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13 settembre 2021

Lipedema: una patologia reale? articolo scritto dalla dott.ssa Cacciola Maria Stella - biologa nutrizionista

 Lipedema: È una patologia reale? Cosa possiamo fare per riconoscerlo e curarlo?

  








 

 Questo articolo nasce per divulgare questa affezione, il Lipedema, che, se pur non abbia ancora il riconoscimento di patologia, acquisisce giornalmente connotati sempre più chiari e scientificamente validati e nella speranza che sempre più i medici, specialmente quelli di medicina generale ed i pediatri guardino con occhi diversi le giovani donne e le adolescenti con problemi di sovrappeso e con squilibri ormonali, in modo particolare tutte quelle con familiarità per Obesità Ginoide aggravata da Linfedema giacché oggi ci sono prove serie sulla “ereditarietà” o comunque sulla predisposizione genetica del Lipedema, quasi esclusivamente in linea femminile.

     Mi sembra necessario chiarire subito i fondamenti di questa affezione per aiutare almeno a dare una connotazione chiara. 

    A tal riguardo preferisco utilizzare una definizione semplice e completa che ho trovato e che di seguito cito: “Il Lipedema è un disturbo cronico progressivo che colpisce quasi esclusivamente le donne. Clinicamente, è caratterizzato da una distribuzione anomala del tessuto adiposo, con conseguente sproporzione pronunciata tra estremità e tronco. Tale sproporzione è causata da un aumento localizzato e simmetrico del tessuto adiposo sottocutaneo negli arti inferiori e/o superiori. Altre scoperte includono edema (aggravato dall'ortostasi), nonché facile ecchimosi a seguito di traumi minori e, tipicamente, aumento della dolenzia con la pressione”

    Oggi è più facile diagnosticare il Lipedema ed aiutare efficacemente chi ne è affetto per l’esistenza di Linee Guida e Documenti di Consenso Statunitensi ed Europei per cui molti professionisti hanno intrapreso percorsi di formazione per la diagnosi ed il trattamento specifico. 

    Un aspetto da non trascurare è, purtroppo la mancanza ancora di un approccio integrato e coordinato fra più figure professionali ed il riconoscimento come patologia dal SSN. 

    In questo momento purtroppo, le donne affette da Lipedema, sono infatti tristemente consapevoli di avere poche possibilità di veder migliorare la propria situazione patologica proprio per la mancanza di strutture adeguate e convenzionate con il SSN. Questa importante lacuna nell’offerta sanitaria pubblica, non fa altro che addossare la gestione e la cura della patologia sulle sole spalle delle donne che ne soffrono e delle loro famiglie, esponendole a sacrifici di natura sia economica che psicologica. 

    È fondamentale che la Sanità territoriale acquisisca piena consapevolezza del problema e che gli stessi medici di famiglia si aggiornino al meglio su questa patologia che ha spesso un esordio precoce.

    Recenti studi condotti dal gruppo di lavoro del Pr Sandro Michelini, Ospedale San Giuseppe di Marino (RM), hanno portato ad una scoperta illuminante in tal senso: sarebbe proprio un gene, e sicuramente anche più di uno, infatti, ad avere una corresponsabilità determinante nell’esordio della patologia e questo è evidente anche alla luce del riconoscimento della patologia anche in ben 4 generazioni di donne della stessa famiglia senza coinvolgimento se non come portatori sani dei maschi della stessa.

    Approcciarla in modo serio e documentato diventa quindi fondamentale per giungere quanto più precocemente possibile ad una diagnosi definitiva che consenta a tutte le giovani donne di intraprendere un percorso corretto e personalizzato al fine di contenere al meglio i sintomi e l’evoluzione.

    L’approccio terapeutico ottimale al Lipedema è sostanzialmente, almeno in gran parte, contenitivo ed è quindi basato sul trattamento nutrizionale, il linfodrenaggio manuale di tipo Vodder, i bendaggi e l’elastocompressione. Chiaramente tutti questi trattamenti vanno personalizzati ed eseguiti da personale altamente specializzato e con documentata esperienza.

    Il punto estremo e finale rimane ancora oggi purtroppo la terapia chirurgica specializzata che comunque oggi è sempre più integrata con gli altri approcci terapeutici.

    Attualmente la dieta insieme con l’attività fisica moderata e personalizzata, il massaggio Vodder  e l’elastocompressione possono essere molto importanti per il controllo dell’affezione sin dall’esordio, che solitamente avviene nel periodo adolescenziale con aggravamenti in gravidanza e in menopausa.

 La dieta chetogenica e la dieta Low Carb, ben conosciuta come DIETA RAD (Rare Adipose Disorders),  con un basso apporto di carboidrati, in particolare da cereali, frutta e patate e particolarmente incentrata sull’utilizzo di carni bianche, uova, pesce, legumi e verdure fresche di stagione, oggi è riconosciuta a livello internazionale ed ha come obiettivo specifico soprattutto quello di regolare i livelli di insulina e ridurre l’infiammazione mirando quindi ad un riequilibrio ormonale.

     Il compito attuale e principale della dietoterapia moderna consiste prevalentemente nella regolazione e controllo dei livelli di insulina, in considerazione soprattutto della testimonianza dei tanti studi scientifici che correlano  l’infiammazione alla gran parte delle patologie a carattere cronico e all’iperinsulinemia prima e al diabete successivamente, determinati dall’eccesso di carboidrati presenti nell’alimentazione quotidiana. 

