19 dicembre 2014

Glutatione-S-Tranferasi: lo spazzino dell'organismo



Conoscere il DNA può aiutare a volgere a nostro favore anche una variante 
genetica sfavorevole”, con questa frase abbiamo concluso l’articolo 
precedente e sarebbe bene fare un altro esempio per rassicurare chi con 
un test genetico scopre di avere degli specifici enzimi, 
leGlutatione-S-Transferasi, non funzionanti.

Le Glutatione-S-Transferasi sono enzimi in grado di rendere meno reattive 
e più facilmente eliminabili dall’organismo varie sostanza tossiche.

La funzione della Glutatione-S-Transefrasi (GST) è quella di “attaccare” 
(il termine scientifico è “coniugare”) alle sostanze tossiche il glutatione, 
una sostanza che ne permette l’escrezione. Il Glutatione possiamo figurarcelo
come una specie di “automobile” in grado di trasportare la sostanza tossica
fuori dal nostro organismo (per esempio attraverso le urine).
Se non ci fosse questo enzima le sostanze tossiche si “attaccherebbero”
lo stesso al Glutatione, solo che meno rapidamente. Questo significa 
che se dal test genetiche si evince che non si ha una GST funzionante, 
bisogna considerare che queste reazioni avvengono lo stesso, 
solo che molto più lentamente!!

Ma molto praticamente, se uno ha la variante sfavorevole dell’enzima GST,
 c’è qualcosa di concreto che può fare per aiutarsi?

Secondo alcuni studi le persone che hanno la variante sfavorevole
potrebbero beneficiare maggiormente degli effetti chemoprotettivi 
degli isotiocianati (antiossidanti presenti naturalmente in broccoli, cavoli,
cavolfiori e cavolini di Bruxelles) rispetto a chi ha la variante  favorevole 
(Lodon et al, 2000, Lancet, 356:724-729; Zhang et al, Biochem Biophys 
Res Commun 1995, 206:748-55). Dunque l’introduzione con la dieta di 
isotiocinati , potrebbe essere per queste persone molto più efficace che 
nelle persone con la variante favorevole e dunque particolarmente consigliata!

Completando poi la metafora dell’automobile, una integrazione con Glutatione 
o con suoi precursori, aiuta a fare avvenire l’attacco del glutatione alla 
sostanza tossica più in fretta, semplicemente perché avere a portata di 
mano più “automobili” disponibili aiuterebbe a condurre fuori dal nostro 
corpo le sostanze tossiche.

Da geneticaebenessere.com

18 dicembre 2014

Dieta equilibrata: indice glicemico non migliora il rischio cardiovascolare


Dieta equilibrata: indice glicemico non migliora il rischio cardiovascolare
In uno studio su partecipanti sovrappeso, i soggetti in dieta ipoglicidica a basso indice glicemico non hanno avuto alcun miglioramento in termini di insulino-resistenza, livelli di lipidi o pressione arteriosa sistolica, secondo uno studio pubblicato su Jama. «L'indice glicemico consente di classificare i cibi contenenti carboidrati basandosi sull'aumento della glicemia indotto dopo l'assunzione. In altri termini, l'indice glicemico indica la velocità con cui gli zuccheri alimentari entrano nel sangue» spiega Frank Sacksdel Brigham and Women Hospital di Boston, coautore dell'articolo, sottolineando che più i carboidrati sono raffinati, come lo zucchero bianco, la pasta di semola, il pane bianco o il riso brillato, più rapidamente aumenta la glicemia. «Anche se alcuni sostengono politiche nutrizionali fondate sul consumo di alimenti a basso indice glicemico, i suoi benefici sui fattori di rischio per diabete e malattie cardiovascolari non sono ancora ben compresi» riprende il ricercatore, che con i coautori ha svolto uno studio in cui 163 adulti sovrappeso sono stati trattati con 4 diverse diete per 5 settimane: le prime due erano ricche in carboidrati e avevano, rispettivamente un indice glicemico alto e uno basso; nella terza l'indice glicemico era alto e i carboidrati bassi; nell'ultima indice glicemico e carboidrati erano entrambi bassi. A conti fatti i ricercatori hanno scoperto che nel regime alimentare a ridotto contenuto di carboidrati, il basso indice glicemico rispetto a quello alto non modificava né l'insulino-resistenza, né il colesterolo e neppure la pressione, ma riduceva i trigliceridi. «Nel contesto di una dieta genericamente ipoglicidica, la selezione degli alimenti in base all'indice glicemico non migliora i fattori di rischio cardiovascolari o l'insulino-resistenza» conclude Sacks. E Robert Eckel dell'Università del Colorado di Aurora, scrive in un editoriale: «I risultati dello studio, per molti aspetti inattesi, suggeriscono in sintesi che il concetto di indice glicemico potrebbe essere meno importante di quanto si pensi, specie nel contesto di una dieta equilibrata. Questi dati dovrebbero indirizzare l'attenzione sull'importanza di mantenere in generale uno stile di vita sano, dieta compresa, senza dover guardare, nel particolare, il contenuto in zuccheri di ogni alimento».

