Visualizzazione post con etichetta ingrassamento. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta ingrassamento. Mostra tutti i post

13 settembre 2021

Lipedema: una patologia reale? articolo scritto dalla dott.ssa Cacciola Maria Stella - biologa nutrizionista

 Lipedema: È una patologia reale? Cosa possiamo fare per riconoscerlo e curarlo?

  








 

 Questo articolo nasce per divulgare questa affezione, il Lipedema, che, se pur non abbia ancora il riconoscimento di patologia, acquisisce giornalmente connotati sempre più chiari e scientificamente validati e nella speranza che sempre più i medici, specialmente quelli di medicina generale ed i pediatri guardino con occhi diversi le giovani donne e le adolescenti con problemi di sovrappeso e con squilibri ormonali, in modo particolare tutte quelle con familiarità per Obesità Ginoide aggravata da Linfedema giacché oggi ci sono prove serie sulla “ereditarietà” o comunque sulla predisposizione genetica del Lipedema, quasi esclusivamente in linea femminile.

     Mi sembra necessario chiarire subito i fondamenti di questa affezione per aiutare almeno a dare una connotazione chiara. 

    A tal riguardo preferisco utilizzare una definizione semplice e completa che ho trovato e che di seguito cito: “Il Lipedema è un disturbo cronico progressivo che colpisce quasi esclusivamente le donne. Clinicamente, è caratterizzato da una distribuzione anomala del tessuto adiposo, con conseguente sproporzione pronunciata tra estremità e tronco. Tale sproporzione è causata da un aumento localizzato e simmetrico del tessuto adiposo sottocutaneo negli arti inferiori e/o superiori. Altre scoperte includono edema (aggravato dall'ortostasi), nonché facile ecchimosi a seguito di traumi minori e, tipicamente, aumento della dolenzia con la pressione”

    Oggi è più facile diagnosticare il Lipedema ed aiutare efficacemente chi ne è affetto per l’esistenza di Linee Guida e Documenti di Consenso Statunitensi ed Europei per cui molti professionisti hanno intrapreso percorsi di formazione per la diagnosi ed il trattamento specifico. 

    Un aspetto da non trascurare è, purtroppo la mancanza ancora di un approccio integrato e coordinato fra più figure professionali ed il riconoscimento come patologia dal SSN. 

    In questo momento purtroppo, le donne affette da Lipedema, sono infatti tristemente consapevoli di avere poche possibilità di veder migliorare la propria situazione patologica proprio per la mancanza di strutture adeguate e convenzionate con il SSN. Questa importante lacuna nell’offerta sanitaria pubblica, non fa altro che addossare la gestione e la cura della patologia sulle sole spalle delle donne che ne soffrono e delle loro famiglie, esponendole a sacrifici di natura sia economica che psicologica. 

    È fondamentale che la Sanità territoriale acquisisca piena consapevolezza del problema e che gli stessi medici di famiglia si aggiornino al meglio su questa patologia che ha spesso un esordio precoce.

    Recenti studi condotti dal gruppo di lavoro del Pr Sandro Michelini, Ospedale San Giuseppe di Marino (RM), hanno portato ad una scoperta illuminante in tal senso: sarebbe proprio un gene, e sicuramente anche più di uno, infatti, ad avere una corresponsabilità determinante nell’esordio della patologia e questo è evidente anche alla luce del riconoscimento della patologia anche in ben 4 generazioni di donne della stessa famiglia senza coinvolgimento se non come portatori sani dei maschi della stessa.

    Approcciarla in modo serio e documentato diventa quindi fondamentale per giungere quanto più precocemente possibile ad una diagnosi definitiva che consenta a tutte le giovani donne di intraprendere un percorso corretto e personalizzato al fine di contenere al meglio i sintomi e l’evoluzione.

    L’approccio terapeutico ottimale al Lipedema è sostanzialmente, almeno in gran parte, contenitivo ed è quindi basato sul trattamento nutrizionale, il linfodrenaggio manuale di tipo Vodder, i bendaggi e l’elastocompressione. Chiaramente tutti questi trattamenti vanno personalizzati ed eseguiti da personale altamente specializzato e con documentata esperienza.