    Risulta importante consumare in modo ridotto cibi confezionati e prodotti alimentari “industriali” che sono eccessivamente carichi di zuccheri, di grassi trans e dei cosiddetti “interferenti endocrini”, sostanze queste ultime dimostrano di interferire con l’equilibrio ormonale naturale e nel tempo arrivare a provocare diabete e patologie endocrine.

    Credo profondamente che solo la diagnosi precoce del Lipedema possa garantire nuove ed affidabili prospettive di cura a tutte le donne che ne hanno bisogno. 

a cura della
dott.ssa Cacciola Maria Stella - biologa nutrizionista 


20 maggio 2021

Lipedema: Ora so che non è solo colpa mia! Articolo scritto dalla dott.ssa Cacciola Maria Stella

È da tempo che penso di scrivere un articolo sul Lipedema, perché da quando ne ho scoperto l’esistenza ho guardato con altri occhi tutte le donne che si presentano nel mio studio per una dieta. Ho iniziato a cercarlo nei loro corpi ma ancor di più nelle loro storie che raccontano di vite dedicate al raggiungimento di quel dimagramento localizzato, promesso da molti ma mai raggiunto.

Ho iniziato perciò a porre domande, per provare a capire il percorso fatto da ciascuna di loro, per non deluderle anch’io con vane promesse ma per provare ad aiutarle a migliorare il proprio aspetto fisico e la propria condizione di dolore e frustrazione senza aggiungere anche la mia incomprensione.

i vari stadi del Lipedema


Mi sembra opportuno chiarire subito le linee fondamentali di questa patologia per aiutare chiunque non la conosca almeno ad iniziare a capire di cosa si tratta e cominciare a comprendere anche un eventuale coinvolgimento personale o familiare. A tal riguardo preferisco utilizzare una definizione semplice e completa che ho trovato e che di seguito cito: “Il Lipedema è un disturbo cronico progressivo che colpisce quasi esclusivamente le donne. Clinicamente, è caratterizzato da una distribuzione anomala del tessuto adiposo, con conseguente sproporzione pronunciata tra estremità e tronco. Tale sproporzione è causata da un aumento localizzato e simmetrico del tessuto adiposo sottocutaneo negli arti inferiori e/o superiori. Altre scoperte includono edema (aggravato dall’ortostasi), nonché facile ecchimosi a seguito di traumi minori e, tipicamente, aumento della dolenzia con la pressione

Ciò premesso desidero prima di ogni cosa raccontare il mio primo incontro ufficiale con il Lipedema che è avvenuto grazie ad una giovane donna, Maria.

Maria era stata in Spagna per ricevere una diagnosi precoce di Lipedema e sottoporsi così ad un primo intervento chirurgico. Tornata in Italia, Maria si è messa subito in cerca di un nutrizionista che fosse a conoscenza della patologia e che le prescrivesse una dieta chetogenica mirata. Io facevo già diete chetogeniche da qualche hanno ma non conoscevo affatto questa condizione patologica, anzi ad essere sincera la conoscevo benissimo perché avevo visto molte donne soffrirne ma non sapevo di cosa si trattasse. E così, proprio col supporto di Maria che mi ha dato una mano con le traduzioni, ho cominciato ad approfondire l’argomento raccogliendo documentazione ed accedendo a studi specifici sull’argomento, pubblicati soprattutto in lingua spagnola o inglese.


Ho così scoperto, ad esempio, che la dieta chetogenica cui facevano riferimento quegli studi non corrispondeva appieno al trattamento chetogenico che noi utilizziamo ma che era piuttosto una dieta low carb con un basso apporto di carboidrati, in particolare di cereali, frutta e patate e particolarmente incentrata sull’utilizzo di carni bianche, uova, pesce, legumi e verdure fresche di stagione. Questo tipo di trattamento è oggi noto come DIETA RAD (Rare Adipose Disorders), una dieta di tipo antinfiammatorio riconosciuta a livello internazionale che mira ad un riequilibrio degli ormoni, riducendo drasticamente ma senza eliminarli del tutto gli alimenti ricchi di carboidrati ed eliminando del tutto lo zucchero, in tutte le sue varianti (bianco, grezzo, fruttosio, di canna, di cocco, di agave, miele etc…), per il suo elevato indice glicemico.

Questo tipo di approccio nutrizionale ha come obiettivo specifico soprattutto quello di regolare i livelli di insulina, l’ormone più importante e purtroppo anche più pericoloso, che viene prodotto dal pancreas quando il livello di glucosio nel sangue va oltre l’indispensabile ed il necessario. Quindi se il livello del glucosio nel sangue sale oltre il valore basale, il pancreas riceve un segnale dal cervello affinché rilasci questo specifico ormone che lo aggancia e lo trasporta a tutte le cellule. L’insulina contiene praticamente la “chiave” capace di aprire le porte di tutte le cellule, per entrare ed affidare gli zuccheri a chi all’interno ha la funzione di trarre da essi l’energia necessaria alle cellule per svolgere tutte le proprie funzioni.

Le varie cellule, una volta ricevuto il glucosio, lo utilizzano ciascuna secondo le proprie necessità e peculiarità. Le cellule muscolari, ad esempio, lo trasformano in energia per i muscoli che, così alimentati, svolgono al meglio le loro funzioni; le cellule neuronali utilizzano il glucosio per fornire l’energia necessaria al trasporto di tutte  le informazioni importanti che viaggiano sù e giù dal cervello fino alle aree più periferiche del corpo umano (mani, piedi, e tutti gli organi sensoriali).

