutta, verdura, granaglie integrali, pesci grassi e cibi ricchi in MUFA, come l’olio di oliva extravergine e la frutta a guscio. Proprio come negli avocado, la ricerca indica che questi ultimi non soltanto contengono grasso migliori, ma anche alcuni micronutrienti ed alcune componenti bioattive che possono svolgere un ruolo importante nella riduzione delle malattie cardiovascolari.
Nelle persone con diabete di tipo 2, chi consuma una colazione ad alta energia e una cena a basso contenuto calorico ha un miglior controllo della glicemia rispetto a chi fa il contrario. Ecco, in sintesi, le conclusioni di uno studio pubblicato su Diabetologia, prima autrice Daniela Jakubowicz del Wolfson medical center all'Università di Tel Aviv in Israele, da cui emerge che un simile schema alimentare potrebbe migliorare il controllo metabolico contribuendo a prevenire le complicanze del diabete di tipo 2. Il trial, basato su un protocollo randomizzato che ha incluso una piccola casistica di 18 persone fra 30 e 70 anni, 8 uomini e 10 donne, con diabete di tipo 2 da meno di 10 anni e indice di massa corporea tra 22 e 35 kg/m2, prevedeva l'assegnazione casuale dei pazienti a due regimi alimentari per una settimana: il primo con 2.946 kilojoule (kJ) a colazione, 2.523 kJ a pranzo e 858 kJ a cena; l'altro con la stessa energia totale, ma organizzato in modo diverso: 858 kJ a colazione, 2.523 kJ a pranzo e 2.946 kJ a cena. I livelli postprandiali di glucosio sono stati misurati in ciascun partecipante, così come i valori di insulina, C-peptide e GLP-1. Due settimane più tardi, i pazienti si sono scambiati i regimi alimentari e sono state ripetute le misurazioni. «I risultati dimostrano che la glicemia postprandiale era inferiore e i livelli di insulina, C-peptide e Glp-1 erano del 20% superiori nei partecipanti che seguivano la prima dieta rispetto alla seconda nonostante i due schemi alimentari contenessero il medesimo apporto energetico» afferma la ricercatrice. Queste osservazioni suggeriscono che una ridistribuzione giornaliera dell'introito calorico globale potrebbe influenzare il ritmo quotidiano della secrezione di insulina e GLP-1 postprandiale, portando a una sostanziale riduzione della glicemia dopo i pasti. «La migliore tolleranza al glucosio osservata dopo una prima colazione ad alta energia può essere in parte il risultato di una risposta delle cellule beta, che aumentano la secrezione di insulina al mattino, riducendo i picchi di glucosio postprandiale nei pazienti con diabete di tipo 2» conclude Jakubowicz.
La relazione tra emicrania e alimentazione ha superato le limitative classificazioni dell'emicrania da ristorante cinese (eccesso di glutammato nei cibi) o dell'emicrania scatenata da cioccolato o da vino. Le cause del dolore cefalico sono ormai molto più chiare se si valuta il preesistente stato di infiammazione su cui si innesta la reazione dolorosa. Nella maggior parte dei casi si tratta del superamento di un livello di soglia, stimolato magari dal glutammato, da un gamberetto o dai solfiti del vino, che agiscono come una "goccia che fa traboccare il vaso". L'infiammazione legata a stimoli provenienti dal quotidiano, come quelli dovuti a cibo, farmaci o stimoli tossicologici ripetuti, diventa quindi la causa primaria del fenomeno. Il rumore, il freddo e lo stress possono allora diventare gli stimoli finali che scatenano la crisi emicranica non certo per un loro effetto specifico ma per l'aggiunta di uno stimolo irritativo a un'infiammazione diffusa che rende reattive tutte le strutture dell'organismo. Ci sono alcuni importanti lavori che hanno correlato emicrania e