15 dicembre 2014

Il succo di barbabietole che contiene nitrati abbassa la pressione

 Questo è il primo studio da cui emerge una riduzione duratura della pressione arteriosa ottenuta somministrando nitrati alimentari, che alla luce di questi risultati potrebbero avere un ruolo significativo nel trattamento dell’ipertensione. Lo sostiene Amrita Ahluwalia della Barts e London school of medicine and dentistry alla Queen Mary university di Londra, Regno Unito, nonché coordinatrice di uno studio pubblicato su Hypertension. «A dispetto di 60 anni di progressi nella farmacoterapia dell’ipertensione, solo metà dei pazienti vengono trattati, e di questi solo il 50% ha valori pressori ben controllati» spiega la ricercatrice, sottolineando la necessità di nuove strategie terapeutiche. Tra queste ci sono gli approcci dietetici, che si basano sulla trasformazione dei nitrati alimentari in ossido nitrico (NO), un potente vasodilatatore. Nella maggior parte delle malattie cardiovascolari, tra cui l'ipertensione, i livelli di NO endoteliale sono diminuiti, e la produzione di NO dalla riduzione chimica di nitrito inorganico (NO2-) è un potenziale percorso per ripristinarne le concentrazioni. «Il 20% dei nitrati assorbiti dall’intestino tenue viene catturato dalle ghiandole salivari e secreto in bocca; da qui i batteri orali li trasformano in NO2- che entra in circolo e, grazie alla nitrito riduttasi, è convertito a NO con vasodilatazione e riduzione della pressione» aggiunge Ahluwalia, che assieme ai colleghi ha suddiviso in due gruppi 68 ambosessi ipertesi tra 18 e 85 anni trattandoli con 250 ml di succo di barbabietola o con placebo e controllandone la pressione per un mese. Ebbene, la supplementazione giornaliera di nitrato con la dieta, oltre che ben tollerata, si è associata, rispetto al placebo, a una riduzione della pressione arteriosa nel periodo di osservazione. «I nitrati alimentari forniscono una valida opzione per sfruttare il percorso dell’ossido nitrico, e una strategia che preveda l’assunzione di verdure ricche di nitrati potrebbe essere un’opzione efficace e poco costosa per abbassare la pressione nei soggetti a rischio o non trattati» conclude la ricercatrice.

Hypertension. 2014 Nov 24. doi: 10.1161/HYPERTENSIONAHA.114.04675

13 dicembre 2014

TIROIDE E GLUTINE: STUDI SCIENTIFICI DIMOSTRANO IL LEGAME


imagesI ricercatori hanno scoperto che gli autoanticorpi organo-specifici (ad esempio, anticorpi anti-tiroide) scompaiono dopo circa  3 -6 mesi di una dieta priva di glutine. [1]
La ghiandola tiroidea, afferma Freeman, a causa dello sviluppo embrionale che condivide con il tratto gastrointestinale, è soggetta a noduli e linfomi proprio come avviene in caso di intolleranza al glutine a livello intestinale. [2]
Il glutine causa lo stress metabolico della tiroide
Konopka documenta che a livello biologico c’è un aumento della capacità di buffer c-AMP dei tessuti della tiroide dopo 7 mesi di adozione di un regime senza glutine.
Cioè il consumo di glutine determinerebbe, in parole semplici, un’interferenza cronica a livello cellulare che pone sotto STRESS la tiroide.
Questa reattività a distanza con antigeni generati dall’intolleranza al glutine viene alimentata senza dubbio, dalla aumentata permeabilità della mucosa intestinale che caratterizza l’assunzione di glutine. [3]

Il grano che mangiamo è stato modificato

Se il problema col glutine fosse il risultato di decenni di ripetuti e differenti interventi sulle varietà di grano che sta alla base della maggior parte del cibo che mangiamo?
Questo si chiede Claudia Benatti, giornalista della Gazzetta di Modena, in un articolo inserito nel n. 193 di AAM Terranova.
“C’era una volta, in Puglia, un grano duro di nome “Cappelli”. Fino agli anni ’60 questo alimento era alla base della dieta della popolazione pugliese, ma questo povero grano, unica varietà coltivata nel Mezzogiorno d’Italia, apprezzato per la qualità, era, purtroppo per lui e per noi, poco produttivo.
Così, un bel giorno del 1974, il Professore Gian Tommaso Scarascia Mugnozza, (attuale presidente dell’Accademia delle Scienze) con un gruppo di ricercatori del CNEN (Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare) indusse una mutazione genetica nel grano duro denominato “Cappelli”, esponendolo ai raggi gamma di un reattore nucleare per ottenere una mutazione genetica e, in seguito,incrociandolo con una varietà americana. Dopo la mutazione, il povero grano era diventato “nano”, mostrando differenze, in positivo, in caratteri come la produttività e la precocità nella crescita. Questo nuovo tipo di grano mutato geneticamente, non OGM, ma irradiato, fu battezzato “Creso” e, con esso oggi si prepara ogni tipo di pane, pasta, dolci, pizze, alcuni salumi, capsule per farmaci, ecc. (con questa farina si prepara circa il 90% della pasta venduta in Italia). [5]
“Quello che pochi sanno è che, il grano Creso, è responsabile dell’enorme aumento della celiachia, per l’alterazione del pH digestivo e la perdita di flora batterica autoctona, che determinano anomale reazioni anche per l’aumento di glutine che quel tipo di grano mutato geneticamente ha apportato all’alimentazione umana.
Il fatto che il glutine possa causare problemi di salute, posto in termini biochimici, deriva dal suo contenuto di un particolare frammento di questa proteina in cui gli aminoacidi prolina e glutenina sono ad una certa distanza tra di loro (molto vicine) per cui non riescono ad essere deamidate dall’enzima specifico (Arentz-Hansen 2000, Vader 2002, Sollid 2002). Detto in un linguaggio molto tecnico, l’apparato digestivo dei mammiferi non ha una capacità infinita di idrolizzare i legami ammidici quando sono adiacenti a residui di prolina. Questo non e’ un problema col riso, con l’orzo antico, con il grano saraceno, con il miglio, con l’amaranto e la quinoa, ma lo e’ col frumento.
Il fallimento progressivo degli enzimi addetti a digerire la proteina del frumento crea una tempesta di detriti infiammatori che non è circoscritta solo a livello intestinale, ma innesca un fenomeno autoimmune a carico di vari apparati e organi.

Malattie da glutine?