Tutte le cellule del nostro organismo, come detto, assolvono a specifici e variegati compiti e traggono dagli zuccheri tutte le energie necessarie per svolgerli efficacemente. È molto importante pertanto che questi ultimi siano assunti in quantità sufficiente ma non eccessiva. Lo stile di vita ed il conseguente stile alimentare, quasi imposto dalla società contemporanea, porta purtroppo molti di noi ad assumere quantitativi di zuccheri e, più genericamente, carboidrati in eccesso rispetto al fabbisogno reale delle nostre cellule. Quando ciò accade, il sistema ormonale che regola l’equilibrio energetico all’interno del nostro corpo comincia a funzionare male perché noi accumuliamo di fatto più energia di quanta ce ne serva realmente. L’insulina, in modo che possiamo definire “democratico”, rifornisce di zuccheri tutte le cellule; tra queste però ce ne sono alcune, gli adipociti, che non rifiutano mai questo continuo approvvigionamento perché la loro funzione specifica è proprio quella di accumulare energia, sotto forma di grasso, da utilizzare in tempi di “carestia”. Questo speciale meccanismo che rappresenta certamente un prezioso strumento a disposizione degli esseri umani per non rimanere mai del tutto “a secco” di energia, può diventare però un problema allorquando questi adipociti si trasformano in un tessuto che secerne ormoni e rilascia sostanze a carattere infiammatorio. È questo principalmente il motivo per cui il grasso in eccesso, sia quello da obesità quanto quello da Lipedema, dev’essere sempre contenuto, proprio per evitare di veder aumentare il proprio stato infiammatorio ed i livelli di ormoni che possono alimentare la crescita del grasso infiammato e disfunzionale.

Il compito attuale e principale della dietoterapia moderna consiste pertanto nel regolare e tenere sotto controllo i livelli di insulina, in considerazione soprattutto di quanto emerge dai tanti studi scientifici in materia che ci dicono come l’infiammazione che provoca la gran parte delle patologie a carattere cronico sia sostenuta proprio dall’iperinsulinemia che è a sua volta determinata dall’eccesso di zuccheri presenti nel sangue.

Per rimanere in salute è pertanto fondamentale tenere a bada e puntare a ridurre l’infiammazione che sta alla base, come detto in precedenza, di gran parte delle patologie a carattere cronico. Per farlo efficacemente diventa quindi fondamentale regolare e riequilibrare l’alimentazione, scegliendo innanzitutto di introdurre nella dieta quotidiana tutti quei nutrienti che sono indispensabili alle cellule per svolgere i loro compiti con efficacia.

È altresì importante consumare il meno possibile cibi confezionati e tutti quei prodotti alimentari “industriali” che sono eccessivamente carichi di zuccheri, di sostanze potenzialmente infiammanti e dei cosiddetti interferenti endocrini, sostanze queste ultime che possono nel tempo arrivare a modificare lo stesso equilibrio ormonale e ad accentuare le difficoltà dell’organismo ad utilizzare in modo ottimale il cibo.

Con questo articolo non mi pongo l’obiettivo di indicare quale specifico programma alimentare sia meglio seguire nel Lipedema, che sarà argomento specifico di un successivo scritto, probabilmente un articolo oppure un ebook; vorrei però fare in modo che si comprenda al meglio che proprio la corretta alimentazione è già di per sé una terapia e che, proprio come ogni terapia che si rispetti, per risultare utile e soprattutto efficace, deve necessariamente essere personalizzata.

Per capire meglio il Lipedema e rendere maggiormente consapevoli le numerose donne, giovani o meno giovani, della loro condizione di potenziali “Lippy”, ho scelto di intervistarne alcune affette dalla patologia, sia già destinatarie di una diagnosi certa (l’87% del campione considerato) sia con chiari segnali della patologia benché la stessa non sia stata ancora diagnosticata in maniera definitiva.

La maggior parte di esse, l’84,6% del campione considerato, ha riconosciuto alla dieta un enorme valore curativo, insieme alla compressione, alla fisioterapia, all’attività fisica ed eventualmente alla chirurgia. Il 79,5% delle donne intervistate segue una dieta in linea con le mie considerazioni precedenti e cioè priva di zuccheri, low carb ed a volte anche chetogenica. Molte di loro si dichiarano soddisfatte della terapia nutrizionale che seguono e questo è davvero molto importante perché ci dice che le donne che hanno ricevuto una diagnosi di Lipedema, pur sgomente e preoccupate per il proprio futuro, riescono tuttavia a raccogliere la sfida e ad impegnarsi con tutti i mezzi disponibili per migliorare la propria condizione.

Oggi è più facile diagnosticare velocemente il Lipedema ed aiutare efficacemente chi ne è affetto: a differenza del passato infatti, molti professionisti cominciano ad “accorgersi” dell’esistenza della patologia ed a trattarla in modo specifico anche se, ed è un aspetto questo da non trascurare, manca a mio avviso ancora un approccio integrato fra più figure professionali ed il riconoscimento come patologia dal SSN. Cominciare a parlarne in maniera più approfondita e puntuale è comunque un primo passo importante per avvicinarsi ad un completo riconoscimento di questa specifica patologia da parte del Sistema Sanitario Nazionale (SSN). In questo momento purtroppo, le donne affette da Lipedema, sono infatti tristemente consapevoli di avere poche possibilità di veder migliorare la propria situazione patologica proprio per la mancanza di strutture adeguate e convenzionate con il SSN. Questa importante lacuna nell’offerta sanitaria pubblica, non fa altro che addossare la gestione e la cura della patologia sulle sole spalle delle donne che ne soffrono e delle loro famiglie, esponendole a sacrifici di natura sia economica che psicologica.