alimentazione con questo innovativo paradigma. Il più recente, pubblicato da Alpay1 su Cephalalgiadescrive l'efficacia terapeutica di un test di valutazione delle IgG (come ad esempio Recaller o Biomarkers, oggi diffusi in Italia) e del relativo profilo alimentare individuale per la cura dell'emicrania. Gli anticorpi IgG verso alimenti sono indicatori di un'eccessiva assunzione2 del rispettivo gruppo alimentare e non esprimono certo una reazione avversa al cibo stesso, che rimane, secondo la teoria evoluzionistica, la fonte primaria di energia. Nel lavoro di Alpay, il controllo dietetico degli alimenti verso cui esisteva un aumentato livello di IgG ha portato in breve tempo alla significativa riduzione delle crisi emicraniche. Si tratta di uno dei primi lavori randomizzati, controllati e in doppio cieco svolti in questo campo. Riferendoci alla reattività al glutine non celiaca,Gluten sensitivity (descritta suNutrizione33), impressiona pensare che questa chiave di lettura fosse già stata descritta su Neurology nel 20013 e addirittura ripresa da Ford4 su Medical Hypothesisnel 2009, arrivando a parlare di "Gluten Syndrome" per i forti risvolti neurologici indotti dalla ingestione di un particolare alimento. Oggi sappiamo che l'emicrania non è prerogativa di una reattività al glutine ma che il glutine ne è spesso causa anche in soggetti non celiaci. Qualsiasi alimento è in grado, se usato in eccesso, di determinare reazioni infiammatorie che portano anche all'emicrania. L'impostazione diagnostica e quella terapeutica devono quindi prendere atto di queste conoscenze per una corretta ed efficace gestione del disturbo. 1. Alpay K et al, Cephalalgia. 2010 Jul;30(7):829-37. Epub 2010 Mar 10 2. Ligaarden SC et al, BMC Gastroenterol.2012 Nov 21;12:166. doi: 10.1186/1471-230X-12-166 3. Hadjivassiliou M et al, Neurology 2001 Feb 13;56(3):385-388 4. Ford RP. Med Hypotheses. 2009 Sep;73(3):438-40 Attilio Speciani
Mangiare aringhe e sgombri o altre fonti di olio di pesce aumenta i livelli di acidi grassi polinsaturi (Pufa) n-3, che secondo esperimenti sui modelli murini potrebbero indurre resistenza alla chemioterapia nel trattamento del cancro. Questo è quanto conclude uno studio pubblicato su Jama oncology coordinato da Emile Voest del Cancer institute Netherlands ad Amsterdam. «I malati di tumore adottano spesso modifiche dello stile di vita che includono l'uso di integratori» esordisce il ricercatore, sottolineando la crescente preoccupazione riguardo l'assunzione di integratori durante la somministrazione di antitumorali, nonché sulla possibile interferenza in termini di risultati del trattamento. Così Voest e coautori hanno esaminato gli effetti dell'esposizione ai Pufa provenienti dal pesce o dall'olio di pesce tra i pazienti sottoposti a cure anticancro, reclutando anche cinquanta volontari sani per esaminare i livelli ematici di acidi grassi dopo l'ingestione di Pufa. «Tra i 118 malati di tumore che hanno risposto a un sondaggio circa l'uso di integratori alimentari, il 30% riferiva l'uso regolare, e l'11% occasionale, di integratori contenenti acidi grassi omega-3» riprendono gli autori, che hanno rilevato un aumento dei livelli ematici di Pufa n-3 nei soggetti sani che avevano assunto la dose giornaliera raccomandata di 10 ml di olio di pesce, con quasi completa normalizzazione otto ore dopo. Più lenta, ovviamente, è stata la normalizzazione dopo una dose di 50 ml. Anche mangiare 100 grammi di aringhe e sgombri aumenta i livelli ematici di Pufa n-3, mentre il tonno non ne influenza in alcun modo i livelli ematici e il salmone provoca un picco ridotto e di breve durata.