Vediamo quelle della tiroide che scompaiono quando si sospende il consumo di glutine. Ebbene si, le anomalìe alla tiroide si normalizzavano con due mesi di dieta senza glutine secondo i seguenti ricercatori: Magazzu (1983), Collin (1994), Borg (1994), Batge (1998), Ventura (1999), Sategna-Guidetti (2001), Barera (2001), La Villa (2003), Jiskra (2003), Berti (2000), Kowalska (2000), Counsell (1994).
Valentino (1999) descrive una 23enne con diagnosi di ipotiroidismo dovuto a tiroidite di Hashimoto che coesiste con morbo di Addison e blocco ovarico. A distanza di tre mesi dalla sospensione del glutine fu registrato un notevole miglioramento clinico, la riduzione progressiva dei farmaci per la tiroide e per l’insufficienza surrenale.” [7]

Normalizzazione della tiroide con una dieta senza glutine

Sategna-Guidetti [2001] valuta gli effetti dell’adozione di un regime senza glutine in pazienti celiaci precedentemente a dieta libera (con glutine), che dalle analisi risultano affetti da ipotiroidismo (31 casi) otiroidite autoimmune (29 casi). Nella maggior parte dei pazienti dopo un anno senza glutine si registra una normalizzazione delle condizioni della tiroide, specialmente in coloro che erano stati più  scrupolosi nell’applicazione del regime senza glutine. [4]

TIROIDITI ASSOCIATE AL DIABETE-1 ED ALLA CELIACHIA
Molto spesso le tiroiditi primarie, Hashimoto e non-Hashimoto, sono associate aldiabete-1 e alla celiachia, ovvero a patologie che comportano una atrofia dei 5 milioni di villi intestinali che stanno nel piccolo intestino, una atrofia dei due campi da tennis assimilativi che tutti possediamo (400-600 metri quadri). Una atrofia causata essenzialmente da tre tipi di cibastri sbagliati che diventano collanti velenosi in sede di piccolo intestino, e che sono nell’ordine:
A) Cadaverina e omega-3 ittici, associati ai relativi grassi saturi.
B) Caseina (tutti i latticini).
C) Glutine (preferire dunque miglio, saraceno, quinoa, riso integrale, cioè cereali privi di glutine, e farina di avena rollata a freddo con basso contenuto di glutine ed alto valore nutritivo). Ottimi anche i semini di sesamo, lino, girasole, finocchio, zucca. [8]

ZUCCHERO NEMICO GIURATO DELLA TIROIDE E DELLA SALUTE IN GENERALE

In aggiunta a quanto sopra va eliminato lo zucchero industriale in tutte le sue forme e le sue versioni, evidenti e nascoste, pertanto serve un letterale repulisti di merendine, creme, marmellate, confetture, dolci, dolcetti, cioccolatini, bibite, cole, persino succhi confezionati e pastorizzati.
Nessun limite se non quello della logica e della sazietà agli alimenti vivi, innocenti e crudi della natura, si chiamino essi frutta, verdura da orto, verdura selvatica, funghi, tuberi, germogli. Un minimo di trasgressioni è concesso per pane, pizza e pasta, specie nella versione integrale, per chi non ha nessun problema a metabolizzarli, e per chi non può davvero farne a meno. Lo zucchero della frutta viva e cruda non ha alcuna controindicazione, per cui va limitato e gradualizzato nei casi diabete. [8]
Fonti
[5] Creso
[7] Lorenzo Acerra, autore del libro “Mal di glutine” E-book “Mal di Glutine” gratuito

FONTE: Dionidream

05 dicembre 2014

La dieta mediterranea allunga i telomeri e, dunque, anche la vita

 Verdura, pesce, olio d’oliva, frutta, noci, cereali, specie non raffinati, legumi e vino ai pasti. La dieta mediterranea è nota per gli effetti benefici sulla salute, tra i quali la riduzione del rischio di malattie croniche nonché della mortalità. E a questo proposito un team di ricercatori americani coordinati da Immaculata De Vivo, professore associato di medicina alla Harvard medical school, ha deciso di verificare se l'aderenza alla dieta mediterranea fosse correlata alla lunghezza dei telomeri. «Questi ultimi sono una sorta di cappucci che coprono le estremità dei cromosomi impedendone l’usura» spiega la ricercatrice, precisando che nei sani si accorciano progressivamente per tutta la vita, più che dimezzando la loro lunghezza dall'infanzia all'età adulta, e dimezzandosi di nuovo nei grandi anziani. «I telomeri corti, dunque, si legano a una minore aspettativa di vita e a un rischio maggiore di malattie legate all'età» riprende l’autrice, sottolineando che fattori dello stile di vita, come l'obesità, il fumo e il consumo di bevande zuccherate, accorciano i telomeri più rapidamente, come anche lo stress ossidativo e l'infiammazione. Dato che frutta, verdura e noci, componenti chiave della dieta mediterranea, hanno ben noti effetti antiossidanti e antinfiammatori, i ricercatori hanno analizzato in proposito i dati di 4.676 donne di mezza età in buona salute arruolate nel Nurses’ health study, un trial osservazionale in corso dal 1976 sul monitoraggio della salute di oltre 120.000 infermiere statunitensi. E risultati pubblicati sul British medical journal indicano che l’aderenza alla dieta mediterranea si lega in modo diretto alla lunghezza dei telomeri, senza tuttavia un’associazione diretta con un singolo alimento. «Ciò sottolinea l’importanza per la salute dei modelli alimentari globali e non solo dei singoli fattori dietetici come, per esempio, l'assunzione di cereali integrali» commenta De Vivo. E Peter Nilsson, dell'università di Lund in Svezia, osserva in un editoriale: «La dieta mediterranea è un cardine della prevenzione cardiovascolare, e rassicura sapere che ha un ruolo anche nell’invecchiamento. 

11 novembre 2014

ASSE INTESTINO-CERVELLO (Paolo Mainardi) l'autore di "Alla ricerca dell'Una"

La fisica insegna che nei sistemi complessi le relazioni tra le parti generano nuove proprietà, non riconducibili a quelle delle singole parti. Anche se il corpo umano è sicuramente un sistema complesso, tale approccio della fisica dei sistemi complessi non è stato ancora applicato alla medicina, che, con approccio più botanico, ha suddiviso il corpo in una sommatoria di organi separati tra loro.

Recenti studi mettono in risalto le capacità comunicative tra organi e consentono nuovi approcci terapeutici.