    Il punto estremo e finale rimane ancora oggi purtroppo la terapia chirurgica specializzata che comunque oggi è sempre più integrata con gli altri approcci terapeutici.

    Attualmente la dieta insieme con l’attività fisica moderata e personalizzata, il massaggio Vodder  e l’elastocompressione possono essere molto importanti per il controllo dell’affezione sin dall’esordio, che solitamente avviene nel periodo adolescenziale con aggravamenti in gravidanza e in menopausa.

 La dieta chetogenica e la dieta Low Carb, ben conosciuta come DIETA RAD (Rare Adipose Disorders),  con un basso apporto di carboidrati, in particolare da cereali, frutta e patate e particolarmente incentrata sull’utilizzo di carni bianche, uova, pesce, legumi e verdure fresche di stagione, oggi è riconosciuta a livello internazionale ed ha come obiettivo specifico soprattutto quello di regolare i livelli di insulina e ridurre l’infiammazione mirando quindi ad un riequilibrio ormonale.

     Il compito attuale e principale della dietoterapia moderna consiste prevalentemente nella regolazione e controllo dei livelli di insulina, in considerazione soprattutto della testimonianza dei tanti studi scientifici che correlano  l’infiammazione alla gran parte delle patologie a carattere cronico e all’iperinsulinemia prima e al diabete successivamente, determinati dall’eccesso di carboidrati presenti nell’alimentazione quotidiana. 

    Risulta importante consumare in modo ridotto cibi confezionati e prodotti alimentari “industriali” che sono eccessivamente carichi di zuccheri, di grassi trans e dei cosiddetti “interferenti endocrini”, sostanze queste ultime dimostrano di interferire con l’equilibrio ormonale naturale e nel tempo arrivare a provocare diabete e patologie endocrine.

    Credo profondamente che solo la diagnosi precoce del Lipedema possa garantire nuove ed affidabili prospettive di cura a tutte le donne che ne hanno bisogno. 