«Questi risultati sono in linea con la crescente consapevolezza dell'attività biologica di diversi acidi grassi, mettendo in guardia sull'uso simultaneo della chemioterapia e dell'olio di pesce» aggiunge Voest.
L'uso ripetuto di antibiotici può aumentare il rischio di diabete di tipo 2, secondo uno studio pubblicato su European Journal of Endocrinology. I ricercatori, coordinati daYu-Xiao Yang dell'Università di Pennsylvania, hanno analizzato i dati di un milione di persone nel Regno Unito scoprendo che nei soggetti cui erano stati prescritti almeno due cicli di quattro tipi di antibiotici diversi, penicilline, cefalosporine, chinoloni e macrolidi, le probabilità di sviluppare diabete aumentavano in modo direttamente proporzionale agli antibatterici assunti. Per dirla in numeri, da due a cinque cicli di penicillina aumentavano il rischio dell'8%, e più di cinque cicli del 23%. Viceversa, da due a cinque cicli di chinoloni aumentavano le probabilità di diventare di diabetici del 15%, che arrivavano al 37% per oltre cinque cicli. «I tassi maggiori di diabete associato ad antibiotici sono emersi aggiustando i dati per altri fattori di rischio del diabete come l'obesità, il fumo, le malattie cardiache e le infezioni» aggiunge Yang, sottolineando che sebbene lo studio non fosse progettato per verificare un nesso causa-effetto, una modifica nella biodiversità batterica intestinale potrebbe spiegare il legame tra antibiotici e rischio di diabete. «Tant'è che il microbiota influenza i meccanismi alla base dell'obesità, dell'insulino-resistenza e diabete in modelli umani e animali, e precedenti ricerche dimostrano che gli antibiotici possono alterare l'ecosistema digestivo» prosegue il ricercatore, sottolineando che la presenza di batteri in un distretto corporeo può contribuire allo sviluppo di uno stato infiammatorio in un altro, come dimostra per esempio la connessione tra gengivite e malattie cardiache. Cosa che secondo gli autori non impedisce di pensare come un simile legame possa esistere anche tra diabete e microbiota intestinale. «L'uso eccessivo di antibiotici è un problema in tutto il mondo, come anche la resistenza batterica, e questi risultati sono importanti non solo per comprendere lo sviluppo del diabete, ma come avvertimento per ridurre i trattamenti antibatterici inappropriati» conclude Yang.
di Antonella Gallino | 18 marzo 2015Dove si spiega quanto l’alimentazione possa incidere sul sistema immunitario e sulla nostra capacità di rimanere in salute.
Una volta si parlava di flora batterica – guarda caso, sempre da ripristinare –, oggi di “microbiota”. In entrambi i casi il protagonista è l’habitat intestinale, cioè quello che assimila, protegge, cura e difende il nostro corpo, e a cui il sistema immunitario è legato a doppio filo.
Quando l’intestino viene continuativamente avvelenato e, come si suol dire con un termine tecnico, insultato da alimenti inappropriati, da una dieta poco variata e povera di nutrienti, da una vita sedentaria e carica di occasioni stressogene, la patologia è dietro l’angolo.
Quello delle intolleranze è un allarme importante, che ci avvisa sia di quanto stiamo ‘accusando’ le nostre abitudini alimentari, sia di quanto si è impoverita la qualità nutrizionale del cibo che mangiamo, tanto più se ricorriamo spesso a cibo industriale e raffinato. Come intervenire per correggere il tiro?
Continuiamo il prezioso colloquio con la dottoressa Maria Stella Cacciola, esperta in nutrizione e intolleranze alimentari.
Nella prima parte della nostra intervista abbiamo fatto la conoscenza delmicrobiota, quel complesso sistema di microorganismi che una volta veniva chiamato flora batterica, credendo che fosse una semplice aggregazione di fermenti capaci di digerire la fibra e la lignina.
Oggi si ha la certezza che il microbiota ha un ruolo decisivo nello sviluppo delsistema immunitario dei neonati, infatti è proprio allora che esso si costituisce. Per questo è fondamentale l’alimentazione dei primi 5 o 6 giorni di vita, ma anche lo svezzamento e tutto quello che i bambini mangiano nei primi anni.