Ruolo nutrizionale:
Una evidenza quasi banale del collegamento intestino-cervello è quella nutrizionale.Alcuni dei neurotrasmettitori, molecole essenziali per il funzionamento del cervello, derivano da ammino acidi essenziali, ovvero che derivano solo dalla demolizione delle proteine della dieta. Per esempio, la serotonina cerebrale viene sintetizzata a partire dall’ammino acido triptofano, la dopamina, la noradrenalina, e l’adrenalina dalla tirosina, mentre, invece, dalla decarbossilazione della istidina si ottiene l’istammina che viene captata dal cervello.

I processi di decarbossilazione sono affidati al microbiota intestinale e una flora disbiotica decarbossila eccessivamente anche il triptofano e la tirosina, riducendo la loro captazione cerebrale e, quindi, la sintesi dei diversi neurotrasmettitori. Inoltre questi ammino acidi competono tutti per la stessa porta di accesso cerebrale, quindi la capacità di essere captati dipende dal loro rapporto delle concentrazione plasmatiche. Così, ad esempio, una maggiore decarbossilazione del triptofano avvantaggia la captazione della tirosina. 
Questa disbiosi del triptofano è fondamentale per la nostra sopravvivenza e costituisce la cosiddetta Acute PhaseReaction (APR): in caso di pericolo si riduce la captazione di triptofano, quindi la sintesi cerebrale di serotonina. Questo ci rende ansiosi, quindi l’ansia è una risposta positiva agli agenti stressogeni, in quanto la riduzione del triptofano avvantaggia la captazione della tirosina, che ci rende più abili, dopamina, più furbi, noradrenalina, più forti, adrenalina, quindi maggiormente capaci ad affrontare un pericolo.

Ruolo nei processi autoriparativi
La risposta in fase acuta ad un agente stressogeno è una risposta positiva, ma se questa disbiosi diventa cronica, ovvero l’intestino, come una molla snervata, non riesce a ripristinare le condizioni iniziali, allora si cade nella ChronicPhaseReaction (CPR) che è stata definita la “madre di tutte le patologie”(1).

Questa fragilità viene acquisita in quanto il triptofano controlla, anche, la sintesi cerebrale di NPY(2), un neuropeptide che controlla i processi di neurogenesi e sinaptogenesi, quindi la capacità del cervello di auto-ripararsi.(3)

Ruolo nella risposta immunitaria
Il triptofano controlla, anche, la risposta immunitaria, risposta che nelle donne deve ridursi ciclicamente per evitare un attacco anticorpale ad un eventuale feto.(4)La corrispondente diminuzione di serotonina porta alla ben nota sindrome pre-mestruale. L’intestino della donna è quindi costretto ad un lavoro maggiore di quello dell’uomo, può più facilmente snervarsi. Quindi il livello di triptofano può non ritornare ai livelli normali, riducendo l’NPY cerebrale, quindi la plasticità del sistema nervoso centrale. Questo spiega la maggiore incidenza nelle donne di patologie neurologiche, come ad esempio la depressione.

Ruolo nella degenerazione cellulare
Non solo, il triptofano controlla, anche, la morte per apoptosi cellulare.(5) La nostra sopravvivenza si è basata principalmente sulla capacità di riparare i danni che l’ambiente continuamente ci procura. Per esempio siamo capaci di riparare il DNA danneggiato, direttamente o indirettamente, tramite i noti radicali liberi, dalle radiazioni. Abbiamo affidato questo compito al microbiota intestinale, esercito 10 volte più numeroso di noi cioè 50 miliardi di cellule!. Esso genera molecole “sartine” capaci di individuare i danni del DNA e ripararlo.(6)

Se questa azione non avviene, viene allora indotta la degenerazione cellulare per permettere una rapida individuazione del problema e consentire agli anticorpi di eliminare, per apoptosi, le cellule degenerate.(7)Oggi le terapie anti-tumorali si basano sul controllo della degenerazione, ma, forse, sarebbe più utile ripristinare il fucile dell’apoptosi.

Ruolo nelle patologie autoimmuni
La produzione linfocitaria avviene in modo causale, produciamo anticorpi contro il nulla, contro noi stessi e contro reali nemici. Poi, nel processo di maturazione, li testiamo e scartiamo quelli sbagliati, che sono il 97% della produzione. Li eliminiamo inducendo la loro morte per apoptosi. Soprattutto in soggetti con elevata permeabilità intestinale, ovvero con una elevata produzione di anticorpi, una diminuita capacità ad eliminare quelli sbagliati porta ad un maggior numero di auto-anticorpi. Quindi la maggiore incidenza di patologie autoimmuni nelle donne non è dovuta ad una maggiore propensione del loro sistema immunitario a “impazzire”, ma ad una ridotta capacità di ripulire la produzione anticorpale da quelli, normalmente, prodotti contro noi stessi.

 Nonostante le elevate conoscenze, oggi l’intestino viene considerato solo come un sistema postale, svizzero, capace di far arrivare ciò che vogliamo dove vogliamo. Esempio, la melatonina nel cervello, gli ammino acidi ramificati nei muscoli, il collagene nelle articolazioni.

Gli stessi nuovi farmaci, che saranno assunti oralmente, vengono studiati escludendo il sistema intestinale, iniettandoli in vena o peritoneo di animali. I loro meccanismi d’azione vengono valutati su cellule isolate, dove mettiamo a disposizione di una singola cellula una quantità di farmaco notevolmente superiore a quella che sappiamo arrivare in tutto quel tessuto, quando somministrata oralmente. Quando questo dato è noto, in quanto, nonostante la determinazione della distribuzione tissutale sia obbligatoria nella fase di registrazione di un farmaco, spesso non sono pubblicati, in quanto negativi ad un’immagine di una farmaco in grado di agire sulle funzioni complesse cellulari.

Eppure sappiamo come l’intestino sia complesso, capace di reagire agli stimoli/nutrienti e attivare complesse risposte endogene. Recenti lavori mostrano come l’infiammazione tissutale sia la causa di diverse patologie, dai tumori e quelle neurologiche e comportamentali.