È fondamentale che la Sanità territoriale acquisisca piena consapevolezza del problema e che gli stessi medici di famiglia si aggiornino al meglio su questa patologia che ha spesso un esordio precoce, anche prima dell’adolescenza, e che espone le donne che ne sono affette a peggioramenti nel periodo della pubertà e ancora più spesso in gravidanza, a causa dei normali squilibri ormonali che però nelle donne affette da Lipedema slatentizzano una predisposizione genetica.

Recenti studi condotti dal gruppo di lavoro del Dott. Michelini hanno portato ad una scoperta illuminante in tal senso: sarebbe proprio un gene, infatti, ad avere una corresponsabilità determinante nell’esordio della patologia.

Approcciarla in modo serio e documentato diventa quindi fondamentale per giungere quanto più precocemente possibile ad una diagnosi definitiva che consenta a tutte le giovani donne di intraprendere un percorso corretto e personalizzato al fine di contenere al meglio i sintomi e l’evoluzione.

Come per tutte le patologie a carattere infiammatorio cronico, è importante fare anche una valutazione epigenetica che aiuti a comprendere quali fattori ambientali contribuiscano all’evoluzione della patologia in senso peggiorativo e quali invece risultino determinanti per contenerla e per spegnere l’espressione genica dei geni responsabili. In altre parole credo che oggi sia necessario da parte degli specialisti capire rapidamente ed impostare un piano chiaro di interventi mirati a consigliare i comportamenti più adeguati quando ad una donna si presenta per una diagnosi di Lipedema; è fondamentale intervenire immediatamente sulla patologia per contenerla ma risulta altrettanto essenziale cercare tutte le persone della famiglia che possano essere coinvolte ma non ancora in modi gravi.

La scelta di intervistare donne affette da Lipedema nasce dal mio bisogno di dar loro voce, di raccontarne le storie, di cogliere meglio ciò che dicono, ciò che conoscono bene, ciò che vivono ogni giorno. Un concetto che ricorre nelle interviste che ho realizzato si può sintetizzare nelle parole di una di esse, che riporto testualmente:

Da sempre la mia immagine corporea è influenzata dal Lipedema. È come se non riconoscessi come mie e come normali alcune parti del mio corpo. Mi sento e mi vedo come deforme. Mi vergogno a farmi vedere nuda e in costume.”

Troppo spesso purtroppo questi disagi, la cui comprensione precoce potrebbe essere d’aiuto anche nella scelta del percorso di cura più adeguato al soggetto interessato, non riescono ad emergere se non con il supporto di psicologi e sempre che la paziente abbia le risorse economiche per sostenere anche questo tipo di terapia. La realtà ci racconta purtroppo che molte donne, troppe, non si possono permettere nemmeno le cure minime e necessarie.

Le risposte alle interviste hanno la forza di commuovermi, di farmi sorridere, di sorprendermi e anche di farmi arrabbiare quando penso all’ambiente in cui queste donne sono costrette a vivere il loro disagio: un contesto omologato, schematizzato, cieco, sordo ed inconsapevole.

Alla domanda “cosa pensa del Lipedema?”, le donne intervistate hanno risposto con parole che mi hanno colpita molto: “E’ un bastardo!”; “Penso sia una punizione!”; “Mi ha stroncato la vita!”; “Patologia sconosciuta a tanti!”; “Disgusto!”; “Invalidante!”; “È una croce!”; “Mi fa arrabbiare!”; “È il mio aguzzino!”; “Mostro nascosto!”; “Avvilente!”

Dietro ad ognuna di queste risposte si nasconde la paura di non riuscire a tenerlo a bada, di perderne il controllo e di finire nel “baratro” di una patologia ancora poco conosciuta, per la quale non esistono ad oggi trattamenti specifici e protocolli sanitari chiari e che è praticamente sconosciuta al SSN che non solo non fornisce cure adeguate ma che non riconosce neppure il Lipedema come patologia invalidante e cronica.

Dietro ognuna di quelle risposte c’è però anche la convinzione di essere in qualche modo parte attiva del problema, di essere “colpevoli” di qualcosa di non meglio identificabile e comunque corresponsabili del proprio stato di disagio.

In quasi tutte emerge un senso di colpa diffuso, frutto anche delle pressioni subite, da alcune fin già dall’infanzia. Sono molte le donne intervistate che hanno lavorato duramente fin da ragazzine per piegare il loro corpo ai desideri altrui: di fidanzati, amiche, mariti. E che non ci sono mai riuscite, nonostante diete, sport e sacrifici vari. Nelle storie che ho sentito dalle mie pazienti ed anche dalle intervistate si evince sempre che sono donne tutt’altro che pigre o mangione, che spesso non hanno sviluppato un buon rapporto con il cibo, che mangiano anche troppo poco e che non sanno addirittura nemmeno cucinare.

Molte sono sportive ma nonostante questo restano in perenne conflitto con se stesse.

Molte si sono sentite dire dai medici e dai nutrizionisti di “mangiare meno ed il problema si risolve!”. Tutte però raccontano storie da cui emerge ogni volta e tristemente una condizione di inadeguatezza alla vita quotidiana.

Alcune donne, nel tempo, mi hanno contattata per mail o su whatsapp inviandomi le loro foto da bambine e da adolescenti e dalle quali si individuavano chiaramente i primi segni del Lipedema. Non tutte sono diventate mie pazienti, per la distanza che ci divideva, ma le ho comunque tutte indirizzate all’associazione che si occupa della patologia affinché potessero essere instradate in un percorso che le conducesse ad una diagnosi certa.