a cura della
dott.ssa Cacciola Maria Stella - biologa nutrizionista 


10 giugno 2017

CONOSCI LA DIETA CHETOGENICA? articolo della dott.ssa Cacciola Maria Stella


Qualche giorno fa mi hanno chiesto di scrivere un articolo sulla Dieta Chetogenica per aiutare tutte le persone che vorrebbero saperne di più e per far capire loro di cosa si tratta.
Ci chiediamo? E‘ una dieta iperproteica? Può fare male alla salute? E‘ difficile da seguire? La possono fare tutti tranquillamente da soli?
Ed ancora, ma non sarebbe meglio seguire la buona e vecchia Dieta Mediterranea? Non sarà la solita americanata?
Ecco certamente le domande che ci poniamo sono tante e vedremo di rispondere in modo semplice e completo. Io credo che solo dalla buona conoscenza può nascere la buona salute!
Pensate un po‘! la Dieta Chetogenica nasce nel 1920 dalle osservazioni fatte da due pediatri, Rollin Woodyatt e Mynie Paterman, che lavoravano con i bambini colpiti da Epilessia. Questa dieta dimostra infatti di ridurre gli attacchi epilettici sia nei bambini che negli adulti che non rispondono ai trattamenti farmacologici.
E già! Si tratta quindi di un vero trattamento terapeutico che via via ha trovato impiego anche nei soggetti con terribili emicranie.
Ma cerchiamo di capire meglio cosa è e come deve essere fatta ed anche a chi è utile, oltre a coloro che abbiamo detto prima.
La Dieta Chetogenica viene definita normo proteica, normolipidica ed ipoglucidica, cioè in questa dieta si riducono drasticamente tutti gli alimenti del gruppo dei carboidrati, non solo si elimina lo zucchero ma anche pane, pasta, riso, cereali, farine di cereali prodotti che ne contengono anche piccolissime quantità, frutta e persino alcune verdure. In questo modo si costringe il proprio corpo ad utilizzare prima le riserve di zucchero che possiede sotto forma di glicogeno, prevalentemente nel fegato e nei muscoli, successivamente il corpo è costretto a trovarsi un’altra fonte di energia!
Ed ecco che trova i grassi, quelli depositati nel corpo e quelli introdotti con l’alimentazione. Ma i grassi per diventare materiale energetico utilizzabile dalle nostre cellule devono essere trasformati in piccoli corpi chetonici che sono un po‘ acidi ma tanto piccoli che riescono a passare dalla barriera ematoencefalica ed arrivare al cervello e fornirgli l’energia necessaria! Anzi, quando si raggiunge questo stadio, che si chiama Chetogenesi, si è molto lucidi e molto attivi come quando si è bevuto un bel caffè doppio!
Chiaramente se si tolgono tutti i carboidrati e non si sa quanti grassi e quanti cibi proteici consumare si rischia di danneggiare il proprio organismo provocando scompensi che possono danneggiare i reni ed il fegato.
Ho detto prima che questa dieta è normo proteica, cioè bisogna consumare un quantitativo specifico per ciascuno di noi di cibi proteici, come carni, uova, formaggi, pesce ecc.., e bisogna sapere anche quanti grassi utilizzare e quali tipi, ed anche questo dipende dal motivo per cui si utilizza questo regime alimentare.
Esistono due diversi approcci alla dieta Chetogenica:
Uno è quello che la vede utilizzata per ridurre ed anche eliminare attacchi epilettici e crisi emicraniche, l’altro è quello del dimagramento in casi di importate obesità ed in special modo in soggetti candidati alla chirurgia bariatrica, cioè quella chirurgia che riduce lo stomaco per ridurre l’assunzione di cibo nei grandi mangiatori voraci. In questi casi si utilizza un Protocollo dietetico medico VLCKD (Very Low Calory Ketogenic Diet), ideato nel 1971 dal Prof. Blackburn dell’Università di Harvard.
Se qualcuno vuole utilizzare la Dieta Chetogenica per dimagrire pochi chili dovrà fare attenzione ad utilizzare pochissimi grassi ma se ha anche il colesterolo alto ed i trigliceridi mossi dovrà utilizzare solo grassi come l’olio d’oliva extravergine.
Questa dieta è molto utile per chi deve dimagrire molto oppure per chi ha un’intolleranza ai carboidrati ed ancora per chi vuole dimagrire in modo localizzato.
Però è bene che sia studiata da un professionista che valuti tutti i parametri mediante analisi del sangue e test impedenziometrico, per calcolare la massa grassa e quella magra, così da ottenere una perfetta personalizzazione della dieta con il massimo dei risultati senza rischi per la salute.

04 luglio 2016

L'Intolleranza da Nichel fa ingrassare?


 Mi occupo di intolleranze alimentari da 10 anni ed in particolare di intolleranza ed allergia al nichel almeno da 5 anni e posso testimoniare che lo studio conferma i risultati evidenziati in questi anni.

 Condivido la posizione dell'autrice dell'articolo. Unico problema è che non si possono eliminare tutti gli alimenti ad elevato contenuto in nichel perché si rischia di non mangiare quasi nulla e di conseguenza creare stati carenziali importanti. Allora è necessario fare un serio piano nutrizionale alternativo ma ben bilanciato che è possibile solo se ci si rivolge ad un nutrizionista esperto.
http://journals.plos.org/plosone/article?id=10.1371/journal.pone.0123265