L’infiammazione cerebrale è riportata essere la causa patogenetica, non un fattore predisponente, di epilessia,(8) depressione, sclerosi multipla, Parkinson, Alzheimer,(9) autismo,(10) …

L’infiammazione degli organi sessuali è riportata essere la causa di disfunzioni. Riazi dimostra come una infiammazione intestinale possa migrare su altri organi. (11, 12)

Quindi ridurre una infiammazione intestinale, anche con una “semplice” dieta, può ridurre sintomi di patologie apparentemente distanti tra loro.(13, 14, 15, 16, 17)

Il prendere in considerazione gli assi comunicativi del sistema complesso del corpo umano, sembra mettere in evidenza come le malattie non siano tanto dovute alla esposizione a nuovi agenti patogeni, quanto alla diminuita capacità di riparare i danni che questi, continuamente, ci arrecano.

I processi endogeni di auto-riparazione partono principalmente dall’intestino, mantenerlo efficiente rappresenta la maggiore forma di prevenzione.

Bevande fermentate

 I probiotici sono tra i parafarmaci più consumati al mondo e i loro effetti benefici sull'organismo sono stati confermati anche a livello scientifico. Tuttavia già da molti secoli alcune popolazioni consumano cibi e bevande fermentate ad alto profilo probiotico anche di origine vegetale. Nella tradizione turca ad esempio esiste il succo shalgam che si ottiene ponendo a fermentare carote nere, sale, rape, lievito di panificazione (Saccharomyces cerevisiae) e acqua. La fermentazione avviene a temperature comprese tra 10°C e 35&de g;C per 3-5 giorni. Il microflora batterica che viene a formarsi è composta principalmente da Lactobacillus (LAB) (89.63%) seguita da Leuconostoc (9,63%) e Pediococcus (0,74%). Il livello di LAB totale è stato segnalato nel range di 7,10-8,90 log cfu/g. Tra i LAB rilevati i Lactobacillus plantarum, Lactobacillus brevis e Lactobacillus paracasei sono i predominanti. Il prodotto è conservabile per 3 mesi a temperatura di 4°C. Sempre nella tradizione turca compare l'hardaliye che si ottiene facendo fermentare a temperatura ambiente per 5-10 giorni, acini d'uva pressati e foglie di ciliegio in presenza di 0,2% di semi di senape frantumati. Il quantitativo di LAB che si forma entra nel range di 100 - 40.000 cfu/mL e i ceppi predominanti sono L. paracasei e L. casei subsp. pseudoplantarum. In questo caso la presenza di un antibatterico naturale come l'allil isotiocianato della senape, rende il preparato conservabile per lunghi periodi. Boza è invece una bevanda fermentata prodotta a partire dalla farina che può essere di miglio, mais, grano o di riso, grazie all'azione del lievito e della fermentazione acida lattica. Nella fase di preparazione la farina viene aggiunta di un volume 5 volte maggiore di acqua e la miscela viene fatta bollire per 1-2 ore a seconda della materia prima di partenza fino alla formazione della pasta omogenea. La miscela viene quindi filtrata e raffreddata mescolando per evitare la formazione di una crosta in superficie. Del saccarosio in polvere (20-25%) viene quindi aggiunto come substrato per LAB e lieviti. La fermentazione avviene a 30°C per 24 ore. Due tipi di fermentazione si osservano nel boza: la fermentazione acida lattica da LAB e la fermentazione alcolica dai lieviti. I LAB e i lieviti totali conteggiati nel boza variano all'interno della gamma di 2,94×100.000 - 4,6×100 milioni ufc/ml e 2,24×100.000 -8,40 ×10 milioni ufc/mL, rispettivamente. Sono stati isolati 77 ceppi diversi di LAB e 70 di lieviti dal boza, tuttavia la shelf-life è piuttosto breve, superiore comunque ai 15 giorni e se conservato a T non minori di 10°C. 

International Journal of Food Microbiology 167 (2013) 44 -56

Angelo Siviero
Farmacista, esperto in Fitoterapia clinica
Padova

18 ottobre 2014

"Ricerca della Johns Hopkins University School of Medicine". Dalle crucifere una possibile cura per l'autismo