Credo profondamente che solo la diagnosi precoce del Lipedema possa garantire nuove ed affidabili prospettive di cura a tutte le donne che ne hanno bisogno.

La scelta di scrivere questo articolo nasce in me proprio da questa consapevolezza, dalla voglia e dalla necessità che sento di dare voce al dolore di queste persone ma anche per testimoniare che queste donne sono guerriere, combattenti che non vogliono più essere considerate semplicisticamente delle “mangione” ma che desiderano fortemente che la loro condizione di profondo disagio, fisico e psicologico, venga riconosciuta come una patologia, anche a costo di vedersi certificare in maniera inequivocabile la loro condizione di  “malate” e “medicalizzate”.

Sono donne vive e belle che chiedono a gran voce di essere ascoltate, curate ed accompagnate in modo adeguato nel trattamento di una sindrome complessa da tutte le figure mediche che sarebbe necessario coinvolgere lungo il percorso: medici, chirurghi, nutrizionisti, fisioterapisti, personal trainer, psicologi. E senza per questo doversi sentire colpevoli di qualcosa o dover pesare sulle famiglie per i costi eccessivi che vanno ancora sostenuti.

Mi piacerebbe che la consapevolezza di queste donne diventasse contagiosa e che gli desse la forza e l’energia necessarie a spostare le montagne d’indifferenza ed a stimolare la voglia dei professionisti di conoscere meglio e di più questa patologia.

Questo articolo si pone l’obiettivo di aumentare in chi è affetto da Lipedema la consapevolezza di non essere né “colpevole” né “corresponsabile” ma solo persone legittimamente in cerca di certezze e di verità. Persone in grado di gridare consapevolmente ai quattro venti e senza alcuna remora: “Ora so che non è solo colpa mia!”.

A cura della dr.ssa Cacciola Maria Stella – Biologa nutrizionista

 https://www.aldenianews.it/2021/05/20/lipedema-ora-so-che-non-e-solo-colpa-mia/

18 marzo 2019

la nuova pagina facebook CAMICE & MESTOLI




      Siamo Maria Stella e Daniela, l'una nutrizionista con la passione della cucina della salute e l'altra chef esperta, ideatrice e conduttrice di corsi di cucina per gruppi e singoli, siciliane, buongustaie ma sempre a dieta!
      Vi proporremo corsi di cucina della salute per imparare a gestire la vostra dieta e le vostre intolleranze in modo piacevole e con gusto, posteremo ricette con un'etichetta nutrizionale che vi aiuterà a capire se quella ricetta va bene per voi o i vostri familiari o se siete medici e nutrizionisti se possa andare bene per i vostri pazienti. 
       Venite a trovarci su @camicemestoli su facebook e vi sorprenderemo.

10 giugno 2017

CONOSCI LA DIETA CHETOGENICA? articolo della dott.ssa Cacciola Maria Stella


Qualche giorno fa mi hanno chiesto di scrivere un articolo sulla Dieta Chetogenica per aiutare tutte le persone che vorrebbero saperne di più e per far capire loro di cosa si tratta.
Ci chiediamo? E‘ una dieta iperproteica? Può fare male alla salute? E‘ difficile da seguire? La possono fare tutti tranquillamente da soli?
Ed ancora, ma non sarebbe meglio seguire la buona e vecchia Dieta Mediterranea? Non sarà la solita americanata?
Ecco certamente le domande che ci poniamo sono tante e vedremo di rispondere in modo semplice e completo. Io credo che solo dalla buona conoscenza può nascere la buona salute!
Pensate un po‘! la Dieta Chetogenica nasce nel 1920 dalle osservazioni fatte da due pediatri, Rollin Woodyatt e Mynie Paterman, che lavoravano con i bambini colpiti da Epilessia. Questa dieta dimostra infatti di ridurre gli attacchi epilettici sia nei bambini che negli adulti che non rispondono ai trattamenti farmacologici.
E già! Si tratta quindi di un vero trattamento terapeutico che via via ha trovato impiego anche nei soggetti con terribili emicranie.
Ma cerchiamo di capire meglio cosa è e come deve essere fatta ed anche a chi è utile, oltre a coloro che abbiamo detto prima.
La Dieta Chetogenica viene definita normo proteica, normolipidica ed ipoglucidica, cioè in questa dieta si riducono drasticamente tutti gli alimenti del gruppo dei carboidrati, non solo si elimina lo zucchero ma anche pane, pasta, riso, cereali, farine di cereali prodotti che ne contengono anche piccolissime quantità, frutta e persino alcune verdure. In questo modo si costringe il proprio corpo ad utilizzare prima le riserve di zucchero che possiede sotto forma di glicogeno, prevalentemente nel fegato e nei muscoli, successivamente il corpo è costretto a trovarsi un’altra fonte di energia!
Ed ecco che trova i grassi, quelli depositati nel corpo e quelli introdotti con l’alimentazione. Ma i grassi per diventare materiale energetico utilizzabile dalle nostre cellule devono essere trasformati in piccoli corpi chetonici che sono un po‘ acidi ma tanto piccoli che riescono a passare dalla barriera ematoencefalica ed arrivare al cervello e fornirgli l’energia necessaria! Anzi, quando si raggiunge questo stadio, che si chiama Chetogenesi, si è molto lucidi e molto attivi come quando si è bevuto un bel caffè doppio!
Chiaramente se si tolgono tutti i carboidrati e non si sa quanti grassi e quanti cibi proteici consumare si rischia di danneggiare il proprio organismo provocando scompensi che possono danneggiare i reni ed il fegato.
Ho detto prima che questa dieta è normo proteica, cioè bisogna consumare un quantitativo specifico per ciascuno di noi di cibi proteici, come carni, uova, formaggi, pesce ecc.., e bisogna sapere anche quanti grassi utilizzare e quali tipi, ed anche questo dipende dal motivo per cui si utilizza questo regime alimentare.
Esistono due diversi approcci alla dieta Chetogenica:
Uno è quello che la vede utilizzata per ridurre ed anche eliminare attacchi epilettici e crisi emicraniche, l’altro è quello del dimagramento in casi di importate obesità ed in special modo in soggetti candidati alla chirurgia bariatrica, cioè quella chirurgia che riduce lo stomaco per ridurre l’assunzione di cibo nei grandi mangiatori voraci. In questi casi si utilizza un Protocollo dietetico medico VLCKD (Very Low Calory Ketogenic Diet), ideato nel 1971 dal Prof. Blackburn dell’Università di Harvard.
Se qualcuno vuole utilizzare la Dieta Chetogenica per dimagrire pochi chili dovrà fare attenzione ad utilizzare pochissimi grassi ma se ha anche il colesterolo alto ed i trigliceridi mossi dovrà utilizzare solo grassi come l’olio d’oliva extravergine.
Questa dieta è molto utile per chi deve dimagrire molto oppure per chi ha un’intolleranza ai carboidrati ed ancora per chi vuole dimagrire in modo localizzato.
Però è bene che sia studiata da un professionista che valuti tutti i parametri mediante analisi del sangue e test impedenziometrico, per calcolare la massa grassa e quella magra, così da ottenere una perfetta personalizzazione della dieta con il massimo dei risultati senza rischi per la salute.