L’alimentazione corretta farà si che il microbiota si sviluppi in modo equilibrato, mettendolo a riparo dalle sindromi del colon o intestino irritabile (IBS) e da altre patologie ad esso correlate. Senza il microbiota la vita è difficile, se non impossibile. Sono stati fatti molti studi su cavie prive di microbiota e si è evidenziato che non sopravvivono a lungo o comunque sviluppano una lunga serie di patologie.
Tutto questo dovrebbe convincerci che la cura del nostro microbiota intestinale migliora le nostre condizioni di salute e ci allunga la vita.
È un problema il fatto che la nostra dieta è nutritivamente sovrabbondante rispetto alle nostre attività mediamente sedentarie?
Certamente si. Oggi la nostra alimentazione è basata su pochi tipi di alimenticonsumati in modo eccessivo e ripetitivo. La scelta di questi alimenti è fatta prevalentemente sotto la spinta delle informazioni date dai mass media e in larga misura per soddisfare gratificazioni di tipo edonistico. Per esempio, nella mia quotidiana attività, mi capita spesso di sentirmi dire che qualcuno non mangia le verdure perché non gli piacciono!
Oggi si mangiano molti alimenti prodotti con farine raffinate, prive non solo di fibra, ma anche di gran parte dei micronutrienti. Pensate un po’ che con la raffinazione scompare il germe di grano, che magari poi compriamo nelle erboristerie o in farmacia sotto forma di integratore.
Anche il consumo di latte e derivati come yogurt e formaggi riveste un ruolo centrale nell’alimentazione odierna, insieme con gli insaccati (prosciutto crudo e cotto, fesa di tacchino, bresaola ecc.). Non vogliamo demonizzare alcun alimento, ma una buona alimentazione deve sempre essere varia e riccanaturalmente di tutti i micro e macronutrienti necessari allo sviluppo di un microbiota completo.
Oggi tutti noi, nella scelta dei nostri menu, dobbiamo chiederci se quei cibi faranno bene oppure no al nostro microbiota intestinale, quindi passare da una scelta edonistica a una scelta consapevole e responsabile.
Glutine, lattosio, uova, lieviti e frutta secca sono tra gli agenti principali. Sembrano tuttavia appartenere a tipologie di alimenti molto diversi. Cosa hanno in comune tutte queste sostanze? Siamo diventati improvvisamente difettosi noi o lo è diventato il cibo che assumiamo?
Risulta evidente che, se il nostro microbiota si è ammalato, non può assolvere al suo compito di protezione della mucosa intestinale, che per questo motivo diventa attaccabile dai vari agenti patogeni e da varie sostanze chimiche che assumiamo, anche incoscientemente.
Il quotidiano insulto da parte dei batteri patogeni e della Candida albicans, insieme alla presenza di sostanze tossiche che aggrediscono e infiammano laparete intestinale, creano lesioni e aprono varchi nella mucosa, interrompendo la naturale contiguità degli enterociti [le cellule che ricoprono i villi intestinali,ndr]. Di conseguenza, aumenta la permeabilità dell’intestino a tutte quelle sostanze, batteri e virus, che altrimenti, in condizioni di normalità, non sarebbero potuti passare.
Tutte le sostanze chimiche, i metalli pesanti, batteri e virus penetrati nel nostro organismo vengono attaccati dal nostro sistema immunitario, che prova a neutralizzarli (e inizialmente ci riesce). Il problema sorge quando questo insulto diventacontinuativo e cronico. Allora il nostro sistema immunitario reagisce troppo e si presentano tutti quei sintomi tipici. Si innesca così un circolo vizioso.
I casi di intolleranza alimentare sono quindi dovuti a una specie di fenomeno di accumulo, come se si trattasse di un avvelenamento progressivo, e sono quindi differenti da quelli tipici delle allergie alimentari, in cui la risposta patologica si evidenzia nel giro di pochi minuti dalla ingestione del cibo responsabile.