Buone prospettive per il trattamento dell’autismo arrivano da delle semplici piante appartenenti alla famiglia delle crucifere. Un piccolo studio condotto dai ricercatori del MassGeneral Hospital for Children (MGHfC) e la Johns Hopkins University School of Medicine ha infatti provato che il trattamento giornaliero con il sulforafano – la molecola attiva che si trova nelle verdure come broccoli, cavolfiori e cavoli (piante appartenenti alla famiglia delle crucifere) – può migliorare alcuni dei sintomi dei disturbi dello spettro autistico.
Nel rapporto sullo studio, pubblicato online su PNAS Early Edition, i ricercatori descrivono come i partecipanti hanno mostrato un miglioramento sia nelle valutazioni comportamentali che di comunicazione, in appena quattro settimane di trattamento con una dose giornaliera di sulforafano.
«Nel corso degli anni ci sono stati diversi resoconti aneddotici sul fatto che i bambini con autismo possono avere miglioramenti nell’interazione sociale e, talvolta, nelle competenze linguistiche quando hanno la febbre – spiega il dott. Andrew Zimmerman, coautore e corrispondente del report – Abbiamo studiato quello che potrebbe esserci dietro a livello cellulare e ipotizzato cosa risulterebbe dall’attivazione della febbre da risposta allo stress cellulare, in cui i meccanismi cellulari di protezione che di solito sono tenuti in riserva sono attivati attraverso l’attivazione della trascrizione genica».
Per questo studio sono stati arruolati 44 giovani di età compresa tra i 13 e i 27 anni. A tutti erano stato diagnosticato da moderato a grave disturbo dello spettro autistico. I partecipanti sono poi stati assegnati a ricevere in modo casuale o una dose giornaliera sulforafano – estratto da germogli di broccoli – o un placebo. Il tutto in doppio cieco, dove né gli investigatori, i partecipanti e né i loro caregivers sapevano chi stesse ricevendo il sulforafano o il placebo.
I partecipanti sono poi stati valutati – sia dai caregivers che dai ricercatori – usando misure standardizzate di comportamento e di interazione sociale in via preliminare allo studio e poi a 4, 10 e 18 settimane dopo che il trattamento era iniziato. Il trattamento è stato interrotto dopo 18 settimane, e valutazioni supplementari sono state compiute dopo 4 settimane, ossia a 22 settimane.
Secondo l’autore principale dello studio, dott. Kanwaljit Singh del MGHfC, Lurie Center e UMass, tra i 40 partecipanti che sono tornati per ottenere almeno una valutazione, i punteggi medi per ciascuna delle valutazioni erano significativamente migliori in 26 dei partecipanti che avevano ricevuto il sulforafano rispetto a 14 che hanno ricevuto il placebo.
Anche alla visita dopo 4 settimane, alcuni caregivers hanno riportato un miglioramento comportamentale evidente. Mentre alla fine del periodo di studio, sia il personale di studio che i familiari hanno correttamente indovinato le assegnazioni di molti partecipanti. Complessivamente, 17 dei 26 partecipanti che hanno ricevuto il sulforafano sono stati giudicati positivamente dai loro caregivers con miglioramenti nel comportamento, nell’interazione sociale e nella calma durante il trattamento attivo.
Anche i punteggi medi su due valutazioni quali la Lista di Controllo sul Comportamento Aberrante (ABC) e la Scala di Reattività Sociale (SRS) sono migliorati in modo significativo dopo 18 settimane di studio. Nei partecipanti che hanno ricevuto il sulforafano i punteggi erano diminuiti rispettivamente del 34% e 17% per cento. Il che si traduce in un miglioramento di fattori quali irritabilità, letargia, movimenti ripetitivi, iperattività e poi nella comunicazione, la motivazione e nell’imitazione dei modelli.
Le valutazioni che invece utilizzano la scala Clinical Global Impression hanno indicato che il 46% di coloro che hanno ricevuto il sulforafano mostravano un notevole miglioramento nell’interazione sociale; il 54% nei comportamenti aberranti, e il 42% nella comunicazione verbale. Infine, la maggior parte, ma non tutti i miglioramenti, erano scomparsi dalla 22ma settimana di rivalutazione (quando i partecipanti non ricevevano più il trattamento con il sulforafano), supportando la probabilità che a cambiare le cose era stata l’interruzione del trattamento con sulforafano.
«Quando abbiamo rotto il codice che ha rivelato chi stava ricevendo il sulforafano e chi il placebo, i risultati non sono stati sorprendenti per noi, dal momento che i miglioramenti erano così evidenti – sottolinea il dott. Zimmerman, professore di Neurologia Pediatrica presso UMass – I miglioramenti osservati sulla Scala di Reattività Sociale erano particolarmente notevoli, e mi è stato detto che questa è la prima volta che un miglioramento statisticamente significativo sulla SRS si è visto per uno studio sul farmaco nel disturbo dello spettro autistico».
«Ma è importante notare – aggiunge Zimmerman – che i miglioramenti non hanno interessato tutti (circa un terzo non ha avuto alcun miglioramento) e lo studio deve essere ripetuto in un gruppo più ampio di adulti e bambini, qualcosa che speriamo di organizzare presto. In definitiva, abbiamo bisogno di ottenere dalla biologia di base gli effetti che abbiamo osservato e studiarli a livello cellulare. Penso che ciò sarà fatto, e spero che ci insegnerà molto su questa malattia ancora poco conosciuta».

06 ottobre 2014

CANCRO AL SENO DOPO LA MENOPAUSA

Se colonizzato da una flora batterica sana e diversificata, l’intestino delle donne in post-menopausa è più efficiente nel metabolizzare gli estrogeni, potenziali fattori di rischio per il cancro al seno. Sono queste le conclusioni di uno studio pubblicato sul Journal of Clinical Endocrinology and Metabolism coordinato da Barbara Fuhrman, professore di epidemiologia all’University of Arkansas for Medical Sciences. «La capacità di metabolizzare gli estrogeni e il rischio di cancro al seno nelle donne in post-menopausa dipende anche dalla composizione del microbiota intestinale» esordisce la ricercatrice, ricordando che gli estrogeni vengono metabolizzati in gran parte nel fegato ed escreti con la bile nell’intestino. «E il microbiota, a seconda dei batteri che lo compongono, può ulteriormente modificare i metaboliti favorendone il riassorbimento nel flusso sanguigno» riprende, ipotizzando che le donne con un microbiota efficiente nel metabolizzare gli estrogeni intestinali potrebbero avere un ridotto rischio di cancro al seno. Lo studio ha coinvolto 60 donne da 55 a 70 anni in post-menopausa assistite dal provider sanitario Kaiser Permanente in Colorado. «Tutte avevano una mammografia normale prima di entrare nello studio» riprende l’epidemiologa, spiegando che durante il follow-up sono stati prelevati sia campioni di feci per valutare la biodiversità della flora batterica, sia campioni di urina per esaminare il rapporto tra estrogeni e i loro metaboliti. «I pazienti con microbiota polimorfo avevano un rapporto più elevato tra metaboliti ed estrogeni, specie in presenza di batteri della classe Clostridium, soprattutto il genere Ruminococcus. Viceversa, la presenza di un elevato numero di germi del genere Bacteroides era inversamente proporzionale al tasso di metabolizzazione. «Dato che i risultati dello studio si basano sul sequenziamento dell’Rna ribosomiale e non su quello del genoma, è difficile stabilire un collegamento diretto tra una singola specie di microbi e la produzione di metaboliti degli estrogeni» puntualizza Fuhrman. E conclude: «Ciononostante, questi dati sono il primo passo verso la comprensione del ruolo del microbiota nell’omeostasi degli estrogeni e il suo impatto sulla salute umana».


J Clin Endocrinol Metab 2014. doi: 10.1210/jc.2014-2222

23 luglio 2014

Vitamina D e cancro


Vitamina D e cancro
L’estate volge al termine e ci incamminiamo nel lungo inverno della carenza di vitamina D.