L’allergia al nichel fa ingrassare
a cura di Paola P.
Che esista un legame tra allergie/intolleranze alimentari e sovrappeso si è capito da parecchio e, anzi, diversi studi scientifici sono opportunamente giunti a poterlo dimostrare. Ora gli esiti di una nuova, interessante ricerca sperimentale condotta in Italia è andata oltre, rivelando in modo inequivocabile l’associazione tra sovrappeso e allergia al nichel. Questo metallo è presente, oltre che in accessori di abbigliamento, oggetti e utensili a cucina, anche in molti alimenti che consumiamo comunemente. Tra questi basti citare il cioccolato (specialmente fondente), i legumi, i frutti di mare.
Stando alle evidenze dello studio, condotto dai ricercatori dell’Università di Chieti presso il Laboratorio della Croce Rossa in Roma (Unità di Immunologia clinica e Allergologia) su un campione di 87 soggetti (72 donne e 15 uomini), l’allergia al nichel può essere tranquillamente inclusa tra i fattori di rischio per obesità e sovrappeso come e più di altri indicatori tra cui la steatosi epatica (fegato grasso) e la sindrome da insulino-resistenza.
Basti pensare che il 59% del campione, soprattutto donne in “zona” menopausa, con un indice di massa corporea superiore a 26 (ovvero il valore che indica il sovrappeso) era anche allergica al nichel, come rilevato da un semplice patch test. Insomma, un dato di cui tenere conto.
La ricerca non si è limitata a riscontrare il legame, ma ha provato a determinare un’inversione di tendenza. Una parte del campione è stata infatti indotta a seguire quella che è la terapia d’elezione per combattere i sintomi dell’allergia al nichel: la dieta a bassa concentrazione di questo metallo. Dopo tre mesi di questo tipo di alimentazione che, lo specifichiamo, non era “dimagrante” ma normocalorica (ovvero rispettava il fabbisogno calorico di ciascun soggetto in base all’età e allo stile di vita), il campione non solo ha avuto un miglioramento generalizzato delle condizioni di salute, ma ha visto una riduzione del girovita e del proprio indice di massa corporea. Non solo, il dimagrimento ottenuto nel breve termine si è mantenuto tale anche dopo altri sei mesi di controllo. Insomma, un vero successo.
Molte delle donne in premenopausa che all’inizio dell’esperimento erano sovrappeso e soffrivano di fegato grasso e di sindrome da inulino-resistenza, dopo la dieta a basso contenuto di nichel avevano migliorato le loro condizioni generali anche relativamente ai disturbi metabolici. Questo buon esito è legato al fatto che le allergie ad alcuni alimenti o sostanze in essi contenuti (percepiti dal corpo come nocivi anche se non sono tali), portano ad un aumento nel sangue delle citochine, molecole proteiche che inducono una risposta immunitaria di tipo infiammatorio.
Quando nel corpo si verificano queste condizioni, con un aumento dell’insulina e difficoltà nell’assimilazione dei nutrienti, il corpo tende ad accumulare adipe. Ecco perché spesso chi soffre di allergie o intolleranze alimentari, specialmente “nascoste”, a fronte di un aumento di peso, presenta di pari passo anche un peggioramento della salute generale con affaticamento e rallentamento di tutte le funzioni fisiologiche.
Una dieta povera di nichel, quindi, può essere la soluzione per smaltire i chili di troppo e ritrovare il naturale benessere in chi abbia sviluppato allergie o sensibilità a questo metallo. Buono a sapersi visto che stiamo parlando di una fetta consistente di popolazione!


23 maggio 2016

Pane e ancora pane ma per gusti diversi e sempre adatto a buone colazioni!

Si pane...ancora pane...per tutti quelli che lo amano come ma lo vogliono sano, buono digeribile, da mangiare a colazione o farci uno spuntino veloce...


Pane di Timilia, farina di lupino, farina di grano saraceno e un mondo di semi misti!



 Pane di Timilia, farina di castagne, farina di Carosella del Pollino, latte di riso e nocciole spezzettate!

27 aprile 2016

Intervista al Dott. Keith Grimaldi, uno dei padri della Nutrigenetica

 Dott. Grimaldi Che cos’è la nutrigenetica? 

Scientificamente, la nutrigenetica è lo studio di come la variazione genetica nei geni individuali influenza la risposta di un individuo a particolari nutrienti e tossine nella dieta.

Che cosa sta tentando di fare la nutrigenetica? 