Ma per alcune di esse si può riconoscere anche una predisposizione genetica, mi riferisco all’intolleranza al glutine, che poi può sfociare in celiachia o insensibilità non celiaca al glutine (la GS o Gluten Sensitivity, così chiamata dal suo scopritore, il dottor Fasano, un ricercatore italiano che lavora negli Stati Uniti).
L’altra che può essere individuata con un test genetico è l’intolleranza al lattosio.
Oggi individuiamo anche l’intolleranza al nickel, che si può sviluppare sia in soggetti allergici al nickel, sia in soggetti che apparentemente non lo sono. In realtà l’intolleranza al nickel ha sempre un coinvolgimento dell’epidermide, cioè si manifesta sempre con reattività cutanee come dermatiti atopiche, con prurito o senza.
Il problema è che in questi soggetti è molto difficile fare diagnosi, quindi bisogna affidarsi a un bravo medico o a un nutrizionista esperto, che con una dieta di rotazione non solo trova conferma ai dubbi, ma risolve anche i sintomi.
La stessa intolleranza alla frutta secca e ai crostacei fa riferimento all’elevata quantità di nickel presente in questi alimenti, quindi in questi soggetti è ammissibile valutare anche che ci possa essere un’intolleranza al nickel. Potrebbe essere di aiuto anche fare un mineralogramma sui capelli.
Che relazione esiste tra la qualità dei nostri approvvigionamenti e la possibilità di determinare o ridimensionare le nostre intolleranze?
La scelta del cibo è molto importante non solo per noi e per la nostra salute, ma anche e forse principalmente per il mantenimento dell’omeostasi del microbiota. [Omeòstasi: capacità di autoregolazione e conservazione dell’equilibrio, ndr].
Se consumiamo abbondanti quantità di cibi ricchi di calorie, ma poveri di nutrienti, costringiamo il nostro corpo a una fatica enorme. Infatti la nostramacchina digestiva attiva una enorme serie di meccanismi biologici fra i quali il nostro sistema immunitario e quando noi introduciamo grandi quantità di cibo, lo costringiamo a impegnarsi molto alla ricerca di “estranei” da bonificare.
Quindi se il nostro sistema anticorpale è così impegnato a proteggerci dal cibo ingerito, certamente non potrà essere presente in altri distretti come quello respiratorio o motorio, cioè non potrà occuparsi di proteggerci dalle infezioni respiratorie o dai traumi muscolari.
Nel tempo cominciamo ad avvertire sempre più spesso disturbi tipo occlusione nasale, rinorrea, mal di testa, tensioni muscolari al collo e alle spalle, che via via diventano sempre più pesanti e invalidanti.
Se il cibo consumato è prima di tutto di alta qualità nutrizionale e non è in eccesso, il nostro corpo ne trae tutti i nutrienti necessari a mantenere attive e vive le nostre sentinelle anticorpali che, ben nutrite e non stressate da eccessi, possono svolgere il loro compito egregiamente in tutti i distretti.
Molte persone che vengono da me per fare una dieta desiderano esclusivamente perdere peso, ma temono che per ottenerlo debbano essere affamate e prive di energia. Quando tornano per il controllo, e a volte mi contattano telefonicamente anche prima, mi riferiscono con sorpresa che non solo non hanno sofferto la fame come si aspettavano, ma che incredibilmente si sentono più energici e più forti. Infatti questo avviene perché il loro sistema immunitario non è costretto più a un tour de force e si sta riequilibrando.
Ricordiamoci sempre di nutrire il nostro microbiota con abbondanti quantità di verdure e ortaggi secondo la stagionalità, frutta in modo non esagerato, cereali integrali preferibilmente antichi come i grani autoctoni. In Sicilia per esempio abbiamo le qualità Timilia o Tumminia, che hanno basso indice di glutine ed elevata digeribilità, o il Russello o il Perciasacchi; ma vanno bene anche il riso integrale, il farro, il grano saraceno. L’importante è che siano prodotti sul territorio, perché il nostro corpo assimila meglio ciò che riconosce simile.