16 maggio 2017

Genetica: tra uomo e donna la differenza è in 6.500 geni

Tra uomo e donna le differenze partono dai geni. Per l’esattezza sono 6.500 i geni espressi in modo differente. Dall’accumulo di grasso ai muscoli, dalla peluria alla produzione di latte, queste diverse espressioni potrebbero caratterizzare i due sessi anche nella suscettibilità a certe malattie così come nella risposta alle terapie. L’evoluzione con questi geni è stata poco selettiva, favorendo di fatto la diffusione di mutazioni che possono determinare problemi come l’infertilità. A indicarlo è uno studio pubblicato su BMC Medicine dal Weizmann Institute of Science di Israele.
Alla base ci sono i dati raccolti dal progetto GTEx, un grande studio che ha analizzato i geni espressi nei vari organi e tessuti del corpo umano di quasi 550 adulti di entrambi i sessi, portando alla realizzazione della prima mappa delle differenze genetiche tra uomini e donne. I ricercatori Shmuel Pietrokovski e Moran Gershoni del Weizmann Institute hanno usato questo database per valutare nello specifico l’espressione di 20.000 geni, arrivando così a identificarne 6.500 che sono ‘accesi’ in modo diverso tra maschi e femmine in almeno un tessuto del corpo.
Oltre ai geni legati a caratteristiche sesso-specifiche, come la peluria o la produzione di latte, ne sono emersi molti altri insospettabili. E’ il caso di alcuni geni ‘accesi’ solo nel ventricolo sinistro del cuore della donna, tra i quali uno in particolare, legato all’uso del calcio, che tende a spegnersi con l’avanzare dell’età, probabilmente aumentando il rischio di malattie cardiovascolari e osteoporosi dopo la menopausa. E’ stato trovato anche un gene espresso prevalentemente nel cervello delle donne che potrebbe proteggere i neuroni dal Parkinson.
I ricercatori hanno scoperto che la selezione naturale è stata più indulgente con le mutazioni sesso-specifiche contenute in questi geni, soprattutto quelle legate al genere maschile, favorendone di fatto la diffusione. Da qui l’idea che uomini e donne non abbiano seguito lo stesso cammino evolutivo, bensì due percorsi separati e interconnessi fra loro: l’evoluzione umana sarebbe dunque da rileggere come una co-evoluzione.
Mag 09,2017