La nutrigenetica aspira ad usare l’informazione genotipica di un individuo per determinare le proprietà delle proteine codificate da certi geni e in questo senso l’effetto sul metabolismo, trasporto ed assorbimento dei nutrienti nella dieta e l’effetto sull’eliminazione delle tossine. Una variazione genetica, p. es. uno SNP, può influenzare l’attività di un enzima che può influenzare il metabolismo di un nutriente come l’acido folico. Questo è esattamente analogo alla farmacogenetica dove la variazione in un gene influenza la velocità del metabolismo del farmaco.
Noi abbiamo linee guida standard del mangiar sano che sono basate su molti anni di prove scientifiche accumulate principalmente da studi epidemiologici e di intervento (e NON prove cliniche). Queste linee guida sono state sviluppate per aiutare a mantenere uno stile di vita salutare più a lungo possibile. Lo scopo della nutrigenetica è di essere capace di modificare le linee guida alimentari in accordo col genotipo e fenotipoindividuali – anche la nutrigenetica è basata su molti anni di prove scientifiche accumulate principalmente da studi epidemiologici e di intervento. Il livello di prove per la nutrigenetica è almeno all’altezza di quello usato per sviluppare e giustificare le linee guida standard.


Che cosa propone al consumatore/paziente? 

L’uso dell’informazione genetica sia per la guida delle scelte alimentari e sia per informare gli individui circa l’importanza dell’alimentazione, del cibo e del metabolismo. La nutrigenetica ci mette in grado di usare il genotipo ed il fenotipo per migliorare la nostra conoscenza di come il cibo lavora insieme con il corpo. L’aspetto informativo di un servizio nutrigenetico è estremamente importante – gli scienziati lo usano e imparano da esso, dunque perché non potrebbe trarne benefici anche il pubblico? Purché l’informazione sia fornita in un modo serio, responsabile e corretto allora il risultato sarà benefico per il paziente/consumatore.


















La nutrigenetica definirà un’alimentazione perfetta? 

No, non si pretende tanto. Usando l’evidenza corrente che è disponibile nella letteratura scientifica “peer reviewed” la nutrigenetica può essere usata per programmare un’alimentazione che è migliore di quella delle linee standard che offre “una taglia unica per tutti” quando in realtà le variazioni genetiche significano una diversità metabolica. Abbiamo ancora tanto da studiare, può darsi che non raggiungeremo mai quella dieta “perfetta”, ma abbiamo accumulato una conoscenza che possiamo usare adesso, stiamo muovendo i primi passi essenziali.

Dunque qual è il punto, sarà realmente di aiuto? 

Lo scopo di tutti i consigli alimentari è di stabilire abitudini del mangiare buono permanentemente perché una buona salute nella vita più tarda dipende molto da come la vita è stata precedentemente vissuta. Piccole variazioni, anche variazioni apparentemente insignificanti, possono produrre una grande differenza nell’arco di 10-20 anni. Per esempio l’eccesso di calorie al giorno richiesto per aumentare di 15 Kg dall’età di 20 anni all’età di 40 anni è soltanto di 10 calorie, che è proprio mezzo cucchiaino di zucchero in più al giorno! L’aiuto che ci offre la nutrigenetica è l’averci fatto capire che ciò non vale per tutti ma solo per coloro che sono geneticamente predisposti.

C’è qualche prova scientifica per la Nutrigenetica? 

Sì, molta. A parte i nostri propri studi ci sono letteralmente migliaia di studi “peer reviewed” che sono stati pubblicati nel corso degli ultimi due decenni e che dimostrano scientificamente le interazioni gene-dieta. Il livello dello studio scientifico è in generale molto alto ed è di qualità simile, se non più rigoroso, delle prove scientifiche usate per giustificare i consigli alimentari standard, come consumare molta frutta e verdura, ridurre i grassi saturi, ridurre gli zuccheri ecc 