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Intervista alla dott.ssa Maria Stella Cacciola, biologa nutrizionista esperta in intolleranze alimentari, nutrigenetica e fitointegrazione; presidente dell’Associazione Faridea, che organizza percorsi di formazione, eventi e corsi legati ad alimentazione, nutrizione, fitoterapia, benessere.
Fino a pochi anni fa la sindrome del colon irritabile (IBS) era spesso considerata una malattia a sfondo funzionale, dovuta a particolari caratteristiche emotive. Poi i lavori del 2008 diShulman (1) hanno evidenziato nella sindrome la partecipazione di fatti infiammatori del colon in modo più evidente e documentato di quanto lo fossero gli aspetti di disagio emotivo. L'infiammazione colica dovuta al glutine è oggi confermata come una delle più frequenti cause di questa condizione che, almeno in Europa, è riferita come problema dominante nel 12% delle visite con il medico di base e nel 28% dei consulti con lo specialista gastroenterologo. L'IBS trova quindi spiegazioni di tipo immunologico e infiammatorio sempre più consistenti, legate all'infiammazione dovuta al cibo. Per anni, di sensibilità al glutine non celiaca si è semplicemente evitato di parlare, nonostante i continui richiami provenienti da chi si occupava di nutrizione applicata. I primi lavori di Sapone(2) e di Biesiekiersky (3), che nel 2011 hanno definito l'esistenza di questo disturbo, hanno ipotizzato che la prevalenza della reattività glutinica potesse aggirarsi intorno al 6-10% delle persone sane, ma le successive acquisizioni hanno proposto percentuali più elevate, tanto che il British Medical Journal (BMJ), nel novembre 2012 (4) indicava una prevalenza anche del 25% tra la popolazione apparentemente sana. Di certo, le ricerche di Carroccio (5) hanno evidenziato una crescita dei valori di anticorpi antigliadina sia di tipo IgA sia di tipo IgG in chi si lamenta di "colon irritabile" e soprattutto ha identificato una risposta alla introduzione del glutine (test in doppio cieco randomizzato, crossover) in circa un terzo dei casi valutati (29,5%). Secondo il BMJ, le persone che hanno disturbi intestinali ed extraintestinali legati all'assunzione di glutine e che non sono né celiaci (biopsia) né allergici al frumento (IgE), dovrebbero essere messi a dieta sui derivati glutinici, con una diagnosi di "Gluten sensitivity non celiaca" e devono essere avvisati che si tratta di una entità clinica di recente scoperta di cui va ancora perfezionata la completa comprensione. A fronte di chi cerca di difendere il glutine addossando la responsabilità ai fruttani rintracciabili comunque nei prodotti con glutine (6), c'è chi come noi, sulla base delle teorie evoluzionistiche, propone una dieta di rotazione che consente di guarire la condizione clinica favorendo il recupero della tolleranza.
1) Shulman RJ et al, J Pediatr. 2008 Nov;153(5):646-50. Epub 2008 Jun 9 2) Sapone A et al, BMC Med. 2011; 9: 23. Published online 2011 March 9. doi: 10.1186/1741-7015-9-23 3) Biesiekierski JR et al, Am J Gastroenterol. 2011 Mar;106(3):508-14; quiz 515. Epub 2011 Jan 11 4) Aziz I et al, BMJ. 2012 Nov 30;345:e7907. doi: 10.1136/bmj.e7907 5) Carroccio A et al, Am J Gastroenterol. 2012 Dec;107(12):1898-906. doi: 10.1038/ajg.2012.236. Epub 2012 Jul 24 6) Sanders DS et al, Am J Gastroenterol. 2012 Dec;107(12):1908-12. doi: 10.1038/ajg.2012.344