Cancro al seno: la soia riduce il rischio

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Negli ultimi anni si sono aperte varie controversie sui cibi a base di soia, anche tra i professionisti della salute, aggravate dalla disinformazione veicolata via Internet. Caposaldo delle erronee tesi è l’idea che gli alimenti a base di soia favoriscano lo sviluppo del cancro al seno, poiché contenenti isoflavoni (classe di composti fitoestrogeni). Dal momento che gli estrogeni possono promuovere la crescita del cancro al seno, è stato ipotizzato che troppi fitoestrogeni possano avere il medesimo effetto: ma l’ipotesi è errata, in quanto non tiene conto del fatto che ci sono due tipi di recettori per gli estrogeni nell’organismo umano, alfa e beta, che hanno una diversa distribuzione nei tessuti, diversa funzione e spesso agiscono in modo opposto. I fitoestrogeni della soia preferenzialmente legano e attivano i recettori beta. Questo sembrerebbe essere proprio il caso dei tessuti della mammella, ove l’attivazione dei recettori beta mostra un effetto anti-estrogenico, inibendo gli effetti di promozione della crescita riferibili agli estrogeni. Infatti gli effetti dell’estradiolo, estrogeno naturalmente prodotto dal nostro organismo, sono opposti a quelli dei fitoestrogeni, che hanno effetti antiproliferativi sulle cellule del cancro al seno anche a basse concentrazioni; tali effetti si manifestano già con l’assunzione di una sola tazza di fagioli di soia, mostrando una significativa attivazione del recettore beta. L’ipotesi che i fitoestrogeni potessero essere causa di proliferazione di cellule tumorali si basa su studi eseguiti su topi, dai quali si evince che la genisteina (il fitoestrogeno principale della soia) stimola la crescita del tumore al seno… ma l’essere umano metabolizza gli isoflavoni in modo differente, e questa dunque non è altro che l’ennesima dimostrazione dei danni al progresso scientifico causati dalla sperimentazione sugli animali. La possibile attivazione di recettori alfa da parte della soia può presentarsi solo a fronte di assunzioni del tutto irrealistiche di questo alimento (ad esempio 58 tazze al giorno di fagioli di soia!), ma con porzioni normali l’attivazione a cui si va incontro è quella dei recettori beta, aventi effetti protettivi. Infatti le donne che nell’infanzia, adolescenza ed età adulta hanno assunto soia mostrano un ridotto rischio di tumore al seno. Questi dati potrebbero spiegare perché l’incidenza di tumore al seno è più alta in Occidente che in Asia e il motivo per cui proprio le donne asiatiche americanizzate, con un’alimentazione occidentale presentino un rischio notevolmente superiore di sviluppare tumore al seno. Oltre a queste evidenze, nel 2009 nel Journal of the American Medical Association è stato pubblicato il primo studio che confronta l’assunzione di soia con l’incidenza di tumore al seno, sugli esseri umani: “in numerose donne con cancro al seno, il consumo di alimenti di soia era significativamente associato con una diminuzione del rischio di morte e di recidiva”. Questo studio è stato seguito da altri, tutti riportanti le stesse conclusioni, tali da far produrre una serie di linee guida dall’American Cancer Society, a favore dell’utilizzo di prodotti a base di soia nelle pazienti sopravvissute al tumore al seno. Esistono 5 studi in merito, che prendono in esame più di 10.000 pazienti affette da cancro al seno e i risultati sono unanimi nell’evidenziare una riduzione della mortalità e di recidiva grazie all’assunzione di soia. Cancro al seno: la soia riduce il rischio katemangostar / Freepik 2 Un altro aspetto è legato alle donne che presentano i geni del cancro al seno (anche se meno del 10% dei casi di cancro al seno presenta una familiarità genetica), la cui espressione è causa di una mutazione di uno dei geni oncosoppressori (BRCA1 o BRCA2) che difendono l’integrità dei nostri geni; quando uno di essi è danneggiato o presenta mutazioni, può esporci maggiormente allo sviluppo del cancro. Se fino a poco tempo fa le raccomandazioni dietetiche per le persone con mutazioni a carico di questi geni miravano a ridurre i danni da radicali liberi a carico del DNA, consigliando di assumere importanti quantità di frutta e verdura ricche di antiossidanti, oggi un’ulteriore protezione potrebbe derivare dall’aumento dell’azione dei BRCA. Infatti, in vitro si è visto che i fitoestrogeni della soia potrebbero rispristinare la funzione di protezione dei BRCA, con una “riregolazione” dell’espressione di questi fino al 1000% in 48 ore. Questo sembrerebbe poter essere traslato anche in vivo, poiché si è evidenziato che l’assunzione di soia in persone a rischio di tumore al seno ha comportato una riduzione del rischio del 27% con normali geni BRCA e del 73% in portatori di mutazioni del gene BRCA. D’altro canto, il consumo di carne in pazienti con mutazioni del gene BRCA ha comportato un aumento del rischio del 97% (e del 41% in chi non mostra questa mutazione). 

Fonti: “Is Soy Healthy for Breast Cancer Survivors?”, Nutrition Facts, 1 febbraio 2017 https://nutritionfacts.org/video/ is-soy-healthy-for-breast-cancer-survivors/ “Should Women at High Risk for Breast Cancer Avoid Soy?”, Nutrition Facts, 3 febbraio 2017 http://nutritionfacts.org/video/ should-women-at-high-risk-forbreast-cancer-avoid-soy/

Tratto da Quaderni di Scienza Vegetariana maggio 2017 www.scienzavegetariana.it

04 febbraio 2017

Acne e nutrizione: facciamo il punto

Negli ultimi decenni sono stati pubblicati diversi studi, seppur con caratteristiche diverse, che mettono in luce la relazione tra nutrizione e acne. In Germania con questo lavoro si è voluto valutare la qualità, in termini di ampiezza del campione alimentare e della progettazione, di quanto oggi reperibile in letteratura. Prima conclusione a cui giungono gli autori è che l'attuale sistema di raccolta delle prove relative agli effetti della nutrizione sulle malattie della pelle può essere migliorato soprattutto per ciò che riguarda la metodicità nell'indagare i cambiamenti di abitudini alimentari per sesso ed età dei soggetti che partecipano agli studi di efficacia dei farmaci. Tuttavia, nel rivedere la recente letteratura scientifica, alcuni punti fermi si possono mettere: latte e alimenti con un alto carico glicemico sono i migliori candidati come responsabili dell'innesco del processo acneico, anche se i dati raccolti non permettono comunque di impostare raccomandazioni nutrizionali. Per l'acne sono stati presi in esame oltre 140 alimenti e, all'interno di questo numero, ne esistono una ventina (tra cui latte, cioccolato, formaggio e formaggio light, carboidrati ad alto indice glicemico, pizza) che sono stati valutati in diversi studi presi in esame: questo elenco può, secondo gli autori, essere di aiuto ai professionisti per fornire raccomandazioni ai pazienti con questa problematica dermatologica. Dato il numero sempre crescente di persone che si trovano a dover fare i conti con questa problematica e la crescente evidenza del ruolo della nutrizione in ambito dermatologico, varrebbe la pena partire dai risultati di questa review per progettare uno studio nutrizionale caratterizzato dai criteri più attuali di rigore metodologico.