15 marzo 2016

Curcumina e sindrome metabolica




La curcumina è il componente attivo più studiato della curcuma, é dotata di un ampio spettro di attività farmacologiche e mostra una potenziale attività per il trattamento della sindrome metabolica, l'obesità e il diabete. Nel tessuto adiposo umano, la curcumina riduce l'espressione di adipochine, interleuchina-6 (IL-6) e tumore necrosis factor-alfa (TNF), potenti agenti pro infiammatori e induce l'espressione di adiponectina, l'agente antinfiammatorio più importante secreto dagli adipociti. La curcumina presenta effetti anti-iperglicemici e insulina sensibilizzanti. Inoltre, la curcumina ⪚rav e; inibitore selettivo della 11-betaHSD122 umana, la cui attività è in relazione con alte concentrazioni di cortisolo nel tessuto adiposo e con lo sviluppo di obesità centrale, insulino-resistenza, e diabete in modelli murini. Nell'uomo il cortisolo è uno dei fattori importanti nel promuovere la sindrome metabolica. La curcumina è purtroppo una molecola scarsamente biodisponibile quando assunta per via orale ed è per questo che negli ultimi anni sono sorte diverse forme di curcumina, dove la sostanza si trova coniugata ad altre molecole allo scopo di favorirne l'assorbimento e un'emivita più lunga. Sulla base di queste conoscenze, alcuni ricercatori hanno valutato in uno studio(1) controllato randomizzato, la tollerabilità e l'efficacia di un complesso curcumina-fosfatidilserina in forma di fitosoma e di fosfatidilserina pura in soggetti in sovrappeso affetti da sindrome metabolica, con particolare attenzione alla intolleranza a l glucosio e all'accumulo di grasso di tipo androide. Un gruppo di 127 soggetti, sono stati sottoposti a un trattamento di 30 giorni che includeva correzione dietetica e modificazione dello stile di vita. I soggetti hanno mostrato una perdita di peso inferiore al 2%. Tra questi, 44 soggetti sono stati assegnati casualmente rispettivamente o a un gruppo che per ulteriori 30 giorni ha proseguito aggiungendo l'assunzione CUR-SER o a un gruppo che ha proseguito aggiungendo solo fosfatildiserina.

I risultati riguardanti le misurazioni antropometriche e la composizione corporea sono stati analizzati al momento dell'arruolamento e dopo 30 e 60 giorni.

La somministrazione di curcumina aumenta la perdita di peso dall' 1,88 al 4,91%, una percentuale di riduzione del grasso corporeo (0,70-8,43%), una riduzione del girovita (2,36-4,14%), il miglioramento della riduzione della circonferenza fianchi 0,74-2,51% e la riduzione del BMI (dalle 2.10 al 6,43% del) (p

La tollerabilità è stata molto buona per entrambi i trattamenti. Anche se preliminari, i risultati suggeriscono che una forma biodisponibile di curcumina è ben tollerata e in grado di influenzare positivamente la gestione di peso nelle persone in sovrappeso affetti da sindrome metabolica. Di Pierro F, et al. Eur Rev Med Pharmacol Sci. 2015 Nov;19(21):4195-202.


Eugenia Gallo
CERFIT Fitovigilanza
AOU Careggi - Università di Firenze


04 gennaio 2016

Colon Irritabile e carenza da vitamina D

Uno studio condotto presso l’Università di Sheffield e pubblicato sulla rivista BMJ Open Gastroenterology, ha evidenziato che l’82% dei soggetti che lamentano disturbi riferibili alla sindrome del colon irritabile mostrano anche una carenza di vitamina D.

Guidati da Bernard Corfe, gli esperti britannici hanno analizzato il sangue di un gruppo di pazienti con questo disturbo intestinale e osservato che nell’82% dei casi era associato con una carenza di vitamina D. E’ anche emerso che la gravità del disturbo per ciascun paziente è intimamente correlata col grado di tale carenza vitaminica: ovvero maggiore è la carenza, più grave e invalidante si presenta il disturbo. Lo studio suggerisce l’opportunità di fare uno screening della concentrazione di vitamina D in pazienti con questo disturbo e potenzialmente anche di tentare un’integrazione vitaminica per verificare se questa possa essere di aiuto nella gestione dei sintomi.
La sindrome da colon irritabile è un disturbo diffuso e molto variegato, sia nei sintomi (i più comuni sono dolori addominali, crampi, costipazione o diarrea) sia nel livello di gravità che lo contraddistingue. Si stima che colpisca il 10-15% degli adulti, è esacerbato da dieta scorretta e vita stressante e, in molti casi, può avere un impatto significativo sulla qualità della vita.
http://www.nutrieprevieni.it/colon-irritabile-e-carenza-di-vitamina-d-ID3533 