La vitamina D in realtà non è nemmeno una vitamina nel senso stretto del termine, ma è un potentissimo ormone steroide che viene prodotto quando la nosta pelle viene colpita da una quantità adeguata di luce solare ultravioletta, ad una lunghezza d’onda di 290-315 nanometri e viene poi attivato a livello del fegato e dei reni.
Oggi siamo sempre meno esposti alla luce solare, soprattutto in inverno. La nostra vita scorre quasi tutta in luoghi chiusi (case, uffici, negozi, automobili) e ogni qualvolta ci esponiamo al sole stiamo attentissimi a proteggerci con filtri solari sempre più selettivi, soprattutto per il diffuso timore che l’esposizione al sole sia pericolosa.
Gli studi dimostrano che la carenza di vi tamina D è collegata ad una maggiore incidenza di cancro (soprattutto seno, polmone, colon e prostata), attacchi cardiaci,ipertensione arteriosa, ictus, diabete, sclerosi multipla, malattie autoimmu ni, depressione stagionale e altri disturbi mentali, morbo di Alzheimer, osteoporosi, dolori cronici muscolari e articolari, influenza e raffreddori, asma, stanchezza cronica.
La Vitamina D accelera la guarigione dei tessuti, ed avendo un effetto antiproliferativo riduce il rischio di degenerazione neoplastica, regola l’apoptosi e la differenziazione cellulare.
Negli Stati Uniti si e’ visto che l’integrazione di 1000 unità internazionali al giorno di vitamina D riduce la mortalità per cancro nel 9% delle donne e nel 7% degli uomini.
In uno studio pubblicato nel 2007 sull’ American Journal of Clinical Nutrition le donne in postmenopausa che avevano assunto calcio e vitamina D avevano registrato una diminuzione del 77% del rischio di sviluppare cancro. Per ogni aumento di 10 ng/ml di vitamina D nel sangue, il rischio relativo di cancro è crollato del 35%.
Secondo l’American Cancer Society il cancro al seno e’ la seconda causa di morte nelle donne degli Stati Uniti. Il tasso di questo tumore e’ più alto nelle donne bianche dopo i quarant’anni ed e’ elevato nelle donne nere al di sotto dei 40 anni. Queste ultime hanno anche maggior probabilità di morire di cancro al seno ad ogni età. I tessuti del seno hanno recettori della vitamina D, quindi risentono abbastanza del tasso di vitamina D disponibile.
La vitamina D agisce sui tumori interferendo nella costituzione dei vasi sanguigni che li alimentano. Le donne che hanno livello ematico di vitamina D più basso di 20 ng/ml possono avere un’incidenza di cancro al seno maggiore del 50%; d’altro canto l’attualefabbisogno medio (R.D.) di vitamina D è insufficiente per aumentare i livelli fino a 30 ng/ml.
I livelli bassi di vitamina D (al di sotto dei 20 ng/ml) sono associati ad un aumento del rischio di cancro del colon dal 20 al 50%. Una metanalisi ha evidenziato che livelli ematici di vitamina D sui 33 ng/ml sono associati ad una diminuzione del 50% del rischio di cancro al colon rispetto a livelli di 12 ng/ml.
Per quanto riguarda l’apparato cardiovascolare l’Healt Professoional Follow Up Studyl ha raccolti campioni di sangue di oltre 51.000 mila operatori sanitari di sesso maschile che nel 1986 avevano tra i 40 e 75 anni, ha evidenziato che chi aveva una carenza di vitamina D (con livelli inferiori di 15 ng/ml) ha avuto il 242% di possibilità in più di avere un attacco di cuore rispetto a chi aveva livelli di almeno 30 ng/ml.
La carenza di vitamina D è oggi universale e colpisce la quasi totalità della popolazione, specie nei paesi al di sopra del 35° parallelo come l’Italia. Maggiore e’ la latitudine, meno efficaci i raggi ultravioletti nel produrre la vitamina.
Alle nostre latitudini da novembre a marzo i raggi UV non sono in grado di produrre la vitamina. Una crema solare con fattore di protezione 8 abbatte fino al 92% la produzione di vitamina D, un fattore di protezione 15 fino al 99%.
D’altro canto le persone che passano molto tempo ad abbronzarsi producono piu’ melanina sulla pelle e quindi hanno una ridotta capacita’ di convertire la luce solare in vitamina D.
Per usufruire del sole in modo sicuro bisogna attenersi alla seguente regola: esporre il 25% della pelle (mani, braccia e parte inferiore delle gambe)per un periodo di tempo che va dal 25 al 50% del tempo che si presume sia necessario alla pelle per arrossarsi.
Perciò se non vivete ai Tropici e se non passate la maggior parte delle vostre giornate nudi sotto il sole è pressoché impossibile cha il vostro organismo produca abbastanza vitamina D per tutte le sue necessità e di venta quindi necessario assumerla come supplemento.
In effetti per assumere almeno 1000 unità internazionali (UI) bisognerebbe bere 10 bicchieri di latte da 240 ml l’uno.
Nella nostra popolazione vi e’ un epidemia di carenza di vitamina D; meno del 5% raggiungono un livello nel sangue di 40-50 ng/ml oggi considerati ideali, mentre la maggior parte è collocata fra i 5 ed i 20 ng/ml. Ossia livelli già bassi anche per gli obsoleti range di normalità nei nostri laboratori che erano basati sul minimo di 20 ng/ml per scongiurare il rachitismo. Si è valutato inoltre che tra il 40 e il 100% delle persone anziane sia carente di vitamina D.
La pratica ha dimostrato che per raggiungere i 50 ng/ mi sono necessari almeno 5000 UI al giorno di vitamina D3, contro una RDA di 600-800 UI. La somministrazione di queste quantità è però consigliata solo sotto controllo medico mentre per i soggetti che non effettuano controlli ematici è bene non superare le 2000 UI giornaliere.
L’eccesso di vitamina D è in realtà assai più raro di quanto si pensasse e valori ematici fino a 100 ng/ml non creano alcun problema. Il problema è quindi solo quello di non averne abbastanza.
Prof.Massimo Fioranelli