Bibliografia:
Acta Derm Venereol. 2017 Jan 4;96(7):7-9.

Silvia Ambrogio


http://www.nutrizione33.it/cont/aggiornamento-scientifico/articoli/29963/acne-nutrizione-facciamo-punto.aspx#.WJWpU9LhCHs 

12 novembre 2016

Alzheimer, demenza e omocisteina di Omar Vassalli



L’omocisteina è un aminoacido che si forma, nel nostro corpo, a partire dalla metionina. La metionina è un aminoacido essenziale, ciò significa che è necessario che sia presente nella nostra dieta in quanto il nostro corpo non è in grado di produrlo. Questo aminoacido, la metionina, e comunemente presente negli alimenti ricchi in proteine, in particolare in quelli  di origine animale come carne, uova e formaggio.
Purtroppo l’omocisteina è un aminoacido molto tossico che tende a danneggiare le arterie, conducendo a problemi di malattie cardiovascolari e sembra pure legata a malattie come l’Alzheimer ed in generale alla demenza senile.
Circa il 20% delle persone sopra i 75 anni presenta problemi legati all’Alzheimer oppure alla demenza.
Un alto livello di omocisteina nel sangue può quindi creare i seguenti danni:
  • Danni al cervello
  • Perdita di memoria
  • Perdita delle capacità cognitive
  • Danni alle arterie
Fortunatamente il nostro corpo è in grado di convertire questo aminoacido tossico, l’omocisteina, in metionina oppure in cisteina che è un altro aminoacido.
Per poter far questo è importante che la nostra dieta sia ricca nelle seguenti vitamine;
  • B12 (supplementi)
  • B6 (semi di girasole, pistacchi, banana, avocado e spinaci)
  • Folato (fagioli, foglie verdi come spinaci)
In un esperimenti si è visto che somministrando per 2 anni le vitamine del gruppo B, precedentemente elencate, si è constatato una significativa riduzione del processo di deterioramento del cervello che si ha con l’invecchiamento. Questa supplementazione ha ridotto il processo di deterioramento del cervello, che si vede nei pazienti affetti di Alzheimer, di ben 6 volte!
Il beneficio della supplementazione si verifica solo nelle persone che hanno una marcata carenza in queste vitamine.
I gruppi più a rischio nell’avere un alto livello di omocisteina sembrano essere i vegani. Questo in un primo momento sembra essere un paradosso perché i vegani non consumando proteine animali hanno un basso apporto di metionina, che è il precursore della omocisteina, in altre parole la omocisteina viene prodtta a partire dalla metionina. Sappiamo che dopo un pasto ricco in metionina la concentrazione di omocisteina nel sangue aumenta significativamente. Il problema di una dieta vegana malamente pianificata è che è totalmente priva di vitamina B12 e spesso è anche povera in zinco per cui queste due carenze favoriscono una forte accumulo di omocisteina nel sangue, incrementando conseguentemente i rischi delle patologie associate a questa sostanza tossica.
Infatti i livello di omocisteina nei vari gruppi di persone in uno studio è risultato il seguente:
Livello di omocisteina nel sangue
  • Onnivori: 11
  • Vegetariani 14
  • Vegani 16,4
Questi pessimi risultati sono legati ai bassi livelli di vitamina B12 nel sangue che risulta essere quanto segue nei vari gruppi:
Livello di vitamina B12 nel sangue
  • Onnivori: 303
  • Vegetariani 209
  • Vegani 175
Purtroppo molti vegani, a causa di un basso livello di vitamina B12 nel sangue, hanno alti livelli di omocisteina per cui sono a forte rischio di sviluppare Alzheimer e la demenza senile nonché certe malattie cardiovascolari.
Se un vegano assume una quantità adeguata di vitamina B12 il suo livello di omocisteina scende da 16.4, come abbiamo visto precedentemente, a 5! Che è il valore più basso in assoluto tra i vari gruppi. Quindi è fondamentale per i vegani assumere la vitamina B12 altrimenti si perdono i vantaggi di una dieta vegana.
Con una dieta vegana opportunamente pianificata è possibili abbassare il livello di omocisteina nel sangue del 20% in una sola settimana.
Le fibre presenti negli alimenti di origine vegetale tendono a favorire lo sviluppo della nostra flora intestinale che è capace di produrre il folato.

Conclusione: un alto livello di omocisteina nel sangue indica che abbiamo un forte rischio di sviluppare delle malattie cardiovascolare oppure di venire colpiti dall’Alzheimer o in generale della demenza negli anni avanzati della nostra vita. Il modo migliore per tenere basso il livello di omocisteina è quello di adottare una dieta vegana, o in generale ridurre l’apporto di proteine ricche in metionina associata obbligatoriamente ad un buon apporto in vitamina B12, B2, Betaina e dello zinco. Senza l’assunzione di vitamina B12 attraverso i supplementi una dieta vegana può essere più pericolosa rispetto ad una dieta onnivora, da questo punto di vista.