03 ottobre 2015

Cancro alla prostata e integratori del pr Fabio Firenzuoli

Impressionante leggere dai media le notizie riprese dalla letteratura scientifica … perché poi si pone sempre il dilemma di andare o non andare e come andare a consultare la letteratura scientifica alla fonte.  E’ il caso ad esempio dell’ultimo lavoro di recente pubblicato dal gruppo del Gontero P. e coll.  dell’ Università di Torino sui rischi degli integratori per il cancro alla prostata. Ieri è comparso su La Stampa di Torino un articolo titolato “Troppi integratori  alimentari provocano il tumore alla prostata”. Ora capisco anche il fatto che i titoli dei giornali hanno il significato ben preciso di far vendere o di comunque di attirare l’attenzione del lettore, ma… santamadonnina, si sta parlando di patologie gravi e diffuse come il cancro, e non si possono lanciare così nell’etere notizie allarmanti,  quando vai davvero a leggere il lavoro ti rendi conto che ci sono cose che non tornano…
Eh insomma…
Allora ripartiamo dall’inizio del mio discorso.
Chi lancia la notizia scientifica in particolare se vuol essere sensazionale, si deve accontentare di quello che gli viene riferito ? deve leggersi il riassunto del lavoro presentato ad un congresso? Il riassunto del lavoro in fase di pubblicazione una volta accettato per la pubblicazione su una rivista ? o solo quando pubblicato ? o forse non è meglio leggere tutto il lavoro per esteso già pubblicato ? o ancora leggerselo tutto ed entrare nel merito del lavoro per capire come è stato condotto davvero il lavoro ? per poter meglio trasferire l’essenza della ricerca ai suoi lettori ovviamente, in un linguaggio semplice e chiaro.
Ebbene, tutto questo processo, che può richiedere più o meno tempo ed  ovviamente delle competenze, è indispensabile, e può essere mediato anche da un tecnico, ma mi ripeto, è indispensabile, soprattutto quando si devono far passare notizie  cosiddette perlomeno apparentemente “rivoluzionarie” altrimenti si rischia di prendere anche delle cantonate…
Ebbene leggere questo lavoro specifico dal vivo, cioè pubblicato per esteso è stato per me una sorpresa nella sorpresa, perché da La Stampa, avevo appreso che un supplemento di selenio, licopene e tè verde provoca il cancro alla prostata, leggendo il lavoro sulle pagine della rivista scientifica, ho trovato una serie di motivazioni tecniche , assolutamente non banale, anzi…, che dovrebbero far rivedere quantomeno la discussione e le conclusioni se non il disegno del lavoro stesso:
  1. è stata utilizzata una dose  giornaliera di licopene superiore al doppio di quanto ammesso dal ministero, quando c’era già da tempo letteratura sui rischi di una supplementazione esagerata di licopene …
  2. perché lo hanno somministrato in un’unica compressa associandolo al tè verde, per il quale invece c’è ampia letteratura relativa alla attività protettiva del tè verde  ?
  3. avrebbero dovuto semmai nel tempo somministrare a gruppi distinti dosi diverse di licopene  e vedere se ci fossero state risposte diverse
  4. oppure creare gruppi distinti con comunque le varie sostante separate
  5. è stato somministrato un estratto di polifenoli di tè verde di cui manca la  analisi qualitativa e lo studio di farmacocinetica
  6. è stato condotto uno studio così complesso, durato molti anni,  coinvolgendo tante strutture, uomini, mezzi, risorse, per anni e anni, in realtà studiando in tutto soltanto 27 trattati su un totale di 60 arruolati.
  7. dei pazienti non è stata studiata la storia familiare di carcinoma prostatico
  8. quindi per concludere (siccome poi quando si parla di efficacia si pretendono, giustamente, sempre i grandi numeri) in questo caso invece si deve dire che su un piccolo numero di pazienti trattati, pur essendo state utilizzate tecniche sofisticatissime, in realtà non sono stati adottati una serie di accorgimenti, forse banali, che avrebbero magari alla fine farci capire se davvero qualcuna di quelle tre sostanze fosse stata rischiosa o meno per qualcuno di quei pazienti.
  9. Ma sarebbero comunque serviti numeri enormi e disegni di studio adeguati a valutare la sicurezza e non l’efficacia.
  10. La stampa avrebbe dovuto tener conto anche di tutto questo
E ora, se me lo consentite, vado a farmi una bella tazza di tè verde.
Fabio Firenzuoli