Direttore Scientifico ARTOI

Direttore “Centro Studi Scienze della vita”,
Università “G. Marconi” – Roma

09 luglio 2014

La dieta scritta nel Dna del pr Giuseppe Di Fede


dna


La soluzione a diete inconcludenti è scritta nel vostro Dna. Grazie allo studio approfondito dei geni coinvolti nel metabolismo e preferenze alimentari, è possibile elaborare piani nutrizionali personalizzati molto più efficaci nella perdita di peso, ma anche nella prevenzione di malattie come l’ipertensione, la depressione e il cancro. Studiare il genoma umano permette di aprire nuove possibilità per lo sviluppo di diete personalizzate e di alimenti funzionali, che migliorano la salute delle persone e quindi la loro qualità di vita.
Questo è quanto emerge dallo studio dei ricercatori dell’Università di Trieste e dell’Irccs Burlo Garofolo, l’istituto per la salute materno infantile triestino, presentato alla conferenza annuale della European Society of Human Genetics (Eshg).
I ricercatori friulani hanno iniziato il progetto Genome Wide Association Studies (Gwas) proprio per cercare di svelare le basi genetiche di alcune preferenze alimentari. Lo studio ha coinvolto 2311 italiani, e 1.755 persone, provenienti da diversi paesi europei e dell’Asia centrale, chiamate in seguito per verificare ulteriormente i risultati. I nostri studi saranno importanti per comprendere l’interazione tra l’ambiente, gli stili di vita e il genoma nel determinare lo stato di salute di una persona.
La ‘dieta genetica’ o meglio la Nutrigenomica si può adattare alle preferenze alimentari individuali e consente di ottimizzare il lavoro del metabolismo, per ottenere il meglio dai cibi che mangiamo. Inoltre, è semplice da seguire, perché ricordare i cibi che si amano di più o di meno, è più facile.
Lo studio della Nutrizione legato all’attività genetica, da dieci anni ormai, impegna lo staff dell’Istituto di Medicina Biologica di Milano, in collaborazione con L’Istituto di Medicina Genetica Preventiva Personalizzata, sempre di Milano. L’interazione gene e alimenti, interessa sia i ricercatori che i medici nutrizionisti, per creare soluzioni adeguate e personalizzate ai bisogni individuali. Il raggiungimento del risultato è in funzione di una buona aderenza alle indicazioni che fornirà lo specialista, seguendo le indicazioni del test genetico.
Ancora, in un recente studio, i ricercatori dell’Università di Trieste hanno personalizzato la dieta di 191 persone obese divise in due gruppi, 87 in un gruppo di prova e 104 in un gruppo di controllo in base alla conoscenza di alcuni geni. La dieta è quindi stata formulata in base ai singoli profili genetici , mantenendo l’apporto calorico complessivo, uguale per tutti. In due anni, le persone che avevano seguito la dieta genetica, anche se all’inizio dello studio non vi erano differenze significative per età, sesso e indice di massa corporea tra i due gruppi, avevano perso il 33% in più di peso rispetto al gruppo di controllo, e la loro percentuale di massa magra era aumentata di più rispetto agli altri.

01 luglio 2014

Zonulina e Leaky gut Syndrome (aumentata permeabilità intestinale)


a cura del dott Mario Mauro Amato

Il tratto gastrointestinale è composto da cellule che sono strettamente disposte e connesse da giunture ben serrate. Il tratto digestivo si infiamma come risultato di una cattiva digestione, stress elevato e molti altri fattori. Questa infiammazione compromette le giunture, permettendo a particelle di cibo indigerito, tossine e batteri di entrare nel circolo sanguigno. Una volta che queste particelle di cibo vengono assorbite, il sistema immunitario reagisce ed inizia ad attacarle poiché le considera come sconosciute e quindi una minaccia. Questo crea un circolo vizioso che genera altra infiammazione e che a sua volta promuove ulteriore permeabilità intestinale.
Questa condizione richiede solitamente anni per svilupparsi. Come il tratto gastrointestinale si danneggia, le cellule perdono la capacità di digerire il cibo a causa di una carenza enzimatica. E questo nel tempo può portare a malnutrizione, infiammazione, sovracrescita di funghi e batteri, intolleranze alimentari ed un sistema immunitario iperattivo.
Come misurare la permeabilità intestinale?
Zonulina
La zonulina è una proteina che regola la permeabilità dell’intestino. Gli anticorpi contro la zonulina indicano che la normale regolazione delle giunture è compromessa.
La zonulina è una proteina che modula le giunzioni strette degli enterociti, le cellule che costituiscono la parete intestinale. Essa si lega a uno specifico recettore dell’epitelio della superficie intestinale e innesca una cascata di reazioni biochimiche che creano un disassemblamento delle cellule epiteliali con un conseguente aumento della permeabilità intestinale.
Ciò fa sì che alcune sostanze passino attraverso l’epitelio stesso scatenando nel tessuto linfoide sottostante una serie di reazioni immunitarie.
La Zonulina è misurabile nel siero del soggetto attraverso un semplice prelievo di sangue.
Le persone con alti livelli di zonulina, quindi con aumentata permeabilità dell’intestino, presentano spesso disturbi intestinali riconducibili alle tipiche reazioni immunitarie come ad esempio intolleranze e allergie alimentari.
Sappiamo che i due principali fattori scatenanti della zonulina sono il glutine ed i batteri nel piccolo intestino. Quindi una SIBO(overgrowth batterico del piccolo intestino)non curata, un overgrowth di candida o la presenza di parassiti possono rappresentare una minaccia per l’intestino con possibile sviluppo di permeabilità intestinale.
In un articolo della rivista medica Diabetes, gli autori scrivono:
abbiamo recentemente scoperto una nuova proteina, la zonulina, che modula la permeabilità intestinale smantellando le strette giunture intercellulari (sapone et al 2006) – questa proteina, quando alterata, sembra avere un ruolo chiave nella patogenesi delle malattie autoimmuni.
http://www.centrodimedicinabiologica.it/