07 settembre 2015

L'alimentazione personalizzata come rimedio all'infiammazione

L'infiammazione è esperienza condivisa da tutti, tanto che i farmaci antinfiammatori sono in assoluto i più venduti al mondo, come numero di pezzi. Ogni medico inoltre si confronta quotidianamente con fenomeni di infiammazione a bassa intensità che spesso durano a lungo e che per anni sono stati scarsamente compresi. Il sospetto di una relazione diretta con l'alimentazione è sempre stato molto forte, ma molti ricercatori si sono avvicinati in modo spesso controverso al tema delle cosiddette intolleranze alimentari scontrandosi con pregiudizi, petizioni di principio e proponendo in molti casi pratiche diagnostiche dubbie. La scoperta che un alimento può indurre la produzione di Baff (B Cell Activating Factor) o di Paf (Platelet Activating Factor) e provocare tutti i sintomi infiammatori che usualmente sono ascritti al cibo risale agli studi di Lied (1) del 2010 ma solo da poco è applicata in ambito clinico. La misurazione di queste citochine consente di capire il livello di infiammazione correlata al cibo eventualmente presente in una persona e di agire sugli aspetti nutrizionali per ridurla e per controllarne gli effetti sulla salute. Si tratta di una vera rivoluzione concettuale che consente di andare oltre la conoscenza di Ves e Pcr che da oltre 50 anni restano incredibilmente gli unici due "indicatori di infiammazione" usati dalla medicina in ambito clinico. Baff e Paf invece sono effettivi indicatori di una reazione dovuta anche al cibo, come documentato da Piuri (2). Si tratta di un primo passo verso la migliore comprensione delle reazioni dell'organismo che porterà in breve alla acquisizione e alla valorizzazione di altri biomarkers specifici che consentiranno sempre di più di caratterizzare il fenotipo di una reazione alimentare. Sappiamo che si tratta di una reazione dovuta all'immunità innata e all'attivazione di Toll Like Receptors (soprattutto Tlr2 e Tlr4), recettori che svolgono nell'organismo la funzione di segnalare un pericolo, che nel caso del cibo è il superamento di un livello di soglia nell'assunzione di cibo e manifestano la reazione infiammatoria come fosse una "luce di allarme" perché si cambi il comportamento alimentare. Poiché questa reazione non riguarda solo la Sindrome del colon irritabile o la colite ma anche patologie come artrite reumatoide, morbo di Crohn, lupus, diabete (3) e molte altre, l'approccio più moderno è quello di interpretare la reazione infiammatoria come un avvertimento o un segnale per un reale cambio di comportamenti che guidi il recupero dello stato di benessere attraverso una alimentazione personalizzata.
1) Lied GA et al, Aliment Pharmacol Ther. 2010 Jul;32(1):66-73. Epub 2010 Mar 26
2) Piuri G, Soriano J, Speciani MC, Speciani AF (2013) B cell activating factor (BAFF) and platelet activating factor (PAF) could both be markers of non-IgE-mediated reactions. Clin Transl Allergy 3:O5.
3) Kim YH et al, Exp Mol Med. 2009 Mar 31;41(3):208-16.


Attilio